ASTRONAVI BIOLOGICHE (PRIMA PARTE)

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Astronavi biologiche e piloti sintetici, macchine pensanti e astronauti geneticamente modificati. Sembra un racconto di fantascienza ma è quanto prepara la NASA per il prossimo viaggio verso Marte. Una tecnologia che forse l'ente spaziale ha desunto dai reperti alieni rinvenuti a Roswell e sulla Luna.

di Pablo Ayo

Macchine. Nel senso lato del termine, lo siamo anche noi. Macchine che pensano, che sudano, che elaborano. Milioni di dati che scorrono sotto la superficie della pelle, attraverso il nostro complesso neurale. Sensazioni di caldo, umido, ruvido, veloce, equilibrio, aspro, luminoso, voci sgradevoli o richiami lontani, qualcosa nella tasca o un refolo di vento che gela la pelle. Sensazioni, pensieri considerazioni astratte, continue compensazioni nel camminare, distribuire il peso, calibrare le espressioni facciali, trovare i tasti su di una tastiera senza guardare perché la nostra mente ormai li ha memorizzati, come i numeri di cellulare che conosciamo a memoria, come i nomi dei nostri amici, parenti, uomini famosi, personaggi storici, di attualità o persino di fiction: tutti memorizzati in uno spazio fisico grande più o meno come un melone, assieme a tutte le nostre esperienze di vita, le strade che abbiamo attraversato e gli errori fatti.

Nel mondo occidentale, in seguito a una lunga tradizione scientifica e razionale, consideriamo le macchine qualcosa di freddo e asettico, qualcosa che funziona per eseguire un lavoro o assolvere uno scopo in maniera determinata e meccanica, senza sensibilità, intelligenza o capacità di scelta. Associamo le macchine alle automobili, alle televisioni, ai tostapane, agli orologi di precisione o ai laser. Eppure, per altre culture, per altri punti di vista, il termine macchina è associabile perfettamente a qualcosa di biologico. D’altro canto, persino il moto dell’universo stesso e dei pianeti, il pulsare delle stelle, così come i ritmi della natura, la crescita delle cellule, il battere del cuore, sono tutti meccanismi perfetti. Ma non li definiremmo mai qualcosa di freddo e inumano.

Negli ultimi anni, numerosi testimoni di incontri ravvicinati o ex insiders governativi hanno parlato di “astronavi biologiche”, e per complicare ancora di più la scena, di piloti creati ad hoc per guidare dette astronavi, anch’essi in parte robotici, in parte biologici. Ma questo genere di tecnologia è davvero concepibile? E su che presupposti si baserebbe? Soprattutto, per quale motivo sarebbe stato necessario, per degli alieni, creare strutture ibride meccanico/biologiche?

I ‘robot biologici’ di Corso

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In ufologia si iniziò a parlare di astronavi biologiche con il colonnello Philip Corso, che come tutti sanno (o dovrebbero) lavorò dal 1960 al ’62 ad un progetto segreto del Pentagono proteso a ottenere dei progressi tecnologici consistenti grazie all’analisi di alcune apparecchiature trovate a bordo del velivolo alieno caduto a Roswell, New Mexico, nel 1947. A detta di Corso, le misteriose creature che guidavano la navetta erano EBE, Entità Biologiche Extraterrestri, una sorta di robot biologici (formati cioè non da parti meccaniche ma grazie a un’avanzata ingegneria genetica) programmati per resistere alle condizioni estreme dei viaggi spaziali e a saper guidare un’astronave grazie a una particolare interfaccia neurale di cui erano dotati, grazie alla quale erano in grado di connettersi con l’astronave quasi ne fossero una parte integrante. Questo tipo di affermazioni da parte di Corso, più che altre, lasciarono interdetti e un po’ scettici molti ricercatori che da anni si interessavano al fenomeno.

