C’era una volta il fotone

Rappresentazione artistica di un sistema binario di stelle di neutroni. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/CI Lab

Lo scorso 17 agosto, in quell’oceano agitato che chiamiamo universo, sono state viste sollevarsi insieme, dallo stesso fenomeno, onde elettromagnetiche e onde gravitazionali. Un evento che segna una svolta senza precedenti nella storia dell’astrofisica.

Coalescenza, la chiamano gli astrofisici. Una parola non di uso comune per indicare la fusione di due entità in una. O, in ambito medico, la rimarginazione di una ferita. È la coalescenza di due stelle di neutroni, quella registrata per la prima volta nella storia il 17 agosto scorso e annunciata oggi dagli scienziati nel corso di conferenze stampa simultanee in tutto il mondo. Ma non sono state “solo” due stelle di neutroni, a unirsi: quella che viene celebrata oggi è anche la ”coalescenza” di due modi d’indagare la Natura, di due sensi per percepirla, di due comunità per studiarla. E in un certo senso, come vedremo, è anche una “ferita” che si rimargina.

La nascita d’una nuova era per l’astronomia, hanno detto. Per una volta, non è un’esagerazione: questa nuova astronomia che, in mancanza di termini più adeguati, viene per ora definita – con un aggettivo un po’ goffo – multi-messaggera, rappresenta in effetti una svolta rivoluzionaria nello studio dell’universo.

Onde elettromagnetiche e onde gravitazionali

Perché multi-messaggera? A parte qualche sporadico neutrino, gli unici “messaggeri” di cui gli astronomi hanno potuto avvalersi nel corso dei millenni sono le onde elettromagnetiche, ovvero fotoni. Erano fotoni quelli che i primi rappresentanti della specie umana chiamarono Sole e Luna. Erano fotoni quelli che, scrutati dall’anello di menhir a Stonehenge e da mille altri osservatori primitivi, assumevano la forma di costellazioni. Erano fotoni i satelliti medicei di Galileo, l’Urano di Herschel, l’emissione radio della Via Lattea di Jansky, i raggi X che valsero il Nobel a Riccardo Giacconi e la radiazione del fondo a microonde – proveniente dritta dal big bang – che faceva gracchiare il ricevitore di Penzias e Wilson. Erano tutti e solo fotoni. Luce. Onde elettromagnetiche. Era come conoscere la Cina esclusivamente attraverso le parole di Marco Polo. Un’astronomia mono-messaggera, appunto.

Questo fino al 14 settembre del 2015. Quando i laser degli interferometri Ligo, negli Stati Uniti, registrarono un fenomeno mai rilevato prima: il passaggio d’un’onda gravitazionale. Quella non era un’onda elettromagnetica, non era luce, non erano fotoni: era un “messaggero” completamente diverso. Se fino ad allora s’era solo visto il lampo, da quel giorno di due anni fa riusciamo a sentire anche il tuono. Di colpo ci siamo ritrovati con un senso in più.

La beffa dei buchi neri

Successo epocale, certo, già valso tre Nobel. Ma soddisfazione a metà. Eh già, perché la Natura sa essere beffarda come nient’altro. A eccitare quel senso nuovo di zecca per le onde gravitazionali, guadagnato con una lotta intellettuale e tecnologica impari dai fisici della collaborazione Ligo-Virgo, a eccitarlo, dicevamo, parevano riuscirci soltanto gli unici dannatissimi oggetti di tutto l’universo che non emettono fotoni: i buchi neri. Come se, dopo un’era interminabile di cinema muto, ecco che quando finalmente arriva il sonoro tutti i registi cominciassero a produrre esclusivamente pellicole con l’audio, sì, ma sullo schermo nient’altro che nero.

È stato così per tutte le onde gravitazionali confermate fino a metà agosto: in tutti e quattro i casi, all’origine dello sconquasso spaziotemporale c’era la fusione di due buchi neri. Fenomeno affascinante ma – caso più unico che raro nella varietà del cosmo – impossibile da vedere. Mentre gli interferometri ballavano, persino i migliori telescopi restavano a bocca asciutta. Un bel problema, perché se l’udito di cui disponiamo è per ora in grado di farci sentire soltanto il fragore prodotto da due oggetti estremi, e questi sono così estremi da non poter scoccare nemmeno un lampo di luce, significa che tuono e fulmine insieme non li vedremo mai.

