Il Lavoro: strumento o fine?

Il lavoro

Il lavoroPropongo la seguente riflessione, forse un po’ controcorrente: a me pare che, tra le tante idolatrie della modernità, vi sia anche quella del “lavoro”, che da strumento, o manifestazione dei principi o del sacro, come era inteso in ogni civiltà tradizionale, nel mondo moderno sia diventato, appunto, un idolo. Il lavoro occupa gran parte delle nostre giornate e quindi è una “presenza” ingombrante con la quale occorre fare i conti, perché sottrae il tempo ad altre attività o occupazioni. C’è chi è “prigioniero” del lavoro (come si può essere prigionieri di un matrimonio sbagliato); chi si rifugia nel lavoro, ecc. Il mio è l’angolo visuale del giurista: mi riferisco all’eccessivo valore dato dall’ordinamento giuridico, ma anche dalla politica, o dalla sociologia, o dal comune sentire, al lavoro, principalmente al lavoro subordinato, ma non solo.

Questo rilievo eccessivo lo vedo come il riflesso, o il punto di emersione nel campo del diritto, di uno dei tanti miti della modernità, costituito nella specie dal “lavoro in sé”. Può apparire paradossale che questa affermazione provenga da un giuslavorista, ma cercherò di spiegarmi partendo da un aspetto strettamente giuridico. L’affermazione sulla quale inviterei a soffermare la riflessione è la seguente, formulata dai nostri massimi giudici (Corte costituzionale 2 giugno 1983, n. 163): “L’art. 3 della Costituzione attribuisce a ogni cittadino il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della sua personalità, il quale viene attuato, come è stato generalmente avvertito, principalmente attraverso il lavoro”.. Pertanto secondo questo diffuso orientamento della giurisprudenza il lavoro costituisce un mezzo, non solo di guadagno, ma anche di estrinsecazione della personalità nel luogo di lavoro.

Potremmo definirla una concezione lavocentrica dell’uomo perché ritiene che lo sviluppo della personalità venga attuato principalmente attraverso il lavoro.

Discettare di idolatria del lavoro in tempi in cui i media ci bombardano sulla disoccupazione, soprattutto giovanile, può apparire politicamente non corretto. Ma questo non può esimerci dall’affrontare i problemi di fondo della modernità: c’è la cronaca e c’è la storia; c’è il contingente e c’è il perenne. Tra l’altro anche questo della disoccupazione è un altro aspetto affrontato generalmente con dosi massicce di ipocrisia. Pochi ricordano che secondo la “legge bronzea dei salari” è il capitalismo stesso che è sorto e vive utilizzando la disoccupazione strutturale per poter tener più bassi possibili i livelli delle retribuzioni, profittando della concorrenza al ribasso che si fanno tra loro i lavoratori per poter trovare un’occupazione. Anche sul tipo di occupazione a cui aspira la gente nel mondo occidentale ci sarebbe da squarciare veli e veli di ipocrisie, ma questo è un altro tema.

Uno degli aspetti che forse più fa riflettere di questa concezione “lavorocentrica”, è che non si distingue più tra lavori gratificanti, creativi, non ripetitivi, e quelli alienanti, penosi, monotoni, parcellizzati, o addirittura usuranti; anche questi vengono ipocritamente equiparati ai primi, quali fondamentali fattori per lo sviluppo della personalità. Ovviamente, il lavoro alienante, esiste ancora, ed è ancora molto diffuso, non solo nelle fabbriche, ma anche negli uffici e nel settore dei servizi o del terziario, come è confermato, da un lato, dall’accanita resistenza dei lavoratori dipendenti contro l’allungamento dell’età pensionabile, ovvero dall’anticipazione dell’età pensionabile appunto per i lavori usuranti; dall’altro lato, all’opposto, dalla insoddisfazione per chi svolge lavori non alienanti, quando è costretto ad anticipare la pensione, come nel caso dei Professori universitari.