Era difficile per tutti concepire qualcosa di diverso dai robusti astronauti NASA tutti muscoli e capelli rasati e accento del Wisconsin o dell’Oklahoma, che salivano masticando gomme su di un rottame metallico pieno di carburante puntato come un dito verso il cielo, immaginare un concetto come un velivolo parzialmente biologico, e un pilota parzialmente tecnologico. Il nostro stesso concetto di democrazia si basa sul fatto che esistono cose e persone, entità biologiche con diritti e strumenti, mezzi, cose che non ne hanno. Anche se di recente diversi ricercatori hanno scoperto che persino le piante hanno un loro modo di ragionare, e che una forma di coscienza o consapevolezza è rinvenibile fino negli insetti o addirittura negli organismi cellulari, per noi esseri umani il concetto di una macchina biologica rimane comunque un assioma quasi inconcepibile, se non addirittura una contraddizione in termini.

Negli anni, altri hanno parlato di eventi che avrebbero riguardato interazioni con entità di altri mondi, e delle loro tecnologie. Il contattista messicano Carlos Dìaz, ad esempio, che dal 1981 avrebbe avuto dei contatti con esseri di altri mondi, è diventato famoso per le sue foto che ritraggono velivoli discoidali luminescenti, che lui definisce “Ships of Light”, astronavi di luce. Nel corso delle sue interviste, ha dichiarato spesso che a quanto gli è stato spiegato, quelle astronavi dai colori caldi erano in realtà degli organismi viventi.

Anche Bob Lazar, lo scienziato che sostiene di aver lavorato nella famigerata Area 51, ha parlato a suo tempo di alcune caratteristiche tecniche dei dischi volanti tenuti nella base militare USA. Stando a Lazar, ad esempio, internamente il pavimento dei dischi era formato da una sostanza spugnosa e gommosa, violacea, che diventava tesa e compatta quando si accendevano i motori a curvatura. Apparentemente, il pavimento sembrava formato da una sorta di pelle, ed era caldo e lievemente umido al tatto. Anche lo sportello di accesso del disco su cui lavorò Lazar era caratterizzato da proprietà sconcertanti: si apriva grazie a una sorta di telecomando a distanza, ma una volta richiuso, lo sportello non era più visibile, appariva in effetti alla vista una parete liscia e continua di metallo, anch’esso caldo. Nella descrizione di Lazar, era come se se gli atomi del metallo si fondessero tra di loro, come una ferita che si richiude. Anche questa caratteristica avvicinerebbe il concetto delle astronavi di origine aliena più a una sorta di essere organico che a una semplice macchina.

Un altro ricercatore ben noto ai lettori più attenti, lo scomparso William Hamilton, ex pilota USAF ed esperto di sistemi informatici, fece a suo tempo delle interessanti affermazioni sulla reale natura degli UFO: “Nel corso delle mie ricerche ho scoperto un certo numero di elementi alla base della tecnologia UFO. Mi riferisco ad Orfeo Angelucci, che ho avuto modo di conoscere, il quale dichiarava di aver avuto esperienze di contatto, negli anni dal 1953 al 1955 e raccontava che i dischi volanti che aveva visto e gli esseri che aveva incontrato, provenivano da un’altra dimensione temporale. E gli oggetti non erano costruiti come noi costruiamo gli aerei oppure le automobili, no, gli oggetti crescevano, come fa un cristallo… tutti i sistemi di cui necessitavano crescevano internamente, proprio come nel sistema del corpo umano, o di un fiore. Gli UFO vivono attraverso un processo organico.”
Alcune notizie sulle EBE vennero a suo tempo divulgate dal dottor Dan Burisch nella seconda metà del 2002, in particolare in merito agli studi da lui condotti su un presunto extraterrestre nell’Area 51 a partire dal 1986. Burisch, che è un microbiologo, venne condotto in un laboratorio sotterraneo, dove studiò la biologia dell’essere alieno definito J-Rod, apparentemente un classico grigio. Dato che apparentemente J-Rod soffriva di una degenerazione dei tessuti nervosi, a Burisch fu chiesto di prelevare del tessuto dal braccio dell’essere per effettuare degli esami medici.

