Fast fashion: l’impatto ambientale della moda

Fast fashion: l’impatto ambientale della moda

Fast fashionIl settore della moda e del tessile rappresenta la seconda industria più inquinante del mondo, seconda soltanto a quella del petrolio (Fonte: Europe in the World: The garment, textiles & fashion industry). Dall’acquisizione delle materie prime, passando per la produzione tessile, per arrivare allo smaltimento del prodotto, l’impatto ambientale della fast fashion e del ciclo produttivo dei prodotti della moda è molto alto.

Sostanze chimiche ed inquinanti legati ai prodotti della moda

Secondo il Fashion Danish Institute (Survey of chemicals in consumer products, by the Danish Ministry of Environment and Energy), un quarto di tutte le sostanze chimiche prodotte in tutto il mondo sono utilizzate nel settore tessile. Molte di queste si presentano sotto forma di poliestere e altre fibre sintetiche che richiedono grandi quantità di petrolio grezzo. E non è finita: nomi complicati quali ftalati e formaldeide nascondono una subdola minaccia anche per la nostra salute. Secondo uno studio realizzato dalla UE (Study on the link between Allergic Reactions and Chemicals in textile products), il 7-8% delle patologie dermatologiche è dovuto a ciò che indossiamo.

La produzione di queste fibre sintetiche emette nell’atmosfera particelle e gas come CO2, ossido di diazoto (con un potenziale di riscaldamento globale 310 volte superiore a quello dell’anidride carbonica), idrocarburi, ossidi di zolfo e altri sottoprodotti. Gli impianti di produzione rilasciano anche composti organici volatili e solventi in corsi d’acqua.

Le conseguenze del fast fashion

Il processo d’imitazione delle grandi case di moda, meglio noto come “fast fashion”, ha inevitabilmente fatto crescere, negli ultimi venti anni, il problema in maniera esponenziale.

Arrivare a produrre una decina di collezioni in un anno, rispetto alle classiche “primavera-estate” e “autunno-inverno” delle case di moda, ha comportato un aumento della produzione tessile, una notevole diminuzione dei prezzi e, infine, una minore consapevolezza da parte dei consumatori.

La domanda di fibre tessili cresce circa il 3-4% ogni anno a causa dei trend globali di crescita della popolazione (Fonte: The Fiber Year Consulting) . Entro il 2020, la domanda mondiale di fibre dovrebbe superare i 100 milioni di tonnellate e il dominio della cultura fast fashion ha portato alle stelle la domanda di fibre a basso costo: a partire dal 2007, il poliestere è diventato, infatti, la fibra più diffusa per l’abbigliamento. Questo è un problema non solo perché le fibre sintetiche non sono biodegradabili, ma perché l’aumento di materiali sintetici sta permettendo la crescita della cultura del “consumo di moda”, una moda non sostenibile.

Nell’edizione del 2015 del Festival di Cannes è stato presentato un documentario americano dal titolo “The True Cost”, diretto dall’americano Andrew Morgan e co-prodotto da Livia Firth, moglie di uno dei nostri englishmen preferiti, Colin Firth. Una serie di interviste con economisti, psicologi del consumismo e giornalisti impegnati nella giustizia sociale ci racconta come l’uomo, a volte, è il peggior nemico di se stesso. Ma soprattutto, che la domanda di acquisto globale é 400 volte maggiore a quella di venti anni fa! Chi ha visto questo film, non guarderà più un vestito come prima.

Slow fashion: ridurre il consumo è possibile

Diminuire la velocità della creazione, il consumo e lo smaltimento, riflettendo di più sui propri acquisti, valutare i metodi di lavorazione, considerare la provenienza dei materiali e la loro qualità, assicurarsi che i diritti dei lavoratori tessili siano rispettati: questo è lo slow fashion.

In realtà, esso dovrebbe tentare di rallentare non tanto i produttori quanto i consumatori, poiché sono questi ultimi a dettare le leggi del mercato. Tra le azioni intraprese dai vari protagonisti del settore moda, tra le più convincenti e determinanti c’è la Fashion Revolution Week.

Nata in Gran Bretagna dopo la strage del 24 Aprile 2013 a Dhaka (Bangladesh) – dove 1133 operai morirono per il crollo della Rana Plaza Factory Complex – la Fashion Revolution Week si svolge in 86 Paesi del mondo.

«Piccoli gesti possono fare una grande differenza – spiega Marina Spadafora, coordinatrice della rassegna italiana dell’evento, in un’intervista rilasciata alla rivista Marieclaire.it – quindi anche il semplice chiederci: “Chi ha fatto i miei vestiti?” può determinare un nuovo modo di scegliere ciò che acquistiamo e magari può incoraggiare chi crea la moda a farlo in maniera più responsabile. Vogliamo creare, soprattutto nei giovani, una maggiore consapevolezza riguardo le abitudini e l’impatto che i nostri acquisti hanno sulla società e sull’ambiente. Solo quando il consumatore finale esigerà trasparenza e comportamenti etici dalle aziende da cui acquista si potrà vedere un cambiamento profondo, dettato dalla domanda del mercato per prodotti sempre più sostenibili. Ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio, ogni momento è buono per iniziare a farlo».

L’edizione 2017 si svolgerà a Milano dal 24 al 30 Aprile, con eventi e iniziative volte a promuovere e sostenere un unico e grande messaggio: quello di giustizia ed equità nei confronti dei lavoratori dell’industria tessile di tutto il mondo, cercando di creare fliere etiche, giuste e trasparenti.

Facile, veloce e poco costoso: questa é la mentalità degli “shopper” di oggi. Ma è importante comunicare ai consumatori le conseguenze di questa nuova tendenza, imparare ad essere scrupolosi, leggere le etichette, fare attenzione ai materiali di cui sono fatti i nostri abiti, ragionare sulla loro provenienza, proprio come abbiamo imparato ad approcciarci al cibo. Le nostre madri, quando da piccoli ci compravano un cappotto, sapevano che sarebbe durato sei/sette, forse anche dieci anni. I vestiti oggi non vengono più concepiti né prodotti in questo modo. Nulla più é fatto per durare.

Paolo Amato

architetturaecosostenibile.it