Il darwinismo: una teoria della disperazione

Il Giornale Online
La bellezza non può essere frutto del caso: non più di quanto – è stato detto – potrebbe accadere che una scimmia, battendo a caso i tasti di una macchina da scrivere, finisca per comporre la Divina Commedia. Dal n°22, per sei numeri a venire, Scienza e Conoscenza riporta un'ampio dibattito sull'evoluzione.

La teoria dell'evoluzione biologica mediante la selezione dei caratteri ereditari viene attribuita, dalle persone di media cultura, a Charles Robert Darwin (1809-1882), senza molti riguardi al fatto che essa venne formulata, negli stessi anni e in totale autonomia, da un altro notevole naturalista inglese, Alfred Russell Wallace (1823-1913), che ha lasciato il suo nome – fra l'altro – alla cosiddetta “linea Wallace” che separa la fauna dell'Asia sud-orientale da quella dell'Oceania (e diverge dall'altra “linea” generalmente ammessa dai biogeografi, la linea Weber, per il fatto che include Celebes e le Piccole isole della Sonda nell'area oceanica). Si tratta di una semplificazione dovuta al fatto che l'opera di Darwin, Sull'origine delle specie (1859) e, ancor più, la successiva L'origine dell'uomo (1871) ricevettero una calorosa accoglienza da parte di un gruppo di scienziati molto agguerriti che seppero controbattere con vigore ogni resistenza e riuscirono a distruggerla con la sferza del sarcasmo.

Il darwinismo (un po' come il marxismo e, più tardi, il freudismo) era nato ancor prima dell'uscita di scena del suo iniziatore, assumendo quei caratteri di paradigma tendenzialmente autoreferenziale che non lo avrebbero più abbandonato. In questo irrigidimento dogmatico di quella che, all'inizio, era una semplice teoria (che contraddiceva, oltretutto, per il suo tendenziale ateismo, le intime convinzioni del giovane Darwin, aspirante alla professione di pastore anglicano) non vi era spazio perché il 'padre fondatore' condividesse con altri la gloria della teoria evoluzionistica, e ciò spiega il fatto che il nome di Wallace è stato rapidamente messo in disparte (tanto che alcune enciclopedie si dimenticano addirittura di riportarlo). Nulla di strano: in quell'arena di gladiatori che è la scienza accademica, abbiamo assistito, solo nel corso del Novecento, a ben altre cancellazioni e falsificazioni della verità: ad esempio, la favola che l'esploratore americano Peary abbia raggiunto per primo il Polo Nord, nel 1909 (mentre è quasi certo che fu preceduto dal medico Frederick Cook) o che l'inglese Bell abbia inventato il telefono (e non l'italiano Meucci, che nella American People's Encyclopedia non è neppure citato).

Quello che su cui desideriamo riflettere, in questa sede, è che Darwin ha costruito la sua teoria su basi molto più precarie, dal punto di visto scientifico, di quel che generalmente si creda; e che i gravissimi disturbi nervosi di cui soffrì per tutta la vita, ma specialmente dopo il ritorno in Inghilterra dal viaggio di circumnavigazione col brigantino Beagle del capitano Fitz Roy (esperienza che gli dettò le pagine del Viaggio di un naturalista intorno al mondo), nel 1836, ebbero a che fare sia con la fragilità speculativa della sua teoria, sia con le implicazioni negative circa il significato della vita, il posto dell'uomo nella natura e perfino la struttura ella società (con il cosiddetto darwinismo sociale).
Illuminante, in proposito, un articolo di Roberto Fondi, docente all'Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università di Siena, apparso sul numero di aprile 1982 del mensile Scienza & Vita, pp. 6-10), del quale ci permettiamo di riportare alcuni brani particolarmente significativi.