A detta del microbiologo, c’era una profonda interconnessione biologica tra la creatura e la tecnologia dell’astronave. J-Rod in qualche modo era stato programmato geneticamente per fungere da interfaccia biofisico con l’astronave, tramite innesti nelle mani e la testa. Questo tipo di EBE possedevano sulle mani una sorta di cuscinetti dove sono presenti nervi scoperti protetti da varie glicoproteine che vengono selettivamente spinte all’esterno o all’interno con l’azione dei capillari, quasi come se una guaina viscosa permettesse a J-Rod di avere un interfaccia diretto con la nave.

Stando a Burish, la biologia di quel tipo di creature era molto complessa ma anche estremamente compromessa, anche da alcune schede mediche riservate giunte in suo possesso sembrava che essi fossero affetti da diverse patologie virali. È possibile che in qualche maniera la struttura genetica delle EBE, studiata appositamente per coincidere e funzionare in parallelo con delle strutture biotecnologiche delle astronavi, fossero particolarmente delicate, tanto che a contatto con alcuni elementi inquinanti del nostro pianeta potesse danneggiarsi o infettarsi.

Il ricercatore americano Derrel Sims da anni compie attenti esami sugli impianti metallici estratti agli addotti. Questi oggetti risultano nascosti, o meglio “avvolti” in una specie di bozzolo biologico che non evidenzia alcuna reazione infiammatoria, né cronica né acuta. Qualcosa che i patologi non credevano possibile, eppure sono stati proprio i rapporti patologici a confermarlo. “Ecco cosa si constata”, afferma Sims: “Nessun punto d’entrata, nessuna lesione e nessuna cognizione da parte delle persone in questione di come gli oggetti si trovino dentro il loro corpo, a parte la consapevolezza di una qualche manifestazione aliena, suffragata dalla testimonianza di altre persone presenti agli eventi. Nessuna reazione infiammatoria a corpi estranei che certi segni visibili comprovano essere stati innestati anche 40 anni prima. Incredibile”.

È possibile che la perizia che dimostrano gli alieni nel far coesistere impianti tecnologici all’interno di corpi biologici umani evitando ogni tipo di rigetto derivi dalla loro lunga esperienza nel campo della medicina e dell’ingegneria genetica tesa a creare entità biotecnologiche, astronauti umanoidi ibridi? E i bozzoli biologici di cui parla Bonvin, potrebbero essere dei tessuti creati in laboratorio per facilitare la coesistenza di impianti tecnologici installati in entità biologiche programmate geneticamente per vivere nello spazio?

Astronauti geneticamente modificati

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L’idea di creare ad hoc un essere umano metà biologico metà sintetico perché diventi tutt’uno con una astronave e sia adatto a vivere nello spazio sembra pura fantascienza. Eppure, i recenti studi della NASA per il futuro viaggio umano verso Marte ha portato a incredibili, sconvolgenti conclusioni. Nonostante per gli Stati Uniti trovare velocemente una via per il pianeta rosso sia imperativo, le difficoltà non mancano. È di pochi mesi fa la notizia che ora gli scienziati americani stanno conducendo enormi ricerche per scoprire i possibili danni cerebrali causati da una lunga esposizione ai raggi solari senza la protezione delle fasce di Van Allen. Gli scienziati difatti temono che l’incredibile quantità di radiazioni cosmiche e solari a cui saranno sottoposti gli astronauti potrebbe danneggiare pesantemente il loro cervello, fino a ridurli addirittura in stato vegetativo, sempre che riescano a sopravvivere.

