Diffusione del Buddhismo

Il Giornale OnlineDi Antonio Cioppa

Non molto tempo dopo l'inizio della sua predicazione, un giorno il Buddha disse ai suoi discepoli: «Andate ed errate per il bene di molti, per il benessere di molti; abbiate compassione del mondo dei buoni (…). Non andate in due nella stessa direzione. Predicate la dottrina che è gloriosa al principio, gloriosa nel mezzo e gloriosa alla fine, nello spirito e nella lettera: proclamate una via santa, pura, consumata nel bene». Egli stesso, il Buddha, viaggiò in lungo e in largo per ben 45 anni, convertendo molti discepoli.

Animato da un grande spirito di proselitismo, il Buddhismo si diffuse rapidamente in India. Nel III secolo a.c. la diffusione della dottrina buddhista fu favorita dal re Asoka, il primo monarca che riunì sotto il suo scettro quasi tutta l'India. Asoka protesse tutte le religioni, ma favorì specialmente il Buddismo, le cui leggi inculcò ai suoi sudditi con la parola e con l'esempio. Gli editti da lui fatti incidere sulla pietra sono i primi documenti storici che ci restano del Buddha e della sua dottrina. Asoka inviò missionari in tutti i paesi vicini e perfino in Grecia.

Il Buddhismo raggiunse il suo apogeo in India nel V secolo dell'era cristiana; ma appena due secoli dopo incominciarono a manifestarsi i primi segni del suo declino, le cui cause sono da ricercarsi principalmente nel cedimento progressivo ai culti e alle credenze popolari. Nel frattempo l'Induismo assimilava le idee principali della religione antagonista, tanto che, ad un certo momento, in India il Buddhismo non ebbe più ragione di esistere. Difatti, dopo quindici secoli di irradiamento, sparì dal suo paese di origine, lasciando solo monumenti in abbandono e qualche sopravvivenza magico-esoterica.

Quanto profonda sia stata l'assimilazione delle idee fondamentali del Buddhismo da parte dell'Induismo, ci è testimoniato già dai seguenti passi della Bhagavadgîtâ (VI, 24 P, 26 B):

«Quando l'uomo pensa agli oggetti dei sensi, nasce in lui attaccamento ad essi, dall'attaccamento nasce il desiderio, dal desiderio l'ira; dall'ira sorge l'accecamento, dall'accecamento la confusione nel sapere tramandato, dal fallimento di un tale sapere la scomparsa del discernimento; e per la scomparsa del discernimento egli perisce. Ma chi fra le cose passa con i sensi scevri di attaccamento {…), questi ottiene l'atarassia. Nell'atarassia ha luogo la cessazione, per lui, di tutti gli affanni (…). Quell'uomo che, dicendo addio a tutti gli affetti, agisce senza desideri, libero dai concetti del ” mio” e del ” io “, questi raggiunge la pace. Questo è lo stato del Brahman (…), e chi l'ottiene non è preda dell'illusione: se uno rimane in esso fino alla sua ultima ora, giunge alla estinzione nel Brahman »

I missionari inviati dal re Asoka non ottennero apprezzabili successi; solo nei primi secoli dopo Cristo il Buddhismo superò stabilmente i confini dell'India e si diffuse nel Sud-Est asiatico, in Cina (dal II secolo), in Corea (dal IV sec.), in Giappone (dal VI sec.), nel Tibet (dal VII sec.) e quindi in tutta l'Asia centrale. Nelle regioni del Sud-Est asiatico s'impose la corrente del Piccolo Veicolo, nel Tibet si sviluppò il Veicolo di Diamante; in tutti gli altri paesi il Buddhismo giunse con la dottrina del Grande Veicolo. Assorbendo credenze, culti ed istituzioni locali, il Buddhismo assunse in ciascun paese una fisionomia particolare.