“Nel 1836, allorché il Beagle rientrò in Inghilterra, Darwin non disponeva di alcuna teoria propria. Ma qualcosa dentro di lui era cambiato o stava cambiando. Qualcosa che avrebbe finito per spingerlo a consumare il resto dei suoi giorni in un carcere volontario dominato dall'ambizione e dalla nevrosi., e reso più confortevole soltanto dal calore degli affetti familiari.(…)
“La soluzione, consistente nel meccanismo variazioni-selezione naturale, gli venne in seguito a riflessioni e letture del tipo più disparato. Può stupire di dover constatare che i principali autori utilizzati non furono biologi, ma un sociologo (Robert Malthus), un economista (Adam Smith) e uno statistico (Adolphe Quételet); ma lo stupore svanisce, non appena si riflette che, in definitiva, la teoria dell'evoluzione per selezione naturale altro non è se non un'estensione alla biologia del principio del laissez-faire economico di Adam Smith.

Per Smith, infatti, se si vuole un'economia ordinata e assicuratrice del massimo benessere per tutti, bisogna lasciare che gli individui competano liberamente fra di loro e combattano l'uno contro l'altro per il proprio tornaconto. Il risultato, dopo aver eliminato gli inefficienti e favorito i più efficienti, sarà una politica stabile ed armonica. L'ordine e l'armonia, insomma, sorgerebbero spontaneamente dalla lotta fra gli individui e non discenderebbero da una 'autorità' predestinata o da controlli effettuati dall''alto'.

“Non si intuisce, dietro tutto questo, il bisogno di Charles Darwin di non sentirsi più soggetto a nulla e a nessuno (il padre, gli studi obbligati, le arringhe di Fitz Roy, la Bibbia, Dio) e di competere liberamente con gli altri a modo proprio, obbedendo alla propria natura e solo per proprio diletto? È proprio così. La teoria di Darwin rifletteva in tutto la sua psicologia, costantemente oscillante fra i due poli dell'ansia e del bisogno di libertà. Insofferente e timoroso dell'autorità e del severo giudizio prima paterni e poi divini, Darwin manifestò, con la sua teoria, tutto il suo bisogno di liberarsi dal padre celeste e di competere con Lui, sostituendolo nella considerazione dei suoi simili. Dietro la sua facciata cortese e apparentemente calma e cordiale di prefetto gentleman vittoriano, il naturalista dilettante e il meno filosofico tra gli uomini, Darwin nutriva prepotentemente l'ambizione di essere considerato una grande figura della scienza e della storia del pensiero, anche.

“A partire da questi anni, Darwin fu affetto quasi quotidianamente da una strana malattia che si manifestava con sintomi cangianti ed imprecisi (nausee, dolori gastrici ed intestinali, palpitazioni cardiache, debolezze ed insonnia) sulla quale molto è stato scritto, ma che – data la sua robusta costituzione ereditata dal padre – era sicuramente di natura psico-somatica. (…)
“Perché quella reclusione volontaria? E come mai quella strana malattia? Viene da pensare che Darwin, per lo meno al livello inconscio, avesse paura, ma di che cosa? Sicuramente egli ambiva a rivelare al mondo la sua teoria trasformistica, ma si rendeva anche perfettamente conto di due ostacoli piuttosto duri da superare.

“In primo luogo, la teoria implicava una spiegazione puramente materialistica delle forme viventi, uomo compreso., e ciò sarebbe stato molto più eretico dell'idea evolutiva medesima – che, in se stessa, non era affatto una novità -, scardinando tutte le tradizioni più profonde del pensiero occidentale. Ciò gli avrebbe inimicato la maggior parte degli ambienti accademici, distruggendolo. In secondo luogo, la teoria era stata, sì, formulata; ma non in base a tutto un corredo di fatti scientificamente plausibili. Essa, al contrario, aveva preceduto i fatti. Come giustificarla e sostenerla, quindi, di fronte ai biologi?
“Il primo di questi ostacoli, Darwin lo superò con il silenzio, nascondendo cioè le sue vere idee e facendo sapere che era semplicemente interessato a raccogliere informazioni riguardanti il problema della variabilità dei viventi. Scrisse, comunque, due brevi saggi (molto simili all'Origine delle specie nel contenuto e nella struttura generale) che consegnò alla moglie affinché venissero pubblicati nell'eventualità della sua morte.