Lo chiamano il “Fattore Rischio 29″ alla NASA, e il problema dei raggi cosmici e solari è talmente decisivo che viene definito “show-stopper”, cioè un problema che porta lo show del viaggio verso Marte a fermarsi, questo perché schermare tutta l’astronave dalle radiazioni la farebbe aumentare vertiginosamente di peso, e di conseguenza troppo pesante per essere spinta con successo fino a Marte, che rammentiamolo, dista ben 38 milioni di miglia dalla Terra. Ora gli scienziati più praticamente stanno cercando dei farmaci che stimolino la biologia umana, rafforzando i neuroni cerebrali, impedendogli di subire passivamente i deleteri effetti dei raggi cosmici per un prolungato periodo di tempo. Il progetto, a il quale la NASA ha stanziato ben 14 milioni di dollari per la ricerca, non solo eliminerà (si spera) i rischi per gli astronauti, ma potrebbe avere dei risultati positivi anche per le malattie neurologiche, come l’Alzheimer.

A parte il fattore Rischio 29, alla NASA hanno analizzato altri 45 punti di rischio per la salute degli astronauti in un viaggio che dovrebbe durare, nel migliore dei casi, almeno due anni. Questi vanno da osteoporosi accelerata, dolori articolari, difficoltà di movimento, incapacità di guarire spontaneamente da piccoli malesseri, la mancanza di abbastanza scorte di cibo e, naturalmente, la forte possibilità di screzi e “tensione interpersonale” ” tra i vari membri dell’equipaggio. Ma questo lo immaginavamo già dai tempi del primo “Grande Fratello” televisivo.

Per rendere le cose più complicate, una possibile traiettoria della futura astronave prevede di navigare prima verso Venere, girargli attorno e sfruttare il suo “effetto fionda” gravitazionale per acquistare velocità, quindi uscire dall’orbita e dirigersi verso Marte. Ma questo, naturalmente, vorrebbe dire avvicinare ancora di più l’equipaggio al sole, per diversi mesi. “Stiamo parlando di reazioni ignote delle radiazioni nei confronti del corpo umano, cose che abbiamo visto forse solo dopo i disastri atomici come Chernobyl. In effetti, il sole è una sorta di gigantesco reattore nucleare”, sostengono alla NASA. Capite da soli quanto le possibilità che tale viaggio riesca, oltretutto entro breve tempo, sono assai rare. A detta di alcuni esperti NASA, per poter vivere nello spazio, gli astronauti dovrebbero subite delle trasformazioni biochimiche, o mutazioni del codice genetico, diventando così quasi una sorta di ibridi, resistenti a tutte le avversità di un volo spaziale.

Esseri viventi meccanici

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Il primo a parlare di astronavi biologiche fu nel 1953 lo scrittore di fantascienza Robert Sheckley, , in un suo racconto intitolato “Specialist”. In questo racconto, un umano chiamato Pusher prende parte a una relazione simbiotica con un’astronave assieme ad altri alieni, diventando tutt’uno con una astronave biologica definita bioship. Ogni essere aveva una funzione diversa, prestando le proprie qualità organiche all’astronave. La funzione dell’umano era quella di usare il potere derivante dall’uso della sua ghiandola pineale per accelerare la nave stellare fino a una velocità 8 volte superiore a quella della luce. Benché questa fosse solo una storia di fantascienza, sono molti i resoconti di IR3 e IR4 in cui i testimoni narrano un modo simile di concepire le astronavi e il loro utilizzo.

Nei racconti dei testimoni, i piloti alieni sembrano in grado di sentire l’astronave “soffrire” in determinati casi, e in altri la maniera in cui l’astronave svolge le sue funzioni sono assimilabili a funzioni organiche: la respirazione della bioship climatizza la nave, le rotture dello scafo vengono percepite come ferite, e una sorta di sistema automatico simile al sistema immunitario provvede a richiuderle, mentre il sistema di guida e di movimento della nave è simile al nostro sistema nervoso e motorio. In questa ottica, guidare un’astronave – specie di grosse dimensioni come una astronave madre – sarebbe impossibile se questa non avesse in sé una serie di funzioni automatiche organiche. In tal modo, guidare tale mezzo sarebbe più simile a cavalcare un grosso animale che a pilotare uno strumento metallico. Nel recente remake della serie TV Battlestar Galactica si descrive come le astronavi madre dei Cyloni siano guidate e coordinate da una creatura ibrida, metà computer e metà umanoide, che elabora costantemente i dati di navigazione e che vede le stelle nella sua mente.