Il tuono e poi il lampo

Tutte le speranze, da quel 14 settembre, erano dunque riposte negli unici oggetti conosciuti abbastanza estremi da produrre il tuono gravitazionale ma non così estremi da trattenere il fulmine elettromagnetico: le stelle di neutroni. Se due stelle di neutroni non troppo lontane da noi si fossero fuse l’una nell’altra, avevano calcolato gli astrofisici, in quell’oceano agitato che chiamiamo universo si sarebbero sollevate insieme, abbastanza alte da essere captate, onde elettromagnetiche e onde gravitazionali. Prima quelle gravitazionali, immediatamente dopo quelle elettromagnetiche. Il tuono e il lampo insieme. Una ferita che si rimargina.

Un evento agognato dagli astrofisici, perché l’informazione che avrebbe prodotto andava ben oltre la somma delle parti. Sarebbe stata un’informazione di ordine superiore, con due sensi sollecitati simultaneamente dallo stesso fenomeno: una finestra a più dimensioni sulla natura del cosmo. Talmente agognato che avevano trascorso anni a immaginare come sarebbe stato, a cercare di prevederne ogni minuzioso passaggio, ogni concatenazione, ogni quantità in gioco.

E i più erano d’accordo: se mai avessero potuto assistervi nel corso della loro vita, avrebbero dapprima sentito una lunga onda gravitazionale, molto più lunga del chirp prodotto dai buchi neri, sollevata dalle orbite sempre più strette e vorticose delle due stelle in caduta l’una nell’altra. Poi, a fusione avvenuta, avrebbero visto il lampo: un lampo di raggi gamma corto (Grb short), per l’esattezza. Quindi avrebbero osservato – in tutte le bande dello spettro, dall’ottico giù fino al radio e su fino all’X – una kilonova: l’ultimo guizzo di due relitti di stelle morte che, unendosi, riprendevano per un istante vita, fondendo e spargendo nell’universo manciate di atomi d’oro, di platino e di altri elementi pesanti.

Fasi salienti delle osservazioni di GW 170817. Crediti: Davide Coero Borga/Media Inaf

17 agosto 2017

Giovedì 17 agosto 2017 tutto questo è accaduto. Alle 14:41:04 ora italiana, l’onda gravitazionale prodotta da due stelle di neutroni a 130 milioni di anni luce da noi, dopo un viaggio durato – appunto – 130 milioni di anni, ha investito i bracci degli interferometri Virgo e Ligo. Circa 1.7 secondi più tardi, un Grb short è stato osservato nello spazio dai rivelatori per raggi gamma dei telescopi Fermi della Nasa e Integral dell’Esa. Grazie alla sua elevata velocità di reazione, il primo fra tutti a diramare l’allerta a livello globale – in soli 14 secondi – è stato proprio il telescopio spaziale Fermi. Quaranta minuti più tardi arriva anche la comunicazione di Ligo-Virgo. Una comunicazione nella quale l’interferometro italiano, entrato pienamente in azione da appena due settimane, gioca un ruolo cruciale: è grazie a lui, infatti, che è possibile una triangolazione, prima preclusa dal fatto che gli interferometri Ligo erano solo due.

Poter triangolare significa poter indicare in modo abbastanza preciso il luogo d’origine di quel segnale. Ed è verso quella regione che praticamente qualunque grande telescopio di mezzo pianeta si volta a osservare. Il primo a notare qualcosa è un piccolo telescopio di Las Campanas (Cile), Swope: osserva un transiente – un bagliore che prima non c’era – provenire dall’anonima galassia NGC 4993, a 130 milioni di anni luce. Nemmeno due ore più tardi anche un telescopio a gestione Inaf, il Rapid Eye Mount (Rem) montato a La Silla (Cile), osserva lo stesso transiente. A quel punto, la regione d’origine è definitivamente localizzata: la coalescenza delle due stelle di neutroni è avvenuta lì, in quella galassia.