“Il secondo ostacolo fu superato 'spremendo' semplicemente i cervelli di altri, fossero questi ultimi allevatori profani, scienziati professionisti o semplici conoscenti. Poiché la sua malattia e la sua condizione di naturalista dilettante non gli permettevano di andare molto più in là di qualche primitivo esperimento nel suo giardino o nel capannone che vi era situato, egli poneva continuamente ed insistentemente questi e problemi ai suoi 'esperti' (Joseph Hooker,Asa Gray, Charles Lyell, Thomas Huxley, ecc.) trattandoli con affetto più che cordiale e, a volte, adulandoli in maniera anche abbastanza sfacciata (egli chiamava Lyell, ad esempio, il suo 'Lord alto Cancelliere', e Hooker 'il giudice di gran lunga più competente in Europa').” (…)

“Col tempo, ai due ostacoli suddetti se ne aggiungerà un terzo, consistente nel fatto di non riuscire a capire chiaramente in che modo si originano le variazioni in natura. Darwin non seppe venirne fuori, e, per non ricadere nelle stesse posizioni di Lamarck, ripiegò nell'ammettere che esse si originavano per puro caso.
“Per i motivi suddetti, dopo ben 20 anni alla formulazione della sua teoria, Darwin non aveva ancora pubblicato nulla in proposito…(…) Probabilmente – è lecito sostenerlo – non avrebbe mai pubblicato nulla, se non fosse stato per il fatto che Alfed Russell Wallace minacciava di anticiparlo e di spogliarlo della tanto proclamata e difesa originalità della sua teoria: il che lo indusse a scrivere in fretta i suoi punti di vista, riutilizzando i brevi manoscritti che aveva consegnati alla moglie.(…)
“Ora, se in privato Darwin ammetteva tranquillamente di aver ricavato da altri le informazioni utilizzate per comporre l'Origine, in pubblico sembrava presentarli come proprie ricerche originali.(…)

“Darwin (…) assumeva che la mera possibilità di immaginare una serie di passaggi intermedi tra una condizione organica ed un'altra doveva essere accettata come ragione valida per ritenere probabili questi passaggi, inducendo a far tranquillamente credere che essi si erano effettivamente realizzati. Allorché, finalmente, Darwin si accorgeva di non poter render conto di certi fatti sfavorevoli alla sua teoria, chiudeva ogni discussione in modo assai candido col rimarcare che una tale teoria, in grado di spiegare così tante cose altrimenti inesplicabili, non poteva assolutamente essere falsa! (…)

Non ci proponiamo certo, in queste brevi righe, di confutare il darwinismo; volgiamo soltanto porre alcuni interrogativi sul metodo di lavoro adottato da Darwin, sull'arroganza di una casta di scienziati che hanno trasformato una teoria assai vacillante in una sorta di nuova religione, e sulla visione del mondo che tale teoria implica. La teoria dell'evoluzionismo si basa sui due concetti di caso e di adattamento: per caso vengono trasmessi certi caratteri ereditari agli individui, e mediante l'adattamento quei caratteri si rivelano vincenti rispetto ad altri nella strenght for life, la malthusiana lotta perla vita: ove è sottinteso che, come vuole Adam Smith, s'impongono i “migliori”.

Del resto, il concetto di miglioramento non è implicito nel concetto di evoluzione? Evolvere, vuol dire avanzare dal semplice al complesso, dal meno perfetto al più perfetto: dunque, progredire migliorando. Si noti: il fatto di progredire sottintende un miglioramento, e il fatto di migliorare presuppone un progresso: tipico esempio di ragionamento viziato da una tautologia di fondo. Che lo stato stazionario, in tale prospettiva, non possa non apparire come una forma di rinuncia, di fallimento, ne è la logica conseguenza. Sarà un caso, che gli stessi anni in cui Darwin formulava la sua teoria dell'evoluzione-progresso-miglioramento delle specie, la civiltà occidentale era letteralmente accecata dall'ebbrezza di un iperattivismo che essa chiamava progresso e che si manifestava nella corsa al dominio tecnologico sulla natura, politico-militare e culturale sugli altri popoli, politico-economico sulle proprie classi subalterne? La stessa idea di 'lotta per la vita' implica una concezione violenta della natura, una concezione non solo materialista, ma anche priva di un qualsiasi orizzonte di senso. Darwin, in privato, ne era consapevole e, forse, sconcertato: “In tutto questo – scriveva in una corrispondenza privata – io cerco di trovare un significato ma, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne alcuno.”