Per quanto questi concetti possano apparire inconcepibili a prima vista, è proprio così che le creature aliene di Roswell guidavano la loro astronave, stando alle rivelazioni di insider comeCorso ed altri. Stando alle testimonianze di chi partecipò al recupero delle EBE precipitate a Roswell, New Mexico, nel 1947, almeno due di esse, benché ferite, stringevano spasmodicamente due strane tastiere, quasi fossero terrorizzate di perderle. Tali tastiere vennero poi rese famose da alcuni spezzoni video che le mostravano: sembravanodei rettangoli di metallo leggero, simile all’alluminio, di circa 60 cm di lunghezza e 25 di larghezza, spesse 5 cm. Tali “tastiere” avevano due ordinidi foridisposti ad arco (uno superiore, l’altro inferiore), mentre nel centro della stessa si notava l’incavo per poggiare una mano a sei ditasulla stessa tastiera. Qualcuno ha ipotizzato che dei raggi di luce simili a fotocellule uscissero dai fori, e che le EBE dessero i comandi al velivolointerrompendo temporaneamente la fotocellula, ottenendo un azione simile a spingere un pulsante.

Ma perché stringevano così forsennatamente le tastiere? È possibile che fungessero, vista la mole, anche da Hard Disk, e che contenessero dunque anche tutti i dati di navigazione stellare? Se così fosse, senza tali tastiere essi non sarebbero mai tornati a casa. E la delicatezza necessaria nell’utilizzo di tali tastiere avrebbe reso logico la presenza di recettori nervosi particolari sui polpastrelli delle EBE, proprio come quelli che secondo le testimonianze aveva J-Rod.

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Ma una domanda mi rimaneva: perché mai fare una scanalatura sulle tastiere per fissare la mano al proprio posto? Non vedevano, i piloti alieni, dove dovevano mettere le mani?
Di recente stavo svolgendo un lavoro, e mi venne chiesto di informarmi sulla tecnologia necessaria per creare un sito web per non vedenti. Incuriosito, iniziai a navigare tra siti che vendevano apparecchi di nuovissima generazione che permettevano l’uso del PC, ma anche di internet, ai non vedenti. Fu un lieve shock ritrovare in quei cataloghi la copia quasi identica delle tastiere di Roswell. Come è fatta una tastiera braille per non vedenti? Innanzitutto c’è una scanalatura o una “guida” che indica in maniera tattile al non vedente dove deve mettere le dita. In certi casi tale guida è formata direttamente da dei grossi tasti – uno per ogni dito – che possono venire azionati singolarmente. Oltre ad altri bottoni, vicino ai polsi c’è una stringa di minuscoli elementi che si possono alzare a seconda del testo letto dal PC, eseguendo la “traduzione” braille in tempo reale, e un’altra fila di tasti configurabili.

Tutte le tastiere per non vedenti hanno una base di concezione simile, e sempre uguale. Solo una tastiera per “vedenti” fa eccezione (anche se viene spesso usata da chi ha disagi o disabilità) e assomiglia lievemente a quelle braille, la DataHand Pro, formata da due quadrati in cui si “alloggiano” le mani in un incavo, e nel punto in cui si muove il polpastrello ci sono dei pulsanti cliccabili. Per pura coincidenza, proprio la tastiera DataHand venne scelta per apparire nel film “Contact” del 1997, come “controller” della macchina per i viaggi spaziali comandata da Jodie Foster.

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Ma cosa vuol dire tutto questo? È ovvio che le EBE ci vedevano benissimo, lo dicono i testimoni e si evinceva anche dai rapporti autoptici di White Sands. Ma allora perché le tastiere “per ciechi?” Si può pilotare un’astronave senza occhi? Risposta: sì, se i tuoi occhi sono tutt’uno con le telecamere esterne dell’astronave.

