I Doni del commiato

I Doni del commiato

andrea_sergiampietri-smIn questo articolo, pubblicato recentemente sulla rivista trimestrale Bioguida, tratto di un tema molto importante: il valore del morire. Nell’esperienza da veterinario libero professionista mi sono trovato spesso a confrontarmi con la percezione del morire e della morte delle persone che convivono con i loro animali. Non potendo mantenere una posizione imparziale sulle scelte dei proprietari, ho preso una posizione personale.

Nell’articolo racconto come sono arrivato alla scelta dell’obiezione di coscienza all’eutanasia.

Una scelta personale, non necessariamente migliore di altre, ma migliore per me. Buona lettura. Grazie. —Andrea Sergiampietri

Questa è una riflessione sul tema del morire. Una riflessione non ancora completamente chiusa e che rappresenta solo un punto di vista personale. Iniziata da anni, messa su carta e lasciata lì a sedimentare più e più volte. Alcuni eventi di quest’anno m’hanno portato ad una difficile decisione. Ho preso una posizione definita riguardo l’eutanasia. Una posizione che rispetta la mia dignità, i miei valori e anche chi la pensa in modo diverso. Diverso non significa migliore o peggiore.

Pongo
La stanza è in penombra, un letto, una bombola d’ossigeno, un’asta portaflebo. Un uomo le è seduto accanto, l’anziana signora respira con leggerezza sotto le coperte. Il piccolo cane, arrivato con l’uomo ora seduto, non conosce quella casa. La sua storia, iniziata 12 anni fa ,è una viaggio avventuroso e complicato da varie e imprevedibili vicissitudini umane. Ha conosciuto diverse persone che si sono prese cura di lui. Quest’uomo lo ha incontrato solo negli ultimi mesi, la donna poi non l’ha mai vista prima.

Piccolo yorkshire mai stanco di passeggiate ed esplorazioni, quasi allergico allo stare tra quattro mura per più di un’ora, appena entra in quella stanza si dirige verso la minuta vecchietta. Si posiziona sotto al letto, esattamente in corrispondenza della testa della signora e da lì non si muove più. Guai per chi cerca di prenderlo e portarlo fuori per mangiare, lui ringhia e mostra i denti. Per il tempo necessario alla donna per compiere il trapasso, non c’è altro modo che mettere ciotole e acqua sotto al letto oppure prendere “con la forza” il piccolo e determinato Pongo e portarlo fuori, giusto per una brevissima passeggiata. I giorni passano delineandosi in settimane, Pongo rimane nella sua posizione, veglia lo scorrere lento degli eventi. Ci sono momenti critici. Sintomi anche intensi compaiono in questa ultima parte di vita dell’anziana signora.

Per quanto strano possa sembrare, raggiungere lo stato ideale per lasciare il proprio corpo fisico non è una cosa semplice. Ci sono molti fattori, interni ed esterni, che agiscono come resistenze, quando questi si sommano compaiono i sintomi fisici, oppure talvolta è come se fosse necessario aspettare la visita di ancora una persona prima di poter chiudere il cerchio. Il tempo corre lentamente, in una dimensione non ordinaria. Quando compaiono i sintomi, questi generano evidente disagio e dolore, intensissima sofferenza emotiva, molti dubbiosi pensieri e domande per i presenti. Coloro che assistono, in quei momenti, passano rapidamente dal “vorrei che finisse tutto subito” al “vorrei che non ci lasciasse mai”. Ciò nondimeno Pongo accompagna, veglia, protegge, sostiene questa donna e chi l’assiste. Uscirà da solo, da quel letto, 36 ore dopo il trapasso. La veglia di Pongo dura un mese circa. Lui poi torna alla sua vita normale, con una gran voglia di uscire, seguire odori, incontrare persone e altri animali.. torna il Pongo che tutti conoscono, il Pongo che quando vuole qualcosa abbaia, e spesso qualcosa vuole.

Fare
La nostra società è improntata sul fare, sulla competizione, su vittoria e fallimento. Il “lasciare che sia” è sinonimo di arrendevolezza. Il parto è assistito, programmato e indotto. Dalla nascita in poi è continuo l’intervento su sviluppo e crescita affinché siano raggiunti obbiettivi in tempi codificati e avvalorati da statistiche. Incremento ponderale, crescita in altezza, sviluppo cognitivo, il diploma, la laurea, il lavoro, costruire basi, allevare i figli, e via da capo..proprio così, come se esistesse un eterno ciclo di vita, in cui fare cose significa percorrerlo, come criceti impazziti. Tutto viene orientato al raggiungimento della capacità di fare qualcosa entro un tempo determinato, con la massima efficienza possibile. La vita scorre e giunge al suo termine. La negazione suprema del fare e del poter fare è la Morte. Motivo per cui non è accettabile, motivo per cui il pre-morte viene spesso vissuto con vergogna.