In Cina il Buddhismo incontrò l'opposizione dei confuciani e dei taoisti, ma ebbe dalla sua parte il favore popolare. A rendere ben accetto il Buddhismo presso il popolo fu soprattutto la sua dottrina dell'aldilà. Presso i Cinesi era ed è largamente diffuso il culto degli antenati; ma questo culto aveva alla base un'idea poco chiara della sopravvivenza dell'anima dopo la morte; né spiegazioni sufficienti fornivano, a questo riguardo, il Confucianesimo e il Taoismo. Solo il Buddhismo, con la sua dottrina delle rinascite e della trasferibilità dei meriti fornì una giustificazione adeguata all'antico culto degli antenati e un mezzo per giovare ai defunti nell'aldilà. I monaci buddhisti furono ben visti dal popolo appunto come intercessori a favore dei defunti. Anche presso le classi colte i bonzi godettero di simpatia e rispetto, giacché non di rado essi erano eminenti letterati oltre che rigidi asceti e zelanti diffusori della loro fede.
Oggi il Buddhismo cinese è in generale declino. Già prima della rivoluzione comunista l'autorità dei bonzi non era molto alta. Quasi senza eccezione i monaci erano ignoranti, molto attaccati al denaro e frequentemente non prendevano sul serio il loro celibato. La loro condotta di vita e l'assoluta chiusura ai problemi del nostro tempo non li raccomandava alla stima del popolo. La rivoluzione comunista incominciò con l'attaccare spietatamente il Buddhismo. Distrusse quasi tutti i circa 130.000 templi del paese, lasciandone solo tre a Pechino, uno a Shangai, a Nanchino e ad Hanchow. Bruciò tesori inestimabili e mandò a morte un numero imprecisato di monaci. Distribuì alle « comuni» le terre dei conventi.

Oggi il Buddhismo è permesso in base alla Costituzione del 1949. Ovviamente, i buddhisti, come ogni altro cittadino cinese, devono seguire le direttive del partito. A onta delle loro divergenze ideologiche, tutti i buddhisti sono stati riuniti nel 1953 in una «Associazione Buddhista Cinese», che si propone di «garantire la libertà di religione» e di attuare «la riforma agraria» e «la caccia ai controrivoluzionari».

Il Buddhismo che merita oggi particolare attenzione è quello giapponese. Penetratovi dalla Cina nel 538 d.C., il Buddhismo raggiunse in Giappone la sua massima fioritura dopo l'XI secolo, allorché, staccatosi dalla matrice cinese, ebbe uno sviluppo indipendente. I buddhisti giapponesi abbandonarono l'ottuplice sentiero dell'autoredenzione e, sviluppando alcune indicazioni già contenute nel Grande Veicolo, affidarono la loro salvezza, più che alla meditazione. e alla morale, alla misericordia di Amida Buddha, un mitico re, paterno e buono, che concede la salvezza a tutti coloro che si affidano a lui. Poiché solo la fiducia in Amida dà la salvezza, è naturale che i bonzi si sposino, che tutte le vocazioni siano uguali e che venga abbandonato ogni atteggiamento indiano.

Attualmente i buddhisti giapponesi sono impegnati nello studio critico e nella pubblicazione di un'opera monumentale di letteratura religiosa, un complesso di circa 13.000 volumi, dei quali oltre un migliaio comprendono opere buddhiste fino ad oggi inedite.
I buddhisti giapponesi appaiono aperti ai problemi del nostro tempo. Dopo le distruzioni materiali e morali della seconda guerra mondiale, essi hanno lanciato un «Movimento di Sanità Morale» intenso a sollevare dalla decadenza morale il Giappone e il mondo. Il fondatore del movimento, Toniguchi Masaharu, in una sua opera in venti volumi, diffusa fino al 1962 in otto milioni di copie, propone come tavola di salvezza un sincretismo buddhista-cristiano, sia pure limitato ad una serie di principi morali e filosofici.