Gli occhi elettronici dell’HMDS

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L’Helmet Mounted Display System (HMDS) della VSI ha volato per la prima volta a bordo dell’F-35 Lightning II, indossato dal pilota collaudatore Jon Beesley della Lockheed Martin. Frutto del quinquennale lavoro di sviluppo della Vision Systems International, LLC, il nuovo casco ha completato tutti i test di sicurezza in volo permettendo un’espulsione del seggiolino a 450 KEAS (knots equivalent air speed), con integrità strutturale fino a 600 KEAS. Sostituendo il tradizionale HUD, l’HMDS, dotato di sofisticati sistemi di processazione grafica e head-tracking, si interfaccia con l’avanzata architettura avionica del Joint Strike Fighter fornendo al pilota informazioni critiche aggiornate proiettandole direttamente sul visore dell’elmetto, rendendo così possibile l’ingaggio di obiettivi fuori asse, in condizione ognitempo, e aumentando drasticamente la situational e tactical awareness grazie alla convergenza di dati proveniente dalla sensor fusion del velivolo. L’F-35 è il primo caccia a volare con una versione più evoluta di un casco di tipo HUD (head-up display), una tecnologia che già al suo primo apparire, negli anni ’70, fu una autentica rivoluzione.

L'Head-Up Display (visore a testa alta), o semplicemente HUD, è un tipo di display che permette la visualizzazione dei dati di volo (ad esempio quota, velocità e beccheggio) senza dover costringere lo sguardo a soffermarsi sui vari strumenti nella cabina (o abitacolo). Questa tecnica è stata inizialmente introdotta per l'aviazione militare ma è stata in seguito adottata anche dall'aviazione civile, implementata su veicoli terrestri e marittimi oltre che in varie applicazioni di altri settori.

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Ad oggi esistono due tipi di HUD: Fisso, in cui l'utilizzatore guarda attraverso uno schermo trasparente montato sul pannello degli strumenti dell'aereo o sul cruscotto del veicolo. Gli aerei commerciali e gli altri veicoli terrestri e marittimi hanno installati apparati di questo genere. Il sistema determina l'immagine da presentare conformemente all'orientamento del veicolo. La dimensione ed il peso dello schermo possono essere di gran lunga superiori che per la seconda categoria di HUD. Integrato nel casco o nell'elmetto, in cui il display installato sulla visiera o su un mirino ottico si muove assieme alla testa del pilota. Questa tipologia richiede un più sofisticato sistema di monitoraggio degli spostamenti del corpo per stabilire rapidamente le immagini da proiettare a video. L'apparecchiatura sia ad elmetto che a mirino monoculare fonda la propria accuratezza sul corretto ancoraggio alla testa del pilota, per evitare eventuali errori di prospettiva e parallasse.

Nel casco HDM di nuovissima concezione, invece, le cose sono ancora più complesse: il casco HMD è dotato della possibilità di creare un “HUD” virtuale, afferma la VSI, visualizzando all’interno del casco alcuni simboli e dati così come mostrando immagini diurne o niotturne ottenuta dalle telecamere esterne dell’F-35’a 360° grazie a dei sensori a infrarossi e sensori di bersaglio elettro-ottici. Al posto dei vecchi CRTs (Cathode Ray Tubes), lo helmet mounted display system possiede due proiettori su matrici diagonali a cristalli liquidi (LCD) di 0.7 pollici, risoluzione 1280 per1024, una per ciascun lato dell’elmetto, su cui vengono proiettate le immagini di ripresa e i simboli di navigazione in tempo reale, in sovraimpressione e trasparenza rispetto alla visuale a vista. Le immagini del visore notturno sono trasmesse al casco via cavo ottico tramite vista binoculare in un campo delimitato da 40 gradi orizzontale a 30 gradi verticale. Le immagini trasmesse dal DAS all’elmetto vengono generate in tempo reale dai sistemi elettronici del caccia, basandosi sugli imput del VSI electromagnetic head tracking system.