La storia che si svolge sotto gli occhi degli astrofisici nei giorni successivi è simile in modo perturbante ai modelli che erano stati messi a punto negli anni precedenti. Le astronome e gli astronomi coinvolti nelle primissime osservazioni – moltissimi dei quali italiani, come si vede anche solo sfogliando gli articoli che riempiono oggi le edizioni speciali di Nature e Science – vivono un po’ la stessa emozione di chi visita New York per la prima volta: non l’ha mai vista, ma è come se la conoscesse da sempre.

onde gravitazionali
Alcuni dei telescopi, da terra e dallo spazio, coinvolti nell’osservazione insieme agli interferometri Ligo-Virgo (cliccare per ingrandire). Crediti: Davide Coero Borga/Media Inaf

Passano le ore, arrivano i primi spettri – l’impronta digitale della sorgente, e i primi al mondo a raccoglierli sono i team guidati da Elena Pian e Paolo D’Avanzo, due astrofisici dell’Inaf, primi autori d’un articolo su Nature – e, guarda caso, sono gli spettri inequivocabili di una kilonova. Vi ricorda qualcosa? Prima l’onda gravitazionale, poi il lampo di raggio gamma corto, infine la kilonova: Gw 170817, Grb 170817A e Sss17a, queste le sigle con le quali gli astrofisici hanno identificato i tre episodi del fenomeno. È la trama della coalescenza di due stelle di neutroni. È l’atto di nascita d’una nuova era per l’astrofisica.

Molta Italia, molte scienziate

Dopo questa osservazione epocale, che ha coinvolto migliaia di ricercatrici e ricercatori nel mondo, coinvolgendo tre interferometri per onde gravitazionali, decine di telescopi nello spazio e da terra, e unendo come mai prima due comunità – quella dei fisici e quella degli astronomi – che lavorano sì spesso gomito a gomito sugli stessi esperimenti, però mai tutti così concentrati su un unico evento – dopo quest’osservazione epocale, dicevamo, ci sarà da lavorare intensamente per decenni. È un continente inesplorato, quello al quale la “coalescenza” tra astrofisica elettromagnetica e astrofisica gravitazionale ci ha fatto oggi approdare.

Ma ci sono già alcune certezze. Siamo ragionevolmente certi che assisteremo, speriamo a breve, alla fusione di altre stelle di neutroni. Siamo fiduciosi che, nel giro di pochi anni, avremo a disposizione “antenne” – gravitazionali ed elettromagnetiche, a terra e nello spazio – sempre più sensibili e accurati per captarne i segnali. E ci auguriamo che l’Italia sia messa in condizione di mantenere il ruolo di protagonista che si è meritata in quest’occasione. Grazie all’interferometro Virgo, gestito dall’Infn insieme al Cnrs francese. Grazie ai telescopi spaziali a forte partecipazione italiana come Fermi, Integral, Agile e Swift, ma anche Hubble e Chandra. Grazie allo spettacolare lavoro di telescopi da terra d’avanguardia, quelli grandi come il Vlt dell’Eso e quelli piccoli come Rem. Ma grazie soprattutto alle scienziate e agli scienziati che hanno reso possibile questo risultato fino a pochi anni fa inimmaginabile.

Già, le scienziate: impossibile non notare la preponderante presenza di scienziate italiane fra gli speaker delle conferenze stampa che si sono tenute oggi all’estero: a Monaco Elena Pian dell’Inaf, e a Washington Marica Branchesi del Gssi per Virgo, Laura Cadonati della Georgia Tech per Ligo, Eleonora Troja della Nasa e Alessandra Corsi della Texas Tech University. I premi Nobel per la Fisica assegnati a donne, fino a oggi, sono stati due. L’ultimo nel 1963, oltre mezzo secolo fa. Vedi mai che le onde gravitazionali ed elettromagnetiche sollevate dalla fusione di due stelle di neutroni non arrivino a lambire Stoccolma.

Marco Malaspina

media.inaf.it