Il Piccolo Veicolo e il Grande Veicolo

Il Giornale OnlineDi Antonio Cioppa

Morendo, Buddha non designò un successore che assumesse la direzione dell'Ordine al suo posto. Il Buddhismo venne così a mancare di un'autorità vera e propria, di un potere centrale riconosciuto da tutta la comunità. Se si tiene presente che nella dottrina del Maestro, affidata per lungo tempo unicamente alla tradizione orale, ben poco vi era di dogmatico e che problemi gravi, come quello della salvezza dei laici, attendevano una soluzione, si comprende facilmente quanto dovesse pesare sul futuro dell'Ordine la mancanza di un'autorità competente, capace di dare un'interpretazione autentica all'insegnamento del Buddha e di dirimere le controversie. In tali condizioni l'Ordine non poteva conservare a lungo la propria unità.

I contrasti affiorarono già nel corso del primo « concilio» della comunità, riunito si a Rajagriha subito dopo la morte di Buddha, per fissare la « Disciplina» o regola monastica. Si manifestarono fin da allora due tendenze fondamentali, destinate a dar vita alle due maggiori scuole del Buddhismo, al Piccolo Veicolo e al Grande Veicolo. La prima, rappresentata dai rigoristi, tendeva a fare del Buddhismo una religione di élite, professabile solo nel chiuso dei monasteri, e di conseguenza accentuava l'avversione per la vita del mondo e per tutto ciò la riguarda. L'altra, più vicina alle esigenze spirituali dei laici, tendeva a mettere a disposizione di tutti i fedeli, anche di quelli che vivevano fuori dei monasteri, la via di salvezza intuita dal Buddha.

Il disaccordo fra le due correnti, contenuto dapprima nelle dispute dei concilii, divenne sempre più acuto a mano a mano che i monasteri, da rifugi provvisori per la stagione delle piogge, si trasformavano in sedi stabili. Sfociò alfine nella rottura definitiva verso gli inizi dell'era cristiana.

I rigoristi, ergendosi ad unici interpreti fedeli della dottrina del Maestro, indicavano come ideale religioso l'arhat, il monaco giunto allo stato di perfezione, affrancato da ogni rinascita e destinato al nirvana. Questo ideale religioso, già arduo per gli stessi monaci, era del tutto precluso a chi viveva fuori dell'Ordine. La scuola dei rigoristi, detta sdegnosamente «Piccolo Veicolo» (Hînayâna) o via angusta, inferiore dai rappresentanti dell'altra scuola, s'impegnò nell'analisi meticolosa degli elementi distintivi e irriducibili, componenti l'individuo umano. Secondo la loro dottrina, il mondo delle esistenze è costituito da un numero indefinito di correnti individuali, ciascuna delle quali è formata da molti fattori psico-fisici indivisibili (dharma), precariamente aggregati. Queste correnti non hanno alcun substrato stabile; la loro continuità è dovuta esclusivamente alla concatenazione causale dei vari karman.
Esse sono come tante fiammelle singole che continuano a bruciare finché vengono alimentate. La salvezza consiste nel liberare ciascuna corrente di tutti gli elementi che determinano altri aggregati di dharma, fino a che ciascun karman non sia estinto e non sia raggiunto lo stato di nirvana. Poiché le correnti sono isolate e indipendenti l'una dall'altra, la salvezza può essere raggiunta solo individualmente: ciascuno deve operare da solo la propria salvezza. Non solo, ma nessuno può fare alcunché per la salvezza degli altri.

L'altra scuola, che si autodefinì «Grande Veicolo» (Mahayâna) cioè via ampia e superiore di salvezza, affermava invece che, esistendo una sola Realtà assoluta, eterna e immanente al mondo fenomenico, è illusoria l'esistenza non solo degli «io» individuali, ma anche degli elementi ultimi (dharma) dei quali ciascun aggregato individuale si compone.

Contro il pluralismo del Piccolo Veicolo, il Mahayana affermava un rigoroso monismo, molto simile alla dottrina professata dagli induisti, e attribuiva all'io una consistenza puramente nominale. Di conseguenza, il Grande Veicolo vedeva la salvezza non come problema individuale, ma come problema collettivo, universale. La redenzione non può essere raggiunta con sforzi isolati e indipendenti, ma ha bisogno di reciproco aiuto dei fedeli. «Salvati, salvando gli altri» è il precetto fondamentale del Grande Veicolo.
Perciò l'ideale religioso non è più l'arhat, il monaco perfetto che si chiude in sé nella pratica della rinuncia o della meditazione, ma è lo stato di bodhisattva, dell'aspirante Buddha o del Buddha in potenza. Come il Buddha Gautama rinunciò alle delizie del nirvana e restò nel mondo per salvare tutti gli uomini, così il bodhisattva, imitatore del Buddha, deve rinunziare al possesso immediato del nirvana finché ci saranno altri esseri da condurre alla liberazione. Siamo ben lontani dall'egoismo soteriologico dell'Hinayana.