Malattia e morte
Con la malattia è possibile ancora un dialogo, un intervenire, un lottare e quindi un fare. Con la morte, naturale, l’agire viene negato. Dal momento in cui viene pronunciata la frase “non c’è più nulla da fare” l’uscita consequenziale in questo sistema di valori è “non ha più senso vivere”. Finché c’era la speranza di vincere la malattia, la sofferenza fisica era accettabile, da questo momento non solo non è tollerabile ma si aggiunge il dolore della fine delle speranze. Se si tratta di un animale, resta ancora una cosa da fare: la “puntura”.

Il morire
“Non posso vederlo così: non è più lui, non vuole uscire, giocare, abbaiare, mangiare. Resta fermo e dorme la maggior parte del tempo” questa è in sostanza la frase che sento più spesso. In una parola l’animale non fa più la vita di prima, che era percepita soprattutto come una serie di azioni. Di fronte a queste parole, a volte non trattengo la considerazione che chi è prossimo alla morte, normalmente, non partecipa alla maratona di New York; ovvero è naturale che nella fase di chiusura della vita, l’animale non corra, giochi, o abbia i bisogni che aveva prima. Potrebbe sembrare una battuta di cattivo gusto, in realtà sovente è un modo altisonante per ricordare alle persone che esiste una fase che precede l’essere privi di vita e questa fase si chiama morire.

Morire è qualcosa di naturale, a cui però abbiamo negato valore già da molti anni. E’ appunto la fase del “non c’è più niente da fare”; un non-fare così duro da sostenere, verso cui nessuno ci ha preparati e che, con gli animali, la possibilità di essere noi a porre fine a questa insostenibile attesa dell’ineluttabile risulta essere l’unica scelta desiderabile. Esagerando la salute equivale ad avere la vitalità necessaria a fare qualsiasi cosa, l’impossibilità a fare se è temporanea viene chiamata malattia; quando diventa definitiva allora si entra in una fase definita di declino che condurrà a morte, e sarà spesso rifiutata e talvolta vissuta con un sentire di ingiustizia, tristezza, disperazione e finanche vergogna tale da renderla non sopportabile.

Eppure in tutte queste fasi l’animale è vivo, la sua esperienza semplicemente passa da un fare esteriore ad un fare interiore, non visibile se non vogliamo vederlo, ma molto profondo, denso di contenuti buoni per lui e per noi quando troviamo il coraggio di restare e chiedere aiuto per essere sostenuti.

Il morire può essere molto difficile. Per quello che ho osservato a volte il corpo dell’animale è così esausto, svuotato da terapie chimiche, da perdere caoticamente controllo e coerenza. Compaiono in questi casi molti sintomi fisici e comportamentali ed occorre un lavoro altrettanto profondo e difficile per ridare serenità, togliendo il dolore quando è presente. In alcuni casi il dolore, esattamente come è ammesso nei pazienti umani, richiede il ricorso a farmaci antidolorifici, esistono e il medico può prescriverli, sono amministrabili in diversi modi, e svolgono la loro funzione. Per descrivere questo stato si potrebbe prendere come l’esempio, sperimentato credo da chiunque, di quando una persona ha un’incredibile stanchezza del corpo, per aver lavorato anche mentalmente ma in modo molto intenso o per aver chiesto al proprio fisico più di quanto potesse sopportare, e nonostante l’immane fatica non riesce a prendere sonno.

O ancora si può pensare a quei terreni agricoli coltivati con metodiche industriali, che pur rimanendo terra, dopo anni di fertilizzazione chimica e trattamenti antiparassitari, non hanno più alcuna sostanza e non riescono nemmeno a far cresce un filo d’erba senza la somministrazione di concime. A questa situazione si somma sempre la comprensibile resistenza del sistema familiare in cui l’animale vive. Per questi motivi nell’accompagnare l’animale è sempre bene farsi assistere da qualcuno che sia in grado di osservare e sostenere la famiglia, nella sua unità umana e animale, alla giusta distanza intervenendo secondo scienza e soprattutto coscienza.