[u]Culto e sacerdozio[/u] Il Buddhismo Hinayâna manca di sacerdozio per due ragioni, una storica, l'altra dottrinale. Da una parte, infatti, esso ha ereditato dalla predicazione originaria del Buddha l'atteggiamento antibrahmanico, antiritualista e antisacerdotale; dall'altra, ignorando l'esistenza di un dio personale, non ha bisogno di chi svolga funzioni sacerdotali, ovvero si ponga come intermediario tra i fedeli e l'essere divino.
I monaci hinayanisti non sono sacerdoti, non esercitano funzioni sacerdotali né compiono atti di ministero sacerdotale o di culto. Il culto sopravvive soltanto a livello di religiosità popolare ed è un affare puramente personale del credente, il quale direttamente, senza alcun tramite, offre le sue preghiere ed i suoi doni al Buddha. Ovviamente, a questo livello, sotto la pressione dell'esigenza teistica espressa dalla religiosità popolare, il Buddha, oggetto di grande venerazione, assume già caratteri divini.

Il popolo, in quanto tale, non viene mai invitato a radunarsi, e non si riunisce mai per compiere un atto di culto pubblico. I monaci, da parte loro, non benedicono matrimoni, non assistono i moribondi né esercitano alcun ufficio di ministero che abbia lo scopo di condurre gli altri alla salvezza. Non hanno alcun dovere d'istruire- i fedeli. Quando un devoto porta l'offerta al convento, il monaco che la riceve si limita a ripetere alcune formule in lingua pali, inintelligibili al popolo. In queste formule sono numerati i benefici spirituali con cui vengono rimunerati i benefattori delle pagode e dei conventi. Quando si legge che un monaco ha predicato al popolo la « Legge preziosa », si deve intendere che ha recitato alcuni passi delle scritture, che quasi nessun fedele capisce. Raramente qualche monaco rivolge al popolo in lingua volgare delle esortazioni a seguire i precetti del Buddha.

Il comportamento dei monaci è coerente con la dottrina dell'Hinayâna, secondo la quale il problema della salvezza è strettamente individuale. Il monaco deve pensare solo a se stesso, sforzandosi di raggiungere il nirvana mediante la meditazione e l'ascesi.
Ben diversa importanza attribuisce al culto il Buddhismo Mahayâna, in conseguenza della sua identificazione del Buddha con l'Assoluto e della fede nella potenza mediatrice dei Bodhisattva. Nel Mahayâna il bonzo svolge funzioni decisamente sacerdotali con una liturgia solenne, spesso non dissimile nella forma da quella cattolica: ornamenti sacri, non di rado magnifici, che ricordano casule e stole, altari ornati di fiori e di candelieri, uso dell'incenso, salmodia dei Sutra, processioni rituali, ecc.

Per i fedeli non c'è obbligo di frequentare il tempio in giorni determinati; tuttavia alla gente piace andarvi, se non altro per la bellezza del luogo e i tesori d'arte che vi si possono ammirare. Più spesso si tratta di un richiamo al raccoglimento, all'elevazione dello spirito o anche d'un sentimento di profonda devozione. In Giappone c'è anche un altro motivo per recarsi ai templi: questi praticamente monopolizzano il culto dei defunti, le cui ceneri sono deposte nei cimiteri annessi. I parenti vi si recano per la festa dei morti e nei vari anniversari. Quando il bodhisattva onorato nel tempio ha una particolare reputazione di taumaturgo, si organizzano ogni anno, ad epoca fissa, pellegrinaggi, oltre che visite individuali. Si va ai templi anche per procurarsi amuleti da portare indosso e per fare delle offerte.

La costruzione di templi è ritenuta opera altamente meritoria; ciascuno vi contribuisce secondo i propri mezzi. In un grande tempio di Kyôto si possono ancora vedere grosse corde nere, fatte coi capelli offerti in passato dalle donne per i bisogni della costruzione.
Non ci si accontenta di avere nei paraggi della casa un tempio nel quale andare a pregare; ne occorre uno nella casa stessa, molto semplice presso i poveri, sontuoso presso i ricchi, ma sempre in ordine, sempre ornato di fronde fresche. È là che sono custodite le tavolette dei defunti, il cui ricordo rimane così sempre presente.