Non si tratta di sminuire la dignità dell’uomo che è costretto a svolgere un lavoro alienante per procurarsi una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa a sé e alla sua famiglia (ai sensi dell’ art. 36 Cost: salvo poi capire, nell’attuale mondo consumistico, cosa significhi per le persone un livello di vita “dignitoso”: poter possedere due telefonini e fare vacanze a Ibiza?…). Credo che lo stesso lavoratore, che è costretto a svolgere un lavoro sentito da lui come alienante, si ribelli all’idea che, mediante tale lavoro, egli realizzi e sviluppi la propria personalità. Egli di quel lavoro vuole liberarsene il prima possibile, ed infatti vuole andare in pensione il prima possibile.

Neppure la nostra Costituzione distingue tra lavoro alienante e non. Quindi secondo la Costituzione, anche il lavoro più alienante, contribuirebbe al progresso, “materiale” non c’è dubbio, ma perfino a quello “spirituale” della società (art.4,co.2). Si pensi che la nostra Costituzione mi pare sia l’unica insieme a quella sovietica del 1936, a fondare la repubblica non, ad esempio, sulla dignità dell’uomo, come fa invece la Carta dei Diritto Fondamentali dell’Unione Europea all’art. 1 (“la dignità umana è inviolabile”), o sulla sua felicità, come la Costituzione degli Stati Uniti, ma sul lavoro.

Peraltro, più di tanto non c’è da meravigliarsi dell’enfatizzazione del lavoro nella Costituzione, perché anch’essa è una legge che va comunque contestualizzata: allora si trattò di raggiungere un compromesso politico con i comunisti, che volevano formulare l’art. 1 come “Repubblica dei lavoratori”; ma allora imperversava la contrapposizione delle ideologie novecentesche, tant’è vero che fino agli anni Settanta del secolo scorso un illustre costituzionalista come Mortati poteva scrivere che l’art. 1 era in qualche modo un omaggio alla classe economica che aveva fatto la storia negli ultimi 150 anni. Ora certo non è più così. Ma anche la Costituzione è una legge umana e non divina e, come tutte le leggi umane, è soggetta all’usura del divenire; per questo non condivido neppure la sua mitizzazione. Merita dunque qualche riflessione critica questa ipervalorizzazione di ciò che rappresenta il “lavorare in sé”. Ribadisco, per non essere frainteso, che qui non è in discussione la funzione del lavoro come corrispettivo della retribuzione, o come occasione per il lavoratore di accrescere il proprio bagaglio professionale, o il “saper fare”.

L’attenzione va incentrata invece su questa idolatria del lavoro in sé, che va oltre la sua funzione economica e professionale, come se acquisisse un valore intrinseco. Insomma, si è passati, dal lavoro come “la grave fatica”, che secondo Esiodo, al pari di tutti i malanni che agli uomini arrecano morte, viene dal vaso di Pandóra come punizione di Zeus per l’offesa arrecatagli da Prométeo (Esiodo, Le opere e i giorni), che riecheggia il mito biblico del lavoro come maledizione divina; si è passati a questa sorta di “glorificazione teoretica del lavoro nell’età moderna” come sostenuto dalla Hannah Arendt nel suo bel libro Vita Activa[1], o addirittura alla “religione del lavoro in sé, qualunque esso sia”, come la definì Thilgher nel suo libro Homo faber, affermando che “per l’uomo moderno il lavoro appare come la somma di tutte le virtù e di tutti i doveri. È nel lavoro che l’uomo nella civiltà capitalista trova la sua nobiltà e dignità. Lavora! È il precetto che esaurisce per lui tutta l’etica”. In questa visione del mondo il bene si identifica con l’attività, o con l’iperattivismo, il male con la quiete”[2].

