Bambini malati di città

di Valerio Pignatta



Le ricerche dimostrano che i bambini cresciuti in città hanno problemi di depressione o disagi emozionali. C'è davvero da stupirsi? Proviamo a ripercorrere la giornata di una famiglia italiana tipo.

Da una recente indagine psicologica condotta su bambini di aree urbane, sembrerebbe che circa il 10% di quelli compresi tra gli 11 e i 14 anni manifesti problemi psicologici e disagi emozionali.Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, ma questa volta vogliamo soffermarci su un aspetto diverso: questa ricerca è stata condotta su preadolescenti di zone urbane. Città.Sorge allora spontanea una domanda: ci vuole molto per un adulto, sensibile, un minimo informato e dotato di comune buon senso, afferrare istantaneamente la situazione e inquadrare questi bimbi nel loro contesto? Non credo.

Proviamo a descrivere la giornata tipo di uno di questi bimbi, ovviamente senza voler assolutamente generalizzare.

Sveglia al mattino intorno alle 7-7:30, con gli occhi arrossati e la mente ottenebrata dal poco riposo per il film della sera prima durato sino a tardi. Quindi, dopo la vestizione (è firmata? è abbastanza alla moda?), prima dose di cartoni animati in vena oculare che porta direttamente al cervello, mentre allo stesso tempo si provvede a fleboclisi orale di succhi o bevande pronte e merendine di plastica, inventate ad hoc per l'ingrasso dei consumatori d'allevamento.

Poi una sistemata generale (denti, capelli, zaino-alla-moda), uno sguardo al cellulare e si parte.

Mamma e papà si sono salutati prima con qualche borbottio gutturale di non chiara comprensione e provenienza. Uno dei due, dopo spigolosa discussione o fortunoso pari e dispari, scarrozza il piccolo a scuola, scappando poi di fretta al proprio lager di destinazione professionale per la gloria della crescita del PIL della nostra amata nazione.Il bimbo entra a scuola (anzi vi è già entrato prima accompagnato, per evitare imprevisti drammatici) e avvicinandosi alla porta della sua classe, e prima che inizi la lezione, si confronta con gli ultimi ritrovati tecnici del giorno, nuovi gadget, nuovi look, nuovi programmi tv, nuova informatica, nuove firme, nuovi Grandi Fratelli e nuove idiozie.

L'insegnante nel suo trucco sfavillante arriva tacchettando ed è ben conscia di tutte le “sacre novità” del giorno. È televisivamente aggiornata, ama/odia il suo lavoro e spera di andare presto in pensione.Seguono ore di competizione dallo sfrenato al patetico, induzione di concetti astrusi, memorizzazione sterile, indottrinamento “democratico” e consumistico e soprattutto esercitazioni forzate all'obbedienza.

Poi, mensa sì mensa no. Dipende. Non saprei dire qual è il bimbo più fortunato, se quello che mangia chimico alla mensa o quello che riesce ad andare a casa per un fast food condominiale in famiglia, tra il serio e il faceto, e qualche immancabile telefonata che si risucchia tutto. Sempre ammesso che questa non entri in colluttazione con la tv-prandiale. Allora è proprio meglio la mensa dei Findus. Perlomeno qualche organo, come il cervello, riesce ad avere i suoi minuti di gloria sfogandosi tra i propri simili.

Poi di nuovo in gabbia sino all'uscita. Arriva il genitore di turno. Si torna all'alveare.

In cortile non si può andare a giocare. Il regolamento condominiale lo vieta.

Andare a fare un giro? Prima i compiti e poi mamma oggi non può. Martedì e giovedì si va a karate. Sabato chitarra. Oggi ha da fare. Andare da soli? Sarebbe un thriller.Che fortuna! C'è la play station e poi anche la tv! Meno male. E le patatine.

E mamma si incastra con qualcuno al telefono e ora deve andare a fare delle compere… Ma chi sarà al telefono? Arriva papà tra poco e la cena è già pronta. Prontissima, color panna, quest'anno è di moda. Non c'è nemmeno da masticarla, basta trangugiarla di fronte alla suspence dell'ultimo programma a quiz.Hanno pensato proprio a tutto. E poi si può sognare di guadagnare milioni di euro indovinando qualche risposta da Pico della Mirandola dei beoti e di andare alle Maldive, che i Rossi ci sono già andati l'anno scorso e noi no.

Ora finalmente sono tutti lì riuniti, papà si incolla alla tv o al computer e mamma attacca con le solite requisitorie sulle vacanze, sulle sue cure al centro estetico e sul suo guardaroba che piange miseria.

La parola giusta. Miseria: culturale, spirituale.

Riparte il film di prima serata. E si ricomincia.

Tutto normale. Tutto fantastico.

E poi ci si stupisce se una ricerca rivela che i bimbi hanno problemi psicologici o soffrono di disagi emozionali?

Meno male! Credevo fossero dei robot. Allora c'è ancora una speranza.