Gli ultimi Doni prima del commiato
E’ impressionante osservare quanto sia, per molti, impossibile rimanere in questa attesa e quanta forza abbia la tentazione di uscire rapidamente concludendo artificialmente la vita dell’animale. Eppure tutte le numerose volte in cui la forza di restare e non-fare è prevalsa ho assistito a tanti piccoli miracoli. Mentre scrivo rileggo gli appunti dell’ultimo anno sugli accompagnamenti che ho seguito. Coki, Sansone, Samba, Cometa, Lucy, Nino, Lazuli, Manolo, Bambolina, Stellina. Per ognuno di essi sarebbe doveroso scrivere un racconto, creare un’opera musicale o anche cinematografica, perché sono stati i protagonisti di storie uniche e di grande insegnamento per noi umani. Coki addormentandosi dolcemente tra le braccia della sua compagna umana le ha donato la consapevolezza di poter essere ancora la donna forte, compassionevole e coraggiosa che era stata un tempo. Cometa ha atteso che la giovanissima amica bimba andasse a dormire; quante volte ho visto gli animali scegliere il momento più adatto per fare l’ultimo grande salto. Il momento e le persone in grado di poter esser presenti senza che l’evento del commiato, per quanto doloroso, fosse irremediabilmente traumatico

Nino, un gatto quasi ventenne, se ne è andato in presenza dei suoi “genitori” scegliendo l’unico giorno della settimana in cui erano entrambi a casa. Lucy ha insegnato la potenza calda dell’abbraccio; del potersi concedere di rilassarsi in un abbraccio, attraverso cui Lucy ha potuto finalmente riposare. E in tutte queste storie la vita dell’animale, dal momento del “non c’è più niente da fare” al momento della morte, ha avuto un senso profondo e unitario. Veri e propri doni di consapevolezza sono stati fatti da questi animali ai loro custodi umani, alla loro famiglia.

E’ mia opinione che dare valore al morire e alla morte è una condizione necessaria per poter dare valore alla vita e Vivere. Di fronte all’animale che muore, per il tempo necessario a che questo processo si compia nel miglior modo possibile ovvero serenamente, chi l’accudisce potrebbe semplicemente provare ad assumere l’atteggiamento del piccolo Pongo, rinunciare ai propri bisogni, attingere al proprio coraggio, rimanere presente e sostenere il passaggio. Di fronte a questioni di vita e di morte tutto il resto passa in secondo piano. Gli impegni quotidiani, i viaggi, il lavoro, gli appuntamenti, il continuo “fare per fare ancora”, tutto potrebbe essere messo da parte per essere pienamente partecipi dei più grandi misteri dell’esistenza.

Eutanasia
Ho fatto l’ultima eutanasia un mese e mezzo fa. La terza in un anno. Lo spaventoso e concreto vuoto che si ode nel momento in cui il cuore di un animale cessa di battere è come il suono di un eco negato. E’ un’improvviso black-out. Rimango lontano da me stesso per giorni, ritirato dall’universo sensibile. Quel vuoto rimane con me. Appartiene a quel genere di cose che un veterinario, nessuno che io conosca, vorrebbe mai trovarsi a fare. E guardando gli occhi dei colleghi che la eseguono, riconosco questo stesso sentire, questa reazione di fronte al grande vuoto. Anestetizzare il proprio sentire è la difesa per non esserne travolti. Ci si ricaccia in un angolino di sé stessi e li si attende quanto è necessario perché torni la luce.

Rifuggo il termine eutanasia (come anche l’inesatto eufemismo “aiutare a morire”) e preferisco la parola “uccidere”, ha il senso crudo e concreto di quello che sono autorizzato a fare. Mi autorizza la legge, me lo commissiona il proprietario, lo scelgo in base al mio giudizio di medico veterinario. A riguardo ho sempre cercato di rimanere nella difficile posizione di sospensione del giudizio personale. La scelta del proprietario ha una sua non giudicabile dignità. Per ognuno, sia che scelga l’accompagnamento fino alla morte naturale o l’eutanasia, quell’esperienza ha valore soggettivo e un senso vero e intellegibile solo a lui. Per molto tempo ho ritenuto che il mio compito fosse quello di dare sostegno lasciando libertà di scelta, purché responsabile e consapevole, al custode dell’animale.

Avevo anche fatto mia la convinzione, rivelatasi per me non sostenibile, che se l’eutanasia era l’unica strada percorribile allora il farla con una ben determinata consapevolezza spirituale e coscienza facesse una grande differenza. Allo stato attuale credo che la mia consapevolezza e coscienza, su cui baso e controllo l’agire terapeutico, abbiano piena dignità esclusivamente nel mio percorso personale senza però essere necessariamente una cosa buona o migliore per gli altri. Tuttavia ho sempre presentato l’accompagnamento come scelta di cuore-mente possibile. Anche perché se nessuno ne parla ai “proprietari”, questa possibilità spesso non è né conosciuta, né contemplata.