“Rimpiazzare i vecchi caschi HUD con i nuovissimi HDM (helmet-mounted display) richiede però un precisissimo tracciamento elettronico dei movimenti della tsta del pilota, e un calcolo dei dati grafici velocissimo, a bassa latenza”, afferma la VSI, società di joint venture tra la Elbit Systems’ company EFW e la Rockwell Collins che producono il Joint Helmet-Mounted Cueing System usato dai moderni caccia USA. Difatti in questa tecnologia, in certi casi sono impercettibili movimenti della testa del pilota ad azionare dei comandi di accesso ai menù, o addirittura il movimento degli occhi.

“La cosa migliore per evitare che il pilota si distraesse durante il volo, dovendo egli fare diverse cose, era di avere tutte queste funzionalità unite in un unico strumento.” Gestendo direttamente l’avionica del caccia e i dati dei sensori, lo HMD diventa così un virtual HUD con gestione delle immagini riprese di lato o da dietro, eventualmente anche zoomabili. Inoltre lo HMD provvede dettagli sulle performance del proprio aereo, informazioni su minacce in arrivo o acquisizioni di bersaglio, gestione del radar e immagini a onde medie o quasi infrarosso (near-infrared – IR) provenienti da sei sensori IR montati sul caccia e un sensore per la visione notturna montato sul casco. Da un punto di vista percettivo, secondo Branyan la somma delle immagini fornite in tempo reale dai sensori – che cambia a seconda dell’inclinazione del casco – darà al pilota la sensazione di poter vedere a 360° attorno a sé, addirittura dove la visuale in teoria gli sarebbe coperta dalle paratie laterali o dal pavimento del caccia, quasi come una realtà virtuale di un videogioco.

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I problemi però esistono, e risiedono nella perfetta aderenza che il casco deve avere rispetto alla testa del pilota, per garantire una precisa lettura dei movimenti del capo e degli occhi. Per garantire al pilota la corretta visualizzazione delle informazioni è necessario che il casco calzi alla perfezione, tanto che è necessario misurare la testa di ogni singolo pilota con uno scanner laser (questo sia per l'HMD del Typhoon sia per quello del JSF). Dunque ogni singolo casco è in realtà un pezzo unico confezionato su misura del pilota. I “semplici” HMS (Helmet Mounted Sight) sono naturalmente di diverse misure come i cappelli, ma non individuali, mentre i moderni HMD (Helmet Mounted Display) sono in effetti individuali: il primo volo di test dell' HMD per l' F-35 si è svolto con un paio di settimane di ritardo rispetto al previsto, perchè il collaudatore della Lockheed per cui era stato confezionato il casco era malato, e nessun altro poteva indossarlo al posto suo.

Difatti non basta avere la stessa misura di circonferenza cranica per avere una visione corretta con lo HMD, perché anche tra persone con la stessa circonferenza cranica, la posizione delle pupille è variabilissima. In sintesi, si viene a creare una tale fusione tra il casco HMD e il pilota, che i due diventano una cosa unica, e se il pilota perdesse il suo casco individuale non potrebbe più gestire correttamente il suo caccia.

Da dove ha evinto questa tecnologia l’aeronautica americana? È possibile che anche questa tecnologia dei caschi HUD o la più recente HMD sia derivata dai reperti trovati a Roswell nel 1947? Se così fosse, si inizierebbe a capire perché sul velivolo di Roswell fosse necessario avere delle tastiere “per ciechi”: con un casco HDM ovviamente tutta l’attenzione visiva del pilota sarebbe stata focalizzata sul pilotaggio e gli obiettivi di guida, e una “fusione” dei precettori nervosi delle mani con le tastiere di guida avrebbe consentito un controllo praticamente perfetto sull’astronave. Esistono, a conferma di questa ipotesi, altri racconti di alcuni ex insiders militari o NASA, alcuni dei quali persino suffragati da dei video. Come il racconto della pilota aliena “Monna Lisa”.

PABLO AYO

Fonte: http://www.strangedays.it/aliendream/astronavi_biologiche_monalisa01.html