Se il caso è, in ultima analisi, il motore dell'evoluzione, bisogna infatti riconoscere che tutta la natura non è che il teatro di un dramma assurdo, ove i generi, le specie e i singoli individui senza scopo fanno la loro comparsa e senza scopo spariscono nella materia che li ha generati.
Scrive Giuseppe Sermonti (in Dimenticare Darwin, Milano, Rusconi, 1999, p. 148: “Non sono le specie e le loro forme a produrre un senso, è invece un senso pervasivo e ultramondano che arruola le cose e dispone le forme, ed è prima di loro. Ci sembra, e non sapremmo come altrimenti dar conto del mondo, che gli esiti finali, le forme concluse – il cristallo, il leone, la rosa – evochino i processi chele producono. La stereochimica dei cristalli, la genetica delle popolazioni e l'analisi macromolecolare non anticipano o lasciano prevedere la realtà che vediamo. Il mondo è come l'opera dell'artista, che non è nella tela, nei pennelli e nei colori, ma in un'immaginazione totale che di quegli strumenti si serve. Quando muore il grande artista, ecco all'opera il tempo che sgretola le tele, e i riparatori che restaurano o scartano l'opera declinante. Ma non sono loro – la mutazione, il repair o la mutazione – che fanno il mondo.

Torniamo allora ad ammirare la sagoma ed i volteggi degli uccelli, lo sfoggio discreto o festoso dei fiori, i giochi delle nuvole, la figura, la danza e il canto della donna, perché essi sono la saggezza e la bellezza instancabili del mondo. Ogni volo d'uccello e ogni fiore sbocciato, al ritorno della stagione, merita il suo stupore, come l'arrivo della bella per l'innamorato, della parola per il poeta.”
Ecco: l'evoluzionismo darwiniano chiude gli occhi sulla bellezza del mondo; bellezza che non è separabile dall'idea di uno scopo, di un fine verso cui sono diretti gli enti materiali. La bellezza non può essere frutto del caso: non più di quanto – è stato detto – potrebbe accadere che una scimmia, battendo a caso i tasti di una macchina da scrivere, finisca per comporre la Divina Commedia. Un mondo senza scopo è anche un mondo senza bellezza, e un mondo dominato dalla bruttezza genere ansia, nevrosi e infelicità in coloro che hanno la sfortuna di abitarvi.

Che si trovino qui una parte delle radici della strana malattia che ha tormentato Darwin per tutta la vita, dopo il ritorno dal suo viaggio sul Beagle? E che questa intuizione – di un mondo senza Dio, senza bellezza, senza pietà per i viventi – abbia a che fare col suicidio del capitano Fitz Roy, colui che aveva condotto Darwin in quel giro intorno al mondo da cui sarebbe scaturita una filosofia materialista destinata ad affermarsi con la forza di un pensiero unico, come mai quelle di Democrito, Epicuro o Lucrezio erano riuscite a fare?
A proposito della strana malattia del padre dell'evoluzionismo biologico, ecco cosa scrive Rossella Magliano in Storia dell'ansia (Milano, Mediamed Ediz. Scientifiche, 2001, pp. 91-92):

“Nel periodo in cui visse a Londra, seguì regolarmente le riunioni di varie società scientifiche e fu anche segretario della Geological Society. Questa attività e i normali rapporti con le persone risultarono così gravosi per la sua salute che decise di stabilirsi in campagna, nel Surrey. Nel primo periodo di residenza nella nuova casa, i coniugi Darwin frequentarono un po' la società locale e ricevettero gli amici, ma la salute di Charles risentiva di questa eccitazione ansiosa tanto che sopravvenivano un violento tremore e attacchi di vomito. Fu quindi costretto a rinunciare alle tante riunioni conviviali.