Escludendo quell’unica volta in cui fu il proprietario stesso a premere lo stantuffo della siringa, mi sono reso conto che l’eutanasie le ho fatte per i familiari dell’animale, i quali avevano le loro comprensibili sofferenze emozionali e i loro inderogabili bisogni, e le ho fatte per me perché ero andato ben oltre il mio personale limite di tolleranza a reggere la pressione della sofferenza umana. Non le ho mai fatte per l’animale. Ogni volta che mi sono trovato con lo stetoscopio sul cuore dell’animale attendendo che tutto si placasse, intimamente ho vissuto quei momenti atemporali come un mio tradimento verso l’animale. Non ho più alcuna intenzione di tradire il regno animale. Sono ormai convinto che per l’animale, il morire secondo il suo tempo naturale, accudito dalle persone che lui ama, sia la migliore esperienza possibile. E lo è anche per me, profondamente. Questa è la mia scelta.

Lapislazzuli
Accucciati sul pavimento, pomeriggio d’estate. Sono con Elena e Salvatore, la loro amata gatta è in mezzo a noi. Ha allungato la sua zampa e la tiene sulla mano di Elena. Respira lentamente, nessuno parla. La creatura si trova ora prossima al trapasso. Ha un problema molto grave che coinvolge le vie respiratorie, gli scenari su “come andrà a finire” sono dei più foschi secondo quanto prevedibile dalla scienza medica. Tutto però avviene in modo diverso, intensamente commovente. Il respiro del gatto non infrange il silenzio attorno. In un attimo è nel suo morbido corpo felino, l’attimo dopo, senza alcun rumore, ne è fuori. Siamo stati con lei tutto il tempo necessario. Non è stato facile per i suoi umani. Il lungo periodo dalla diagnosi al quel pomeriggio è stato un tempo difficile, un intenso e continuo ascolto dell’animale, di sé, degli altri, un continuo mettere in discussione sé stessi e gli altri.

Quel pomeriggio, attraverso un non-fare esteriore, nel silenzio caldo dei cuori di ognuno, la piccola Lazuli ha trovato la pace e il sostegno per distaccarsi da questa sua meravigliosa esperienza terrena. Lo ha fatto semplicemente e naturalmente. Poco prima di quell’istante ricordo di averla salutata, non potevo più restare con loro e dovevo tornare a casa. Ero sulla porta, ho salutato tutti, ma prima che potessi uscire dalla stanza, lei ha concluso il suo percorso. Elena poi mi ha detto una cosa che avevo già sentito anni prima. Mi ha detto che per quanto doloroso, quel momento lo ha vissuto come se stesse assistendo ad un parto. Le stesse parole che usò un’altra ragazza raccontandomi come si era concluso l’accompagnamento della sua cockerina: “Era con me vicino al mio letto, le tenevo la zampa ed era come quella volta, anni prima, che l’aiutai a partorire i cuccioli”.

Tutte le volte che ho assistito ad un accompagnamento ho avuto la sensazione di essere stato testimone del mistero della vita e della morte, senza che né l’una né l’altra fossero un fatto compiuto; il ciclo di vita perfettamente concluso nel suo stupefacente disegno e immediatamente continuato in un altro intangibile ciclo, nel mistero di ciò che è dopo. Quello che ho appreso da queste esperienze e mi riguarda direttamente è la forza di essere coerente con i miei valori e sostenere, per tutto il tempo necessario, le persone e l’animale in questa particolarmente importante fase della Vita. Ho anche appreso che chiunque può “essere Pongo”, e che in ogni caso gli animali non ci giudicano mai.

Andrea Sergiampietri è medico veterinario omeopata. Dopo essersi laureato nel lontano 2004 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa, inizia lo studio delle medicina veterinaria omeopatica diplomandosi nel 2009 presso la scuola di medicina veterinaria omeopatica di Cortona (AR). In quei cinque anni si mette alla prova su diverse strade ..dal master in dermatologia veterinaria allo studio dell’antroposofia, dalla zootecnia biologica al diritto commerciale e marino cinese, per citarne alcuni un tantino opposti. Viaggiando tra Toscana, la terra natia, Roma, altipiano tibetano arriva, in più riprese, a Trieste e li infine si stabilisce. Lavora come libero professionista, occupandosi principalmente di cani, gatti e persone. Collabora con ISDE (la società internazionale dei medici dell’ambiente), scrive su bioguida nella rubrica “la via degli animali” ed è assolutamente convinto che in questo momento gli animali siano migliori di noi umani..e noi potremmo anche fare lo sforzo di imparare da loro.  

homeocode.info