IL FEGATO DELLE SCIMMIE E I NUOVI FRANKESTEIN

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DI STEFANO CAGNO

Qualcuno ricorderà che alcuni anni fa il Comitato Scientifico Antivivisezionista diffuse un manifesto in cui era ritratto Dario Fo con le zampe da maiale. La campagna pubblicitaria era finalizzata a contestare la brevettazione dei geni, ma l'immagine scelta evocava il rischio che un giorno gli esseri umani possano diventare un puzzle composto da pezzi appartenenti a diverse specie di animali. E' recentissima la notizia della nascita, presso il laboratorio di Tecnologia della riproduzione del Consorzio per l'incremento zootecnico di Cremona, di due mini-maiali geneticamente modificati per ottenere organi da trapiantare sull'uomo.

L'idea di utilizzare organi prelevati da animali per i trapianti umani non è affatto recente. Il primo caso segnalato in letteratura risale al 1906, quando il chirurgo francese Mathieu Jaboulay collegò un rene di maiale al braccio sinistro di un paziente. L'organo divenne di colore blu e nero e dopo tre giorni dovette essere rimosso. Fino ad oggi tutti gli xenotrapianti, così si chiamano i trapianti in cui l'organo donato appartiene ad un specie differente da quella ricevente, hanno dato un esito infausto a causa del rigetto, da parte del sistema immunitario umano, dell'organo animale trapiantato. Per risolvere questo problema, alcune industrie biotecnologiche hanno pensato di creare animali umanizzati.

In pratica si inseriscono nei cromosomi della specie prescelta – [u]solitamente suini [/u]- geni umani, così, quando l'organo animale dovesse essere trapiantato in un uomo, il sistema immunitario non dovrebbe mettere in atto risposte violente di rigetto. Un'altra strategia è quella di eliminare uno o più geni dell'animale che si ritiene possano essere responsabili della reazione di rigetto. Altre varianti prevedono una “umanizzazione” degli animali mediante l'ingegneria genetica e contemporaneamente una [u]”animalizzazione” [/u]delle persone, attraverso l'iniezione di cellule animali prima dell'intervento. Parte della comunità scientifica ha però lanciato l'allarme, facendo presente i gravissimi rischi, il primo dei quali è rappresentato dalla possibilità che si possano trasmettere virus animali negli esseri umani, creando così epidemie dagli esiti non prevedibili. I ricercatori coinvolti in questi progetti hanno sempre reagito alle critiche con una certa sufficienza, forti dell'appoggio di potenti multinazionali e invogliati dalla possibilità di colossali guadagni. I rischi, però, sono reali e ben documentati. Alcuni ricercatori britannici, infatti, hanno dimostrato che virus derivanti dai maiali (Pervs) sono stati in grado di infettare cellule renali umane in vitro e si sono replicati finché le particelle «erano diventate non più suscettibili ad essere distrutte dal sistema immunitario umano». Il rischio di contagio non è stato dimostrato solo in vitro, ma anche in vivo.

Un'equipe di ricercatori del Centers for Disease Control (Cdc) guidati da Walid Heleine ha scoperto un virus derivante dalle scimmie (Simian foamy virus – Sfv) nel sangue di quattro ricercatori che negli ultimi 20 anni avevano maneggiato primati nei loro laboratori. L'analisi della sequenza del Dna dei virus ha permesso di scoprire che in 3 casi su 4 l'infezione era stata trasmessa da babbuini, una delle specie che sono state prese in considerazione per gli xenotrapianti. L'equipe di Walid Heleine ha anche trovato casi di trasmissione del Sfv nei pazienti morti dopo avere ricevuto un fegato di babbuino per uno xenotrapianto. Il quadro presentato risulta particolarmente inquietante se si considera che «le successive trasmissioni tra gli esseri umani attraverso trasfusioni di sangue infetto possono aumentare la possibilità che il virus si adatti al nostro organismo». Da questo punto di vista da situazione è analoga a quella che si è verificata storicamente nel caso del virus dell'Aids (Hiv). Il virologo Jonathan Allan ritiene che gli Sfv rappresentino «la più grande e immediata minaccia per il genere umano tra i retrovirus conosciuti derivanti dai primati», poiché il loro potenziale patogeno potrà essere conosciuto soltanto dopo che si sarà bene stabilizzato nella popolazione umana. Ed anche sotto questo aspetto l'analogia con l'Hiv è assoluta. Quest'ultimo è stato isolato e identificato nel 1983, ma l'inizio dell'infezione viene fatta risalire agli anni '60 o addirittura alla fine degli anni '50.

A rendere ancora più inquietante la situazione è la notizia che, nella maggior parte dei protocolli sperimentali stranieri in cui sono stati ipotizzati interventi di xenotrapianto, una delle condizioni a cui deve sottostare il paziente è quella di dichiarare che non avrà in futuro rapporti sessuali. Personalmente ritengo che nel campo biologico ogni intervento non sia esente da rischi. Nella valutazione dobbiamo tenere in considerazione due variabili: la gravità e la probabilità. E' meglio correre un rischio più probabile ma meno grave, piuttosto che il contrario. Secondo le attuali conoscenze scientifiche, nel caso degli xenotrapianti i rischi sono gravissimi e molto probabili. Nonostante il semplice buon senso sarebbe sufficiente per cambiare strada, alcuni ricercatori non desistono dal continuare a portare avanti le loro ricerche sugli xenotrapianti.

Oltre agli evidentissimi interessi economici, la spiegazione non può che essere una sola: esiste un chiaro delirio di onnipotenza di alcuni scienziati che si considerano ormai alla pari di Dio. Come nelle parole con cui un ricercatore americano, Richard Seed, giustificò la sua proposta di clonare anche l'uomo. «Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza perché intendeva farne un tutt'uno con sé. La clonazione è il primo serio passo per ottenere questa fusione con l'Eterno». Davanti a tanta follia, forse, solo la psichiatria potrà qualcosa.

Fonte: http://www.liberazione.it/