La domanda vera è da dove nasce questa mitizzazione o idolatria, questo suo valore intrinseco, questa sua autonoma dignità, questa indistinta idealizzazione, del lavoro. La risposta più facile sarebbe che essa è figlia dello stesso sistema capitalistico tecno-nichilista e consumistico: in un infernale circolo vizioso, più si enfatizza il valore in sé del lavoro, più si fornisce una giustificazione anche etica alle gente a lavorare il più possibile, più si consuma, più cresce il PIL e più siamo tutti felici. Tutto ciò naturalmente è vero, ma non basta. Infatti questo mito viene da lontano. Come ha scritto Latouche “Per screditare l’aristocrazia, la borghesia in ascesa ha sviluppato, tra il XVI e XVII secolo una propaganda lavorista… Artigiani e commercianti, i borghesi delle città, erigono la loro attività a condizione universale. La loro vita faticosa, materiale e monetaria, diventa la vita tout court e non avranno alcuna difficoltà a convincere i contadini, liberi o servi, ad accorrere sotto la bandiera di questo nuovo paradigma. La borghesia, liberata dal disprezzo con cui la schiacciava la nobiltà, circonfuse il lavoro di una gloria che il proletario, o quantomeno i suoi rappresentanti, si affrettò a rivendicare, mentre ne era la più sventurata delle vittime”[3]. E così la società moderna è diventata innanzitutto una società “lavorista”.

Questa idolatria del lavoro in sé, come fine, è così pervasiva che recentemente, in un’autorevole rivista cattolica, si è sostenuto che, poiché il lavoro, qualunque lavoro, anche il più umile e alienante, possiede la forza di unire “l’uomo a Dio”, esso può perfino sostituire la preghiera, visto che il cristiano moderno, o, come si dice oggi “maturo”, ha tantissimi impegni e ben poco tempo da dedicare appunto alla preghiera. Non è materia mia, ma si legge nel vangelo che il Cristo, quando ha voluto insegnare a pregare, ha detto: “entra in cubiculum tuum et, clauso ostio, oram Pater Tuum in abscòndito” (Tu quando preghi, entra nella tua camera, e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto. Matteo, 6.6). Credo che sia diverso dal pregare lavorando. Qui si richiamano concetti a noi moderni un po’ ostici, come silenzio, meditazione, contemplazione; così forse si può, come diceva San Bruno, “Fugitiva relinquere et aeterna captare”.

Per inciso, credo che qualche riflessione di questo genere vada fatta anche per il lavoro dei professionisti, dei manager, dei iperattivi, insomma per coloro per i quali il senso della vita o la ricerca di senso della vita si identifica con (o si esaurisca) nel lavoro.Nella modernità questo fenomeno è considerato normale, anzi encomiabile. Ho trovato interessante a questo proposito quanto afferma Garimberti nel suo libro “I miti del nostro tempo”: “il lavoro, anche il più forsennato, anzi forse il più forsennato, sembra sia diventato un rimedio all’angoscia (con ribaltamento totale della logica dello stress da lavoro collegato). L’angoscia di ciascuno di incontrare quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso e al quale non si sa più che parole rivolgere, perché al di là dell’attività lavorativa, la nostra identità non ha più contorni ben delineati”[4].

Ovvio che poi, chi semina in questo modo, raccoglie macerie affettive nella vita privata, familiare, con i figli, ecc. Naturalmente questo non vuol dire che si debba diventare tutti asceti o mistici, come si potrebbe obiettare con una banale ironia. Non è mai stato così, perché anche nelle società tradizionali gli asceti, i mistici, i santi, erano una minoranza. Il punto è il valore intrinseco, ontologico, che la modernità assegna al lavoro in sé; questo lavoro che, nell’età della secolarizzazione, come dice Taylor, da strumento è diventato fine. Questo perché, sempre secondo quanto scrive Taylor, nel libro “L’età della secolarizzazione” (p. 394), l’uomo moderno ha perduto, come conseguenza di un processo secolare e di un mutamento antropologico, quella che per millenni è stata l’attitudine metafisica, cioè ha perduto la capacità di trascendere il mondo visibile e i limiti della materia, per cercare oltre di essi il senso della vita[5].

Tutto ciò dalla modernità è liquidato, per dirla con Popper, come “la fine dell’era della superstizione tribale”[6]. Ma questa attitudine alla trascendenza altro non è che la dimensione spirituale. Per questo, la crisi in cui l’Occidente versa è ritenuta da alcuni filosofi, “crisi spirituale”. È il disagio dell’immanenza di cui parla Taylor (p. 394). Nelle società tradizionali ovviamente non era così. Ad esempio, i greci sentivano il lavoro essenzialmente come pena e dolore; infatti la parola che in greco significa lavoro, pònos, ha la stessa radice della parola latina poena. C’è lo stesso significato delle parole italiane fatica, travaglio, pena. I greci però sapevano discernere il lavoro alienante da quello che non lo era. Ed infatti l’uomo di pena, che lavorava, andava congiunto ad ogni specie di lavoro materiale. Tant’è vero che questo atteggiamento dello spirito greco verso il lavoro fu causa ed effetto insieme della schiavitù.

