Intervista al Semiologo Patsy Nicholas Di Falco

Intervista al Semiologo Patsy Nicholas Di Falco
Intervista al Semiologo Patsy Nicholas Di Falco
Intervista al Semiologo Patsy Nicholas Di Falco

Patsy Nicholas Di Falco ha tradotto ciò che, apparentemente, sembra una scritta impressa nel suolo marziano. Pianeta Marte.net lo ha intervistato…

Pianeta Marte.net ancora una volta si occupa della famosa “scritta” (o presunta tale) situata nella Juventae Chasma ed immortalata in una serie di fotogrammi trasmessi a Terra dalla sonda Mars Express (ESA). Tuttavia abbiamo scelto di trattare l’argomento mantenendo la dovuta “neutralità” di parte, allo scopo di evitare sia l’eccessivo entusiasmo, nonchè l’altrettanto eccessivo scetticismo.

Poichè la questione è decisamente “scottante”, sopratutto in funzione delle implicazioni storico-scientifiche, comprendiamo bene il senso di rifiuto aprioristico (e disagio), da parte di alcuni, nel ritenere tale conformazione del suolo marziano come una eventuale “scritta”. Raccomandiamo però di mantenere, a coloro che invece sono più propensi al possibilismo, il giusto senso di prudenza e cautela.

Ed ora lasciamo la parola al dr. Patsy Nicholas Di Falco.

L’intervista è stata curata da Matteo Fagone, gestore del sito Pianeta Marte.net.

Buona lettura!

M.F. – La decisione di specializzarsi nelle cosiddette “lingue morte” come l’ha maturata?

D.F. – Alla base c’è lo studio della semiologia, materia oggetto di tesi di laurea. Per un certo periodo mi sono interessato anche di dialettologia e di fonetica. Dal 1993 mi occupo prevalentemente dello studio dei Veda.

M.F. – Qualche volta ha mai pensato, nel mentre studiava e approfondiva le lingue antiche, di abbandonare il tutto per dedicarsi ad altro, forse qualcosa di più… “moderno”?

D.F. – Il problema è inverso: trovare il tempo per approfondire ulteriormente lo studio dei Veda. Per quanto concerne il “moderno”, sono appassionato di arte e di musica contemporanea.

M.F. – Una curiosità: Umberto Eco, di questo importante personaggio della Letteratura italiana se ne sente spesso parlare: ci può esprimere una sua impressione personale?

D.F. – La produzione di Umberto Eco è di rilievo mondiale. L’opera narrativa, Il nome della rosa in primis, lo ha reso noto al vasto pubblico. Personalmente preferisco Eco saggista, il Trattato di semiotica generale costituisce un punto di riferimento fondamentale nel campo delle ricerche semiotiche.

M.F. – Umberto Eco le ha lasciato un’impronta tangibile, un qualcosa che ha contribuito alla sua formazione di Studioso e Uomo?

D.F. – Colgo l’occasione per una doverosa precisazione. In diverse occasioni sono stato presentato come “allievo” di Umberto Eco. Se per allievo si intende l’aver frequentato le sue lezioni di semiotica all’Istituto di Discipline della comunicazione e dello spettacolo presso l’Università di Bologna, di cui all’epoca Eco era Direttore, ciò corrisponde al vero. Se il termine “allievo” è usato per designare “chi segue l’indirizzo di un maestro e ne continua l’opera”, attribuirmi questa qualità, seppure gratificante, è fuori luogo. Chi ha contribuito in modo sostanziale alla mia formazione è stato il semiologo Francesco Ruffini di cui, oltre l’opera e l’insegnamento, ricordo con piacere le doti umane.

M.F. – Parliamo adesso dell’India: quello che ci mostrano i documentari, i notiziari ecc… corrisponde, alla fine della storia, al Paese che lei ha potuto vedere e toccare con mano?