[u]Il Vajrayâna o «Veicolo di Diamante»[/u] In tutti i tempi e in tutte le religioni l'uomo è stato tentato di trasferire il suo rapporto con il sacro da un piano di dipendenza esistenziale ad uno di dominio, cioè è stato tentato di trasformare il culto in azione magica. Ciò è accaduto specialmente quando egli ha voluto liberarsi dal peccato e dalle conseguenze di questo, e quando s'è preoccupato di acquistarsi di là dalla morte la salvezza o la migliore delle sorti possibili. Ciò è accaduto o accade perché la magia ostenta una certezza di successo e una infallibilità che la religione, in quanto tale, assolutamente non può assicurare. Riguardo agli eventi che seguono la morte, neanche il più severo degli yogin o il più scrupoloso degli arhat può avviarsi al gran passo con la certezza d'essere uscito dal cerchio del samsâra e di insediarsi nella luce folgorante dell'Assoluto. Resta pur sempre uno scarto d'incertezza, di per sé tragico e inquietante. Si può dire che questo scarto sia, paradossalmente, più ampio proprio nelle religioni che, come l'Induismo e il Buddhismo, ripongono nell'uomo stesso la capacità di autosalvarsi.

Perciò neanche il Buddhismo si è sottratto alle lusinghe della magia. A partire dalla metà del primo millennio dopo Cristo, nel Grande Veicolo si andò accentuando la predilezione per i riti e le cerimonie, con un progressivo scivolamento verso le pratiche votive e magiche. Questo processo ebbe come conseguenza il sorgere, dopo l'Hinayâna e il Mahayâna, di un «terzo veicolo» buddhista, detto Mantrayâna (Veicolo delle formule sacre) o Vajrayâna (Veicolo di diamante).

Con lo sviluppo delle pratiche magiche e con l'accoglimento di rituali erotici, la dottrina di Gautama si trasformò esattamente nel suo opposto, avvicinandosi piuttosto al Tantrismo indù e al Saktismo. (Considerato dai suoi seguaci come rivelazione suprema e perfezionamento di tutte le religioni precedenti, il Tantrismo si occupa essenzialmente di elementi magico-simbolici, cui si attribuisce un recondito senso mistico; il Saktismo è invece una forma di erotismo religioso che si basa sulla credenza che la divina energia creatrice, personificata e indicata col nome di Sakti, dia origine al mondo mediante l'unione sessuale con Siva. Sia il Tantrismo che il Saktismo sono correnti religiose esoteriche).

Penetrato nel Tibet intorno al VII secolo d.C., il Vajrayâna ordinò in un sistema organico il politeismo mahayanico e lo arricchì di divinità femminili che richiamano la Sakti indù. Gli dèi vengono propiziati mediante un processo magico-rituale molto complicato e con la meditazione del diagramma {mandata} che rappresenta simbolicamente l'universo e il pantheon. Come il Tantrismo e il Saktismo, anche il Vajrayâna è una dottrina esoterica.

Come esempio significativo della dottrina e della prassi vajrayaniste può essere preso l'insegnamento contenuto nel così detto « Libro tibetano dei morti ». Il titolo originale dell'opera è Bar do t'os sgrol ossia « Il libro che salva nell'esistenza intermedia per il solo sentirlo recitare».

Bisogna ricordare che per i buddhisti la morte è piuttosto un cominciamento che una fine, è l'inizio di una rischiosa esistenza intermedia tra due diverse eventualità: o la salvezza, come definitiva dispersione della illusoria personalità umana nella luce dell'Assoluto, o la rinascita in una qualunque forma di esistenza. Quest'ultima, pur comprendendo un vasto arco di possibilità, che vanno dalla condizione di divinità a quella di uomo o di lemure o di essere infernale, è sempre unicamente dolore. Il Mahayâna pensa che il karman, la forza che vincola l'uomo alla ruota delle rinascite, possa essere estinto in più modi: usufruendo dei meriti dei Bodhisattva, invocando l'aiuto del mitico Amida o infine per mezzo di una conoscenza esoterica, trasmessa da maestri illuminati, capace per virtù intrinseca di trasferire l'uomo dal piano samsarico a quello nirvanico. Quest'ultima via è appunto quella offerta dal Bar do t'os sgrol: una via gnostico-magica.