Anche nell’anima ebraica il lavoro è essenzialmente pena e fatica. Ma mentre l’anima greca non sa darsi ragione del duro destino che obbliga l’uomo a lavorare, l’anima ebraica a quella domanda sa dare una risposta: l’uomo è condannato a lavorare perché deve espiare il peccato originale. Quindi il lavoro come pena e come espiazione. Il cristianesimo antico, non solo riprende questa concezione ebraica, ma aggiunge anche una funzione positiva al lavoro: lavorare è necessario non solo per non essere a carico degli altri, ma, anche e soprattutto, per fare la carità ai fratelli che hanno bisogno (san Paolo, Lettera agli Efesini, IV, 28). Anche qui però il lavoro non acquisisce alcun valore intrinseco, alcun autonoma dignità, rimane sempre strumento, non diventa mai fine.

Nel medioevo cristiano la distinzione tra lavoro alienante e non emerge ancor più chiaramente con la figura dell’artigiano; la parola deriva da artifex, che è indifferentemente l’uomo che esercita un’arte o un mestiere; in realtà non è né l’artigiano o l’artista nel significato moderno, è qualcosa di più dell’uno o dell’altro. Il termine stesso mestiere significa “funzione” secondo la sua derivazione etimologica dal latino ministerium. Scrive Romagnoli, nel suo libro “Il lavoro in Italia, un giurista racconta”: «è sufficiente scrutare con un teleobiettivo la parete esterna di una cattedrale romanica o gotica per accorgersi di quanto fosse grande la gratificazione del saper fare e fare bene et fideliter. Così grande che i tagliapietre medievali ne eseguivano alla perfezione anche i fregi situati nei punti più distanti dal suolo, sebbene dal basso e ad occhio nudo i dettagli non possano nemmeno vedersi”[7].

Perché facevano questo? Romagnoli dice per l’orgoglio di appartenere ad un elite. Ma vi era un’altra motivazione: perché per loro, in quel tempo, quell’attività era ricollegata a principi di un ordine ben più profondo. Mediante questo ricollegarsi ai principi, quell’attività umana in un certo senso veniva “trasformata”, per cui, invece di ridursi a quel che era in quanto semplice manifestazione esteriore, si integrava in una tradizione e costituiva, per colui che la compieva, un mezzo per partecipare a tale tradizione; il che equivale a dire che tale attività rivestiva un carattere “sacro e rituale”. Tant’è vero che esisteva una vera e propria “iniziazione” legata ai mestieri.

Il più grande studioso della storia delle religioni, Mircea Eliade, ci ha spiegato, nel suo libro, “Il mito dell’eterno ritorno” (p.14), che anche nelle società arcaiche pre-socratiche, il gesto e l’oggetto fatto dall’industria dell’uomo, in quanto partecipavano ad una realtà che li trascendeva, risalente agli archetipi primordiali, diventavano una ierofania, cioè un luogo dove si manifestava il sacro. Naturalmente , o purtroppo (secondo i punti di vista), non si può ritornare al tagliapietre medievale.Ma forse può essere interessante fermarsi ogni tanto a riflettere su quanto è andato perduto sull’altare del progresso e della scienza e quanto possa squilibrare la persona la moderna idolatria del lavoro profano che, a mio modesto avviso, è di ostacolo allo sviluppo di ogni forma di spiritualità.

Carlo Pisani

Leggi anche:
Il Lavoro e l’Opera (Editoriale n.12)
[1] Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 2009, p. 4.
[2] Adriano Tilgher, Homo faber, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1929, p. 122-123.
[3] Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 56.
[4] Garimberti, Miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 289.
[5] Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2007.
[6] Popper, La società aperta e i suoi nemici, Bompiani, Milano, 2009, p.26
[7] Umberto Romagnoli, Il lavoro in Italia, un giurista racconta, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 31.