D.F. – Per ignoranza abbiamo di questa grande nazione e del suo vastissimo patrimonio culturale una visione insufficiente e frammentata. La nostra conoscenza dell’India è paragonabile al racconto dell’elefante e dei tre ciechi: uno toccò la proboscide e disse che l’elefante era un grosso serpente, l’altro toccò una zampa e disse che l’elefante era un albero, l’ultimo toccò un fianco e disse che l’elefante era una casa.

E’ la visione d’insieme che ci manca. Una conoscenza reale dell’India la si può avere solo stabilendoci un contatto diretto e profondo. A chi volesse conoscere il mondo induista attraverso un buon testo consiglio Miti e Dei dell’India di Alain Daniélou. Chi volesse conoscere se stesso legga assolutamente La Bhagavad-Gītā così com’è tradotta e commentata da Bhaktivedanta Swami Prabhupāda. E’ il libro più bello del mondo.

M.F. – Mi diceva Ennio Piccaluga che ha girato l’India in lungo e in largo. Premesso che questa intervista non potrà mai essere un mezzo in grado di trasmettere le sue profonde sensazioni ed emozioni acquisite…, mi piacerebbe tanto, a beneficio di tutti i Lettori, che ci raccontasse due episodi a sua scelta; due episodi che possano farci un po’ riflettere su quanto noi “evoluti e civili” (ammesso che sia così) forse abbiamo tanto da imparare… e quanto noi crediamo di essere avanti, mentre invece stiamo solo facendo finta di niente su tanti drammi che si consumano sotto i nostri occhi….

D.F. – Ho visitato solo quattordici stati dell’India; potrebbero sembrare tanti, ma le assicuro che non lo sono. Come giustamente dice, le emozioni e le sensazioni che l’India suscita sono tante ed intense. Si dice che l’India o la si odia o la si ama dal primo istante. Io appartengo a questa ultima tipologia. Sia chiaro che mi riferisco all’India tradizionale ed induista e non a quella in rapido processo di occidentalizzazione.

Piuttosto che di esperienze personali, preferisco citare due passi dello Śrīmad Bhāgavatam, noto anche come Bhāgavata Purana. Come noto, se si esclude la parentesi teorica di Aristarco da Samo, si è dovuto attendere il De revolutionibus orbium coelestium di Nicolò Copernico, pubblicato nel 1542, per avere un riconoscimento del “sistema eliocentrico”. Lo Śrīmad Bhāgavatam fu trasmesso dal Santo illuminato Vyāsadeva al figlio Śukadeva Gosvāmi. Questo, a sua volta lo espose al Māharaja Parīkşit in un’assemblea di eruditi presso Hastināpura, l’attuale Delhi.

Nel V canto, Śukadeva Gosvāmi, dopo aver descritto la composizione dell’universo, illustrò agli astanti i principi dell’eliocentrismo. Il re Parīkşit, non riuscendo a concepire quanto gli era stato detto, chiese a Śukadeva Gosvāmi come fosse possibile che i pianeti si trovassero ora a destra ed ora a sinistra del sole. Nel capitolo XXII, verso 2, Śukadeva Gosvāmi si avvale di un semplice quanto rappresentativo esempio: quando la ruota del vasaio gira sul suo asse, trasporta con sé le piccole formiche che si trovano sopra; (…) esse appaiono a volte da una parte della ruota ed a volte dall’altra; similmente i pianeti si spostano attorno al sole come le formiche (…).

Nel capitolo successivo, verso 3, Śukadeva Gosvāmi fa un ulteriore esempio: quando dei buoi sono aggiogati a tre a tre e legati ad un palo centrale per trebbiare il riso, girano attorno a questo perno senza deviare dalla loro posizione; uno dei buoi resta più vicino al palo, un altro all’estremo ed il terzo tra i primi due; similmente, i diversi pianeti (graha-ādayah) (…) girano intorno (paricańn kramanti) con il legame ai cerchi interni ed esterni (le orbite) (…) fino alla fine della creazione (ā-kalpa-antam) (…). Altrove sono descritti le moltitudini degli universi, il centro galattico, il nostro universo, le distanze dei pianeti dal sole, il dimetro della Terra, ecc.