Coloro che in vita appresero gl'insegnamenti esoterici e raggiunsero la purificazione spirituale che ne deriva, al termine della esistenza intermedia saranno certamente salvi; ove ciò non avvenga, si deve praticare con opportuni riti la «trasferenza », cioè il passaggio violento e immediato dall'esistenza samsarica all'unione con la Realtà cosmica; fallendo anche la trasferenza, non resta altra via che guidare il principio vitale del moribondo o del morto mediante la lettura del trattato « che salva col solo sentirlo recitare».
Quando uno muore, sia stato egli iniziato alla dottrina o ignorante, giusto o peccatore, è buona norma che si chiami un lama e gli si facciano recitare le salvifiche parole del libro. Molte volte il lama non comprenderà neppure il senso delle parole; ma ciò non ha importanza, purché egli le legga ponendo la bocca vicino all'orecchio del morto e, com'è richiesto per ogni formula magica, le pronunzi esattamente.

Fino all'invasione comunista cinese del 1959, altra caratteristica del Buddhismo tibetano è stata la rigida organizzazione gerarchica. Nei monasteri il primo gradino era occupato dai novizi; veniva poi il monaco (gelong); seguivano gradi e uffici che avevano al vertice una specie di priorato. Tutti i gradi erano raggiungibili dalle capacità e dall'ambizione dei singoli. Il Tibet era organizzato in Stato teocratico, retto da una diarchia composta dal Dalai Lama (capo politico) e dal Panchen Lama (capo religioso). Alla morte di un Dalai Lama era compito del Panchen Lama eleggerne il successore. Politicamente, invece, il Panchen Lama era sottomesso al Dalai Lama. Negli anni anteriori all'invasione cinese questo « duplice papato» dette origine a lotte intestine che indebolirono lo Stato tibetano.
Di tutto il ricchissimo cerimoniale tibetano ricordiamo le campanelle e i mulini della preghiera, gli esercizi di meditazione, la musica sacra, le pareti e gli alberi della preghiera che, tempestati di sillabe sacre, producevano l'effetto di un richiamo continuo della presenza del divino. Il culto non era soltanto un affare dei monaci. Nelle grandi solennità (capodanno, consacrazione dell'acqua, concepimento di Buddha, ecc.) il popolo accorreva in bianche schiere nei monasteri e vi trovava quell'elevazione spirituale e quello scotimento dello spirito a cui aspirava e di cui aveva bisogno.

Oggi delle antiche pratiche del Vajrayâna sopravvivono poche tracce nelle vallate più remote dell'Himalâya.

[u]Buddhismo e Cristianesimo[/u] L'incontro storico tra Buddhismo e Cristianesimo incominciò circa quattro secoli fa con i grandi viaggi transoceanici dei navigatori europei; ma si è intensificato dal secolo scorso, da quando i porti cinesi e giapponesi furono aperti con la forza alle navi europee ed americane. Fu un incontro poco felice, anche perché la diffusione dello spirito occidentale in Asia colse il Buddhismo in un periodo di declino. Soltanto una élite dei suoi massimi rappresentanti fu in grado d'intraprendere una discussione con l'Occidente cristiano e di notare l'esistenza di tratti in comune tra il Buddhismo e le correnti spirituali europee. D'altra parte neppure i cristiani erano preparati ad un sereno dialogo con i seguaci del Buddha, nella cui, dottrina vedevano più una giungla selvatica da abbattere che una piantagione rigogliosa, capace di ricevere l'innesto del Vangelo.