Neanche nei paesini e in campagna le cose sono molto diverse. La tv, i supermarket, Internet, le autostrade hanno omologato tutto. Forse però per qualche volenteroso c'è qualche possibilità in più. Le maglie del sistema sono più ampie ed è possibile trovare qualche spazio per un'azione non conformata.Un pezzo di terra in cui giocare si può ancora trovare, senza bisogno di fare la spola coi propri figli tra palestra, ludoteca, corso di danza, nuoto ecc. Un giro in bicicletta si può fare senza pericoli. Un anziano contadino ti può raccontare qualche vecchia storia. Un cane, un cavallo, una capra, un gatto o un asino possono farti compagnia e darti amore.

La scuola ha un cortile verde dove è possibile in primavera uscire a giocare e a raccogliere i fiori. Le insegnanti sono persone abbastanza semplici (hanno scelto di decentrarsi), sempre televisivamente informate, ma magari fanno l'orto, il marito ha le pecore e fa il formaggio e fanno parte dell'Associazione culturale del paese. Della serie “fare di necessità virtù”.Il ritmo è ancora quasi umano. Se vogliono, i genitori un po' di tempo per i loro figli ancora riescono a trovarlo, dato che non ci sono le grandi “distrazioni” della metropoli che si vanno a insinuare come cunei destabilizzanti nella vita familiare.

Ripeto, con questo non è che si possa generalizzare. Ci saranno famiglie di campagna perfettamente teledipendenti che sbavano per l'ultima griffe della moda, soffrendone se non possono procurarsela e invece famiglie di città impegnate nel sociale, sostanzialmente sobrie e che si danno da fare per evitare le trappole del sistema per loro stesse e i propri figli.In generale però è un dato di fatto che il disagio minorile (e direi anche degli adulti) è una caratteristica delle aree urbane e soprattutto di quelle industriali del centro-nord.

Le solite classifiche delle città italiane sulla qualità della vita vanno probabilmente rivedute se non capovolte. Ora sono pensate solo quasi in termini di produttività, PIL e competitività.

Secondo un'indagine annuale del Sole 24 Ore sulla vivibilità nelle città italiane (pubblicata il 17 dicembre 2007)

Trento risulta essere la città al primo posto. Seguono Bolzano, Aosta, Belluno e Sondrio. Fanalini di coda: Catanzaro, Catania, Foggia, Benevento, Agrigento.

Se però prendiamo in considerazione i dati dei suicidi nelle stesse aree, forse qualche dubbio su graduatorie di tal genere ci potrebbe venire. Pensiamo ai suicidi come massima espressione dell'infelicità dell'essere umano (le cause psicologiche e depressive sono statisticamente le più influenti sulle decisioni di suicidio).

[link=http://giustiziaincifre.istat.it/Nemesis/jsp/NewDownload.jsp?id=4A|17A&anid=2007]I dati disponibili dell'ISTAT [/link] sui suicidi risalgono al 2007 e sono un chiaro indicatore di come vanno realmente le cose.Credo che questo tipo di confronto tra i dati ISTAT e quelli sulla vivibilità delle città si possa ritenere valido ogni anno (ho provato a farlo anche per il 2004 e i risultati sono quasi uguali). Vediamo qualche esempio.

La percentuale di suicidi riferita alla provincia di Sondrio (la più alta nelle prime cinque posizioni) è del 13,8% (si considerano qui quozienti per 100.000 abitanti). Quella di Bolzano è del 7,9%. Quella di Aosta del 6,4% e Belluno 9,8%. E Foggia? 5,1%. Quasi un terzo dei suicidi di Sondrio. Agrigento 7%, Benevento 5,5%, Catania 3,6%, Catanzaro 2,7!

Al Nord complessivamente la percentuale è del 6,2% mentre al Sud è del 4,1%.

Non dico che sia facile interpretare tutte le varianti che interessano un fenomeno di questo genere. Sicuramente però si possono iniziare a sfatare alcuni miti legati all'industrialismo e alla crescita economica, e cercare di capire cosa stanno patendo i nostri figli urbanizzati e industrializzati.

Se si esclude il caso anomalo di Trento per il 2007 (tasso dell’1,4% di suicidi su 100.000 abitanti) – ma nel 2004 ad esempio era identico alle altre città del nord, 7,8% – si può forse ipotizzare che la competitività delle città industriali, il ritmo frenetico, il lavoro come valore finale dell'esistenza veicolano molto stress, senso di solitudine e disistima in chi non regge il passo. Cosa che è probabilmente più sfumata nelle zone marginali del sistema.

Le dinamiche sociali e individuali sono molto complesse e non è il caso di fare semplificazioni superficiali. Però è anche intuitivo che un appartamento-batteria d'allevamento di una metropoli non è paragonabile allo stato selvatico nel bosco.

Persi tra i prodigi high tech, ci dimentichiamo spesso dell'essenza dell'essere umano, e ci scordiamo che la gioia di vivere e l'armonia psicologica sono direttamente e in modo speciale legate alla libertà e all'integrazione nel mondo naturale, da cui proveniamo e da cui dipendiamo. Checché ne dicano cemento, plastica, megaschermi e luci della città.

FONTE:
http://www.terranauta.it/a760/l_urlo/bambini_malati_di_citta.html