La nostra è una supremazia tecnologica, non gnoseologica. “Veda”, in Sanscrito, è sinonimo di “scienza” e “conoscenza”, ed è, per definizione, “nityatva”, cioè “senza tempo”.

M.F. – Qual è il suo rapporto con le cose “sconosciute”, ignote e misteriose in genere? Glielo chiedo perché, suppongo, ne avrà sentite di tutti i colori…. E penso che anche lei avrà messo dei “marcatori intellettuali” oltre i quali si rischia di sconfinare in discorsi, chissà, troppo astratti, per alcuni senza senso e irrazionali…

D.F. – La cognizione è strutturalmente divergente dall’ignoto. Nelle Upanisad è detto che gli Dei amano l’enigma. Avendo di divino solo l’ātman, al di fuori dall’ambito fideistico preferisco occuparmi esclusivamente di cose note. Se il termine misterioso è inteso nella sua accezione corrente di “inesplicabile”, preferisco occuparmi di quanto è esplicabile, che ancora non conosco e che è tanto.

M.F. – Come è nato il rapporto di amicizia-collabrazione con Ennio Piccaluga?

D.F. – Prima della pubblicazione di Ossimoro Marte Ennio mi chiese di fare qualche schizzo di alcune strutture che aveva individuato sul suolo marziano tramite immagini ESA. Immeritatamente, ma soprattutto grazie all’intervento grafico del figlio Mario, uno di questi schizzi è finito sulla copertina del libro.

M.F. – Dunque, un giorno Ennio si presenta con quella strana “cosa”, un’immagine ESA nella quale si vedono quelle tracce nel terreno di Marte, e le disse: “Ho trovato questo, non ti sembra una scrittura?” Più o meno è andata così?

D.F. – L’idea che quella nella Juventae Chasma sia una scritta era già stata espressa da Ennio nel suo libro. Ho pensato di decodificarla.

M.F. – Forse lei avrà realizzato che, nel nostro mondo, ci potremmo aspettare le cose più strane e disparate, ma addirittura Marte… e, per di più, dopo le Facce, le piramidi e altre “demenzialità”, arriva anche la scritta…. Che reazione ha avuto?

D.F. – Da viaggiatore ho visto tante cose che a prima vista apparivano strane per miei limiti. Per quanto riguarda “l’altrove” ricordo ancora lo stupore che mi suscitò la prima osservazione della nebulosa di Orione con il mio telescopio da 200 mm. A proposito, lei è uno psichiatra?

M.F. – Lei ha compiuto uno studio che, almeno a giudicare, mi sembra piuttosto accurato. Naturalmente io non mi intendo di lingue antiche e presuppongo di interloquire con un esperto del settore. Ci può riassumere il criterio che ha scelto per la decodifica della scritta?

D.F. – Sia in occasione del Convegno di Esoarcheologia a San Severo del 2 dicembre scorso, che nell’articolo pubblicato su Area 51, per ragioni di tempo e di spazio, non ho avuto occasione di esporre lo studio nella sua interezza. Ritengo comunque di aver avuto modo di esporre gli elementi salienti in maniera esaustiva.

Ho operato riscontri tra diverse liste di grafemi e sillabari appartenenti a scritture antiche individuando nella brahmi la scrittura che conteneva il maggior numero di grafemi riconducibili alla “scritta” in Juventae Chasma.

La Brahmi è un tipo di scrittura sillabica di origine incerta, forse affine al consonantismo semitico dalla vocale inerente neutralizzata. Da questa scrittura deriva certamente la devanagari (da deva ‘divino’ e nagari ‘città’, dunque ‘-la scrittura- della città divina’) sviluppatasi per trascrivere il ben più antico sanscrito (samskrta ‘perfetto’) dei testi sacri di epoca indoaria antica.

Caratteristica del sistema della brami, come della devanagari, è che nel sistema sillabico le consonanti hanno rilevanza maggiore rispetto le vocali. Il grafema consonantico senza diacritici sottintende sempre –a inerente.