Tuttora un dialogo cristiano-buddhista non è facile ed ha ben poche possibilità di riuscire proficuo, specialmente se resta limitato al solo campo teologico. Anche quando fosse condotto con la massima cortesia e la migliore volontà, correrebbe non pochi rischi di finire in un vicolo cieco. Uno dei principali punti di contrasto è quello dell'affermazione da parte cristiana e della negazione da parte buddhista dell'io e della persona umana. Tuttavia i cristiani potrebbero rendere meno profonda la divergenza, se evitassero di presentare l'io come fine a sé, come un assoluto. Dipendendo da Dio per la sua creazione e redenzione, la persona umana nel Cristianesimo resta dipendente anche per Ciascuna delle illuminazioni e delle grazie, senza le quali essa non può nulla nell'ordine della salvezza. Coscienza, personalità, «io» sono come infinitamente grandi per grazia di Dio, ma nello stesso tempo sono infinitamente piccole per quanto, dipende dall'uomo. Da ciò può nascere un atteggiamento di umiltà e di modestia.

Sulla questione della divinità si pone un problema analogo. Il Buddhismo, che priva l'uomo della sua personalità, la rifiuta anche a Dio o all'Assoluto, perché vi vede una individuazione, una determinazione che sarebbe in contrasto con l'immutabile pienezza dell'Essere, propria dell'Assoluto stesso, La persona è portata naturalmente ad agire; mai ai buddhisti ogni atto appare come una dispersione di ciò che, nella loro prospettiva, può rimanere pieno soltanto rimanendo in potenza.

Per una di quelle ironie, di cui la storia offre non pochi esempi, gli aspetti del Cristianesimo più suscettibili di attirare i buddhisti sono proprio quelli che oggi sono meno accetti all'Occidente che si dice cristiano: prima fra tutte, la dottrina relativa al distacco dal mondo,e poi lo spirito di povertà, il monachesimo contemplativo e la vita mistica.

I buddhisti arrivano a toccare, si direbbe, con mano il nulla di questo mondo instabile, dove tutto è causa di sofferenza, non fosse altro per il timore di perdere ciò che ci fa gioire. Di conseguenza, il loro atteggiamento è di distacco progressivo dalle persone e dalle cose. Anche il cristiano sa che « la figura di questo mondo passa» (1 Cor 7, 31) e che chi usa di questo mondo deve farlo come se non ne usasse. Tuttavia il suo scopo non è di fuggire la sofferenza. Anzi questa ha un valore e può essere un bene. Un Dio è venuto a santificarla, assumendola, e perciò ha il diritto di dire: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e affaticati, ed io vi darò riposo. Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me, che son mite ed umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre; difatti il mio giogo è agevole, e il mio carico è leggero» (Mt 11,28-30).

Ma se non tutte le sofferenze sono un male e non tutti i desideri da respingere, la Bibbia, i Padri della Chiesa e i dottori di vita spirituale sono concordi nel predicare la vanità del mondo. «Ecco, di due palmi hai fatto i miei giorni, e la mia vita è nulla innanzi a Te » Sal 39,6). A questa sensazione del nulla l'Ecclesiaste aggiunge quella della sofferenza: il mondo «è vanità, ma anche dolore crudele» (6,2). Riguardo ai trattati ascetici, basterà citare la « Imitazione di Cristo », il cui titolo corrente un tempo era Contemptus mundi.
D'altra parte, pur nella sua fuga dal mondo, il cristiano deve appoggiarsi su di esso, servendosi del mondo come d'un trampolino verso il cielo. Qualche cosa di analogo si trova anche nel Buddhismo, il quale non rigetta il mondo fino al punto da rifiutare di servirsene. Accanto alle verità assolute (paramârthasatya) vi sono anche verità provvisorie (samvrittisatya), che possono servire per un certo tempo, come la zattera che si prende per passare il fiume e che poi si respinge col piede, appena si è raggiunta la riva opposta. Nei bonzi dediti alla meditazione del « riposo nel pensiero» (zen) si trova un senso straordinario della natura; e i templi e i conventi sono quasi sempre in luoghi ameni, circondati da giardini meravigliosi, perché lo spirito vi trovi nutrimento per la meditazione.