Persino il sentimento che legava Darwin ai più cari amici si attenuò a causa della grande angoscia morale derivante da stanchezza associata a visite e conversazioni che durassero più di un'ora. I medici che lo curarono, non riuscirono mai a concludere niente di preciso circa la causa delle sue lunghe crisi e non arrivarono ad alcuna diagnosi di disturbo organico.”
Sappiamo bene che le nostre conclusioni circa le cause profonde dei disturbi di Darwin potranno sembrare viziate da psicologismo e da moralismo. Tuttavia siamo profondamente convinti che, in una visione olistica della natura, i malanni dell'organismo sono fondamentalmente una forma di reazione o di protesta nei confronti di una dimensione spirituale insoddisfacente e frustrante: cioè una perdita di equilibrio e di armonia psico-fisici dovuta a una frattura nell'orizzonte di senso. Nessuno può distruggere impunemente il proprio orizzonte di senso, individuale e generale, senza subirne le più dolorose conseguenze. La nostra stessa natura protesta con veemenza contro una simile violenza che le vien fatta, e la malattia è ad un tempo il segnale e l'espressione di tale violenza. Il fatto è che l'evoluzionismo darwiniano, come dicevamo, da semplice teoria è divenuto sempre più – abusivamente – una certezza dogmatica.

Gli scienziati acconsentono a una tale manipolazione per tutelare i propri interessi accademici, i profani la accolgono per pigrizia mentale e per aver delegato il criterio di verità agli 'esperti', cioè agli scienziati stessi. Il risultato è che, oggi, nel mondo occidentale (e, in parte, fuori di esso) un paio di miliardi di esseri umani vivono sotto la cupa ombra di una 'verità scientifica' che distrugge il loro orizzonte di senso e li predispone, di conseguenza – insieme, è chiaro, a molti altri fattori, moltissimi dei quali comunque legati alla rivoluzione della modernità – a una serie di disturbi psico-somatici che vanno dall'ansia, alla nevrosi, alla depressione più o meno cronica, alla schizofrenia, alle tendenze suicide.

In un certo senso, si può dire che l'Inferno e il Paradiso ce li stiamo creando già qui, adesso, in base al mondo in cui abbiamo deciso di credere, e in base al fatto di occupare o meno una funzione di senso all'interno di esso. Già, dimenticare Darwin – come dice Giuseppe Sermonti: forse sarebbe un modo per ricominciare. Per ritrovare una dignità, un equilibrio, una direzione e un valore nel fatto che le cose esistono, dopotutto (potrebbe anche esservi solo il Nulla) e che noi ne facciamo parte. A pieno titolo, e con uno scopo da perseguire: che non può essere solo quello di fare da testimoni e da vittime di una commedia assurda e crudele, nata dal caso e destinata a sprofondarci, per sempre, nel vuoto.

Chi è Giuseppe Sermonti
Nato a Roma nel 1925, ha tenuto la cattedra di Genetica a Palermo e poi a Perugia, svolgendo anche numerose e importanti ricerche nel campo della genetica dei microorganismi. Ha scritto importanti testi scientifici tra cui ricordiamo Genetics of antibiotics producing microorganisms (Wiley & Sons) e Genetica generale (Boringhieri). Ha diretto la prestigiosa «Rivista di Biologia-Biology Forum». Nel 1986 ha fondato con altri studiosi, biologi, matematici, fisici, il “Gruppo di Osaka”, finalizzato alla elaborazione di una biologia “strutturalista”, quindi antimeccanicista e antiriduzionista.

Già con alcuni suoi libri degli anni settanta, Il crepuscolo dello scientismo (Rusconi, 1971) e La mela di Adamo e la mela di Newton (Rusconi, 1974), ha sviluppato una ferma critica dello scientismo, successivamente con Dopo Darwin (Rusconi, 1980), scritto in collaborazione con Roberto Fondi, dell'Università di Siena, ha iniziato una approfondita opera di demistificazione dei miti fondanti del darwinismo e del neodarwinismo, proseguita poi con altri libri, tra Dimenticare Darwin (Rusconi, 1999) e il più recente Il tao della biologia (Lindau 2007) . Sermonti coltiva anche studi sul simbolismo, in particolare quello delle fiabe, ed è autore di alcune rappresentazioni teatrali incentrate sulla vita di famosi personaggi della scienza.

di Francesco Lamendola

Fonte: scienzaeconoscenza.it