Del sanscrito mi sono avvalso per attribuire “senso” alle unità sillabiche prima ed al termine tiksna poi.

Il metodo adottato è proprio della linguistica comparativa avendo trattato le relazioni intercorrenti tra diverse lingue appartenenti alla stessa area linguistica (parentela linguistica). Il sistema comparativo è stato utilizzato anche per analizzare eventuali contaminazioni e decadimenti morfologici e fonematica. In questo senso ho trattato anche le trasformazioni del valore di senso al mutare della struttura antropologico-culturale.

Partendo da frammenti disorganici di iscrizioni provenienti da aree linguistiche differenti quali l’accadico, il sumero e l’ittita, grazie al metodo comparativo, nonostante numerosi problemi di ordine filologico, storico ed esegetico, si è potuto ricostruire la cosiddetta “epopea di Gilgameš”. Se non ci fosse stato un approccio del genere oggi mancherebbe un segmento della nostra storia.

M.F. – Recentemente ho letto alcune opinioni “contro” e qualche commento sarcastico, che contestano la sua interpretazione. A parte il fatto che i contestatori farebbero bene, almeno, a spendere qualche euro per leggere l’articolo apparso su Area 51 (non credo che per 5 euro si muore di fame…). Mettiamola così: quella è effettivamente una scrittura tracciata nel terreno? Chiedo venia per la mia apparente insistenza, Insomma, ne è certo? Perché possiamo crederci davvero?

D.F. – Come giustamente rileva, i commenti sono apparsi prima della pubblicazione dell’articolo su Area 51. Una situazione deprimente.

Se l’oggetto della discussione è la traduzione, di interventi contrari approfonditi ancora non ne ho letti. Per ora in campo sono scesi gli sbigottiti, che si limitano a dire che non è possibile, ed i malevoli, con illazioni infondate su presunte operazioni di promozione editoriale.

Paradossalmente mi hanno infastidito di più alcuni commenti a favore. Il colmo della saccenteria è stato raggiunto dall’autore dell’articolo “La scritta marziana” dove sono stati confusi i nomi dei simboli distintivi della nasalizzazione nel sanscrito (anusvāra e anunāsika) ed il simbolo che designa nel sanscrito l’assenza di vocale inerente –a (virāma) [e meno male che nell’articolo non ho citato l’aspirazione sorda visarga] con l’esito della traduzione. Incredibile!

Non contento, l’autore si è anche cimentato in elucubrazioni etimologiche. Ha considerato il termine anusvāra come composto da anu, che a suo dire nel sumero indica ‘cielo’ e svara, cito testualmente, “dalla radice svar … che vale splendente, luminoso, bruciante donde il sanscrito svar cielo, il greco selene, luna, etc. Anusvara potrebbe significare il cielo luminoso o il cielo della luce”.

Il problema è che anusvāra, non solo non ha nulla a che vedere con l’esito della traduzione, nel sanscrito anu è traducibile come ‘particella infinitesimale’ e dunque “piccolo”, mentre svāra (e non svar !) vale “accento, suono”. L’esito è dunque “piccolo suono”. Capisco il “piacere dello scrivere”, ma mi chiedo quale sia l’irrefrenabile necessità di comunicare prescindendo dai contenuti.

Torniamo alla “scritta”. Se io ne sono certo e se sono convinto che si tratti effettivamente di una scritta? Appare tale, appena avrò modo di visitare personalmente il pianeta Marte le saprò dire qualcosa in più. Perché crederci? Non lo so.

M.F. – Questa è senz’altro una domanda paradossale: se lei fosse uno “scettico” (tralasciamo la tipologia di scetticismo) che argomenti metterebbe in tavola per demolire la possibilità che si tratti di una “scritta” piuttosto che di una curiosa peculiarità locale di Marte?

D.F. – Quando scherzosamente ho detto che aspetto di passeggiare su Marte ho implicitamente individuato il punto debole della querelle. Come posso essere assolutamente certo che si tratti di una “scritta” avendone presa visione attraverso un’immagine satellitare?