Se concordano nella constatazione dell'esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo, Cristianesimo e Buddhismo divergono nella spiegazione dell'origine del dolore, della sua natura e del modo per liberarsene. Il Buddhismo afferma che ogni esistenza è dolore e che origine del dolore è il desiderio. Invece, sulla genesi del dolore, il Cristianesimo non s'accontenta di una spiegazione cosmica, ma ne indaga piuttosto l'origine morale: origine del male è una trasgressione volontaria, che ha cagionato anche il dolore ed ha privato l'uomo dei beni a cui era stato innalzato gratuitamente dal Creatore. Il Cristianesimo distingue il male fisico, dovuto alla limitatezza della creatura, dal male morale, conseguenza di un atto volontario; e vuole non che si annulli, ma che si indirizzi al bene la volontà. Dello stesso dolore fisico e della sofferenza fa un gradino verso la perfezione morale.

Nella sua lotta contro il male il cristiano sa di non trovarsi solo, ma confida nel Creatore e nel Cristo, e tiene presente il Redentore come l'ideale irraggiungibile della perfezione. Mentre nel Buddhismo l'attività morale è solo un mezzo e un gradino della lunga ascesi che porta al nirvana, per il cristiano l'operosità morale, elevata dalla grazia redentrice, è seme fruttifero, vestibolo e tirocinio della vita futura. Nell'indicare la via della salvezza, il Buddha enumera le risorse che ciascuno può trovare in se stesso: riflessione e concentrazione, padronanza di sé, vita calma e ritirata. Tutti questi sono aiuti che anche il cristiano può fare suoi; anzi l'esperienza plurisecolare del Buddhismo può arricchire quella cristiana in questo campo. Il monachesimo buddhista, nato sotto forma di vita eremitica e sviluppatosi poi nella forma più temperata di vita in comune, ha qualcosa da dire, nella parte umana, a quello cristiano. Consapevoli di ciò, alcuni anni fa; qualificati rappresentanti delle diverse famiglie benedettine si recarono nel Siam, per studiare sul posto la vita monastica buddhista.

Nell'Hinayana, è con le proprie forze che si deve arrivare alla meta. A chi si fa monaco, viene detto: «Siate voi stessi la vostra isola e il vostro aiuto; che il Dharma sia la vostra isola e il vostro aiuto; non cercate altri aiuti ». Ma il Piccolo Veicolo non è tutto il Buddhismo. Molti compresero che l'impresa era al di sopra delle forze umane e che, se volevano riuscire, dovevano trovare un aiuto soprannaturale. Col Mahayâna, entrarono nel Buddhismo le nozioni di grazia, di mediazione, di redenzione «vicaria ». Lungi dal rassegnarsi ad una solitudine assoluta nella pratica dell'ottuplice sentiero, i mahayanisti si sentono sotto l'occhio provvido del Maestro e si rivolgono a lui ed ai Bodhisattva, per ottenere aiuto. A tale proposito, il cristiano può trovare di estremo interesse la fiducia che i buddhisti giapponesi ripongono in Amida (o Amitâbha), il Buddha dell'eterna luce, il salvatore che libera le creature dalle catene del peccato. Amida è infinito nell'amore, nella sapienza e nel potere. Coloro che credono in lui, sono salvati dall'ignoranza e dalla sofferenza, raggiungono l'Illuminazione e trovano in lui una guida per la loro vita quotidiana.

La credenza popolare riguardo ad Amida è che egli sia stato una volta un monaco: preso da compassione per le creature, egli fece voto di dedicare tutti i propri meriti, accumulati in molte vite di grazia, a salvare gli altri. Perciò fondò una «Pura terra», ove poter ricevere le anime. di coloro che credono in lui e lo invocano. Indubbiamente, i caratteri precipui del Mahayâna e del Buddhismo giapponese in particolare sembrano aprire al cristiano promettenti possibilità per un dialogo incentrato sulla persona del Salvatore, del Cristo, e sulle mete che questi propone ai suoi seguaci.

Diritti Riservati: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

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