Tra le virtù che il bodhisattva deve esercitare, occupa il primo posto l'amore per il prossimo, che lo spinge a far dono disinteressato non solo dell'aiuto materiale, ma anche di quello spirituale. Egli nutre simpatia (maitri) per tutti gli esseri, condividendone gioie e sofferenze; per la salvezza degli altri egli offre i meriti acquisiti e perfino la propria vita. I bodhisattva sono dei quasi-Buddha e, come tali, dopo la morte ricevono un culto elevato quasi come quello tributato a Buddha stesso. Sono invocati dai fedeli nel pericolo e nella sventura, perché essi trovano sempre i mezzi per salvare le creature dai tormenti e per condurre gli uomini alla perfezione. Come se ciò non bastasse, rimediano alle deficienze spirituali dei fedeli, trasferendo. a loro favore parte dei propri meriti. Questa nozione della trasferibilità dei meriti implica l'idea di grazia, idea assolutamente estranea al Piccolo Veicolo.

In tal modo il Mahayana risponde all'ansia di salvezza della maggioranza dei fedeli, di coloro che non possono o non sanno abbandonare le occupazioni e le attività comuni di ogni giorno. La salvezza non è un traguardo raggiungibile solo da pochi, ma è alla portata di tutti, anche se richiede una serie più o meno lunga di rinascite. E tutti possono beneficiare dei meriti acquisiti dai bodhisattva.

Ancora ad un'altra esigenza spirituale risponde il Grande Veicolo: il bisogno d'un dio personale. Sappiamo che Buddha tacque o fu molto reticente sul problema del divino; ritenne di poter prescindere da questo problema, poiché il suo intento immediato era quello di indicare una via di salvezza a tutti gli esseri soggetti alla sofferenza. Egli stesso non si giudicò mai diverso dagli altri uomini e non pretese mai di essere un salvatore divino. Orbene, nel Grande Veicolo assistiamo ad un processo di deificazione del Buddha, il quale diventa un essere sopramondano, cui si tributa un culto divino. Una luce zampilla dal globo luminoso posto tra le sue ciglia ed illumina tutto il mondo: Buddha è dio, Buddha è l'Assoluto.

Per spiegare la relazione tra il Buddha storico e il Buddha deificato, i teologici mahayanisti elaborarono la dottrina dei tre corpi di Buddha. Il Buddha ha tre corpi: il «corpo fittizio », soggetto all'umana fragilità, che fu il corpo del principe Siddharta; il «corpo glorioso», frutto degli atti meritori compiuti dal Buddha nel corso delle sue esistenze anteriori, corpo raggiante di luce e dotato di tutti i segni della bellezza e della maestà; e il «corpo reale» o «corpo della Legge », che è la vera natura del Buddha, la sua autentica realtà spirituale, illimitata, della stessa estensione dell'universo. Il corpo reale di Buddha è, quindi, l'Assoluto del Grande Veicolo.

Da questa dottrina consegue che il Buddha storico sbiadisce via via dinanzi ad una moltitudine di Buddha, successive manifestazioni del «corpo reale». Nei templi mahayanisti si venerano oggi decine e decine di Buddha diversi. Importanza ancora maggiore assunse nel Mahayana un altro punto fondamentale della dottrina buddhista: i rapporti tra samsara e nirvana. Questi rapporti furono inquadrati in una concezione nuova. Già dello stesso Buddha si tramandava la seguente affermazione: «Esiste un Non-nato, un Non-divenuto, un Non-creato. Diversamente non vi sarebbe via d'uscita del Nato, Divenuto, Creato. Ma in esso non si verifica né il divenire né l'andare; esso non ha base né appoggio: è la fine della sofferenza ».

In altre parole, c'è una Realtà assoluta, eterna, immutabile, e c'è il mondo fenomenico, soggetto al divenire, al nascere e al perire. Qui intervenne la speculazione teologica a spiegare che, mentre la Realtà assoluta è pienezza di Essere, è «ciò che è », è «quiddità» (Tâthâta), il mondo del divenire è « non essere », è pura illusione (maya). Il desiderio e, con esso, la formazione del karman, che porta alle rinascite, derivano proprio dal fatto che noi, lasciandoci ingannare dalle apparenze, attribuiamo consistenza ontologica a questo mondo, che invece non ne ha affatto ed è pura illusione.

Ora, il nirvana è aderenza alla Realtà assoluta, è partecipazione della pienezza dell'Essere. Sia la Realtà assoluta, la « quiddità », sia il nirvana, essendo della stessa natura, si sottraggono entrambi alla ragione umana e sono ineffabili. Dell'Assoluto e del nirvana possiamo dire soltanto che sono « vuoti» (sûnya), nel senso che sono « vuoti di predicabilità », cioè si sottraggono ad ogni possibilità di discorso.

Il samsara invece partecipa della natura del mondo fenomenico e, come questo, è anch'esso illusorio e inconsistente. Il samsara è una conseguenza diretta dell'ignoranza (avidyâ), la quale ci induce ad attribuire erroneamente solidarietà alle cose e allo stesso samsara. Se comprendo che il samsara è inconsistente, è un'apparenza irreale, e che invece l'unica realtà è il nirvana, io sono salvo.
Il nirvana, fin allora accessibile soltanto agli esseri perfetti come Buddha, d'un tratto, dalle sue distanze infinite, venne a trovarsi a portata di mano di tutti. Ciascun uomo è potenzialmente e segretamente un Buddha, reca in sé un sopito stato di Buddha che attende solo d'essere destato.

Con tale apertura, il Grande Veicolo diede un forte impulso alla diffusione del Buddhismo; ma il suo atteggiamento molto tollerante verso le credenze popolari le espose a tutti i pericoli della contaminazione.

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