Se dovessi smontare l’assunto cercherei di individuare le fragilità dell’impianto. Da questo punto di vista sono perfettamente conscio dei limiti dell’operazione.

1) Nella fase primigenia la brahmi era scritta da destra a sinistra; nella fase prossima al devanagari (I sec. d.C.) l’andamento della scrittura è mutato da sinistra verso destra. Considerato che la brahmi è una scrittura sillabica e che ciascun grafema costituisce una unità di senso nel sanscrito, qualsiasi sia l’ordine di lettura, le singole unità di senso possono essere associate e comporre una frase. Questo livello costituisce il penultimo stadio della mia ricerca.

Ovviamente se si adottasse il senso di lettura da destra verso sinistra l’esito finale nel termine unico sanscrito tiksna è errato. In questo caso si dovrebbero ricercare nel sanscrito soluzioni prossime all’ipotetico nak(a)s(a)ti o nak(a)s(a)ta [si veda quanto al punto 2]. Riporto solo alcune soluzioni a titolo di esempio:

  • a) nā, agg. ‘vuoto’ e śakati sf. ‘carro’, dunque ‘carro vuoto’;
  • b) na avv. ‘non’, kāśa sm. ‘apparizione’, ta base pron. dim. ‘questo’, dunque ‘questo non appare’;
  • c) na, avv. ‘non’, kāś vb. ‘essere visibile’, ta base pron. dim. ‘questo’, dunque ‘questo non è visibile’;
  • d) na, avv. ‘non’, kşata agg. ‘ferito, ucciso, ecc.’ dunque ‘non ferito’ o ‘non ucciso’;
  • e) na, avv. ‘non’, e sakta, agg. ‘appartiene’, dunque ‘non appartiene;
  • ecc., ecc.

2) Il primo grafema a sinistra nell’immagine è senz’altro ta nella brami. Per l’esito in ti ho supposto una soluzione non attestata, intermedia tra la brahmi e la devanagari, anche se con la giustificazione che in entrambi i sistemi è presente il tratto di congiunzione orizzontale.

3) La “scritta”, in corrispondenza della zona centrale è parzialmente deteriorata ed il riscontro dei grafemi nella brahmi potrebbe stata male interpretata.

4) Il metodo comparativo basato sulla derivazione genetica è da alcuni contestato:

  • a) poiché le leggi foniche sono fisse, il fatto che le lingue si evolvano producendo cambiamenti fonetici costituisce un elemento critico del principio di evoluzione linguistica;
  • b) è contestato il fatto che possa esistere una protolingua uniforme;
  • c) la ricostruzione di fonemi “ancestrali” è soggettiva e la possibilità di operare scelte sbagliate è altissima;

5) Le ipotesi sull’origine della scrittura brami sono diverse: origine indigena, derivazione dall’alfabeto semitico meridionale, dall’aramaico, dall’alfabeto fenicio o origine mista. I grafemi, a seconda della diversa discendenza, possono presentare soluzioni leggermente diversi tra di loro. Ecc.

M.F. – Adesso spingiamoci a qualche congettura. Dunque, su Marte “qualcuno” tracciò nei terreno una “scritta”. “Qualcuno”?

D.F. – Come avrà capito, le congetture non sono il mio forte. Ho trattato la “scritta” esclusivamente come materiale linguistico. L’analisi filologica risente ovviamente del considerevole limite di non conoscere l’ambiente culturale, se mai ve ne fosse uno, che l’ha prodotta. Preliminarmente ad ogni approccio mi sono imposto la completa decontestualizzazione. Durante il lavoro non ho mai tenuto conto del fatto che la scritta è presente sul pianeta Marte. Solo a decodificazione effettuata, tra le diverse soluzioni di senso del termine tiksna nel sanscrito, ho pensato che l’esito ‘nitrato’ potesse avere una prevalenza sugli altri in considerazione di una possibile e tutta da dimostrare attinenza con la natura geologica del luogo ove è collocata.

Non avendo nessun dato su chi eventualmente ha realizzato la “scritta” e come, non volendo spingermi su terreni estremamente insidiosi, ho volutamente omesso di trattare alcuni aspetti propri della linguistica quali gli organi fonatori, lo strumento scrittorio, il supporto scrittorio, ecc.

M.F. – Come se lo spiega il fatto di trovare su Marte una scritta in una antica lingua terrestre?

D.F. – Non ne ho la più pallida idea. Potrebbe trattarsi di concrezioni del suolo marziano, certo è che almeno lei non ne è convinto del tutto altrimenti non starebbe a perdere tempo con questa intervista. Se si trattasse di una scritta sarei il primo (forse) eso-linguistica del mondo (visto che va di moda questo prefisso).

M.F. – Facciamo un discorso tecnico-scientifico e paragoniamo il suo lavoro ad un esperimento di laboratorio. Che ne pensa della possibilità di lasciare ripetere la decodifica e interpretazione ad un altro esperto, proprio allo scopo di effettuare la cosiddetta “prova del 9”? Molti ovviamente contesteranno il suo risultato…. Ma se due o più Esperti arrivassero alla stessa soluzione… mi sa tanto che qualcuno dovrà imboccare un brutto rospo…. Dico bene?

D.F. – Consiglio di consegnare ad esperti l’immagine ESA della “scritta” senza fornire alcuna indicazione sulla provenienza. Senza preconcetti si lavora meglio. Per quanto mi è dato conoscere difficilmente si potranno riscontrare caratteri diversi dalla brahmi.

Più complessa è la questione relativa all’attribuzione di senso. Se si prendono a riferimento le unità sillabiche, il numero delle ipotesi entro le quali cercare di ricomporre l’eventuale successione di termini in frase è molto alto. Il dato complessivo si ha dal numero delle sillabe elevato al numero medio di unità di senso di ciascuna di esse. Anche se la soluzione fosse da ricercare in un solo temine non è detto che le cose cambino di molto. Pensi che il dizionario sanscrito Monier-Wiliams, per il solo termine tiksna, riporta circa un centinaio di significati.

Consiglio anche di interpellare esperti del funzionamento e delle capacità tecnico-rilevative nell’infrarosso dello spettrometro Omega posto sulla Mars Express per sapere se è in grado di distinguere un solfato (individuato dall’apparecchiatura) da un nitrato (uno degli esiti del termine sanscrito tiksna), nonché esperti di esogeologia (questo ambito disciplinare è accreditato nella comunità scientifica). Anche questo canale informativo potrebbe condurre ”alla stessa soluzione”.

M.F. – Come disse il buon Roberto Boncristiano “andiamo su Marte affacciandoci al futuro e alla fine scopriamo il nostro passato”. Il futuro che prospettive offrirà alla nostra comprensione della Storia ed alla nostra (patetica?) “Civiltà Evoluta”?

D.F. – Per quanto mi concerne e parafrasando Boncristiano, la frase che meglio mi si adatta è: “andiamo ovunque, riscopriamo il nostro passato per affacciarci al futuro”.

Non essendo un veggente, non so quali siano le nostre prospettive future. Pur di rispondere mi affido ancora una volta ai Veda. Secondo questi testi sacri, attualmente ci troviamo nell’era denominata Kali Yuga. Adattando la data al nostro calendario, essa è iniziata il 18 febbraio del 3.012 a.C., durerà complessivamente 432.000 anni e terminerà nell’anno 426.981.

Il Kali Yuga è descritta come un’era oscura, caratterizzata dal prevalere dei piaceri transitori, dall’illusione, dalla paura, dall’avvento dell’irreligione e del materialismo”. Cito ancora una volta lo Śrīmad Bhāgavatam (Canto I, capitolo III, verso 25): “Quando quasi tutti i governanti della Terra saranno diventati predoni” (dasyu) ci sarà distruzione e morte.

Non volendo risultare menagramo, spero che almeno in questo caso i Veda si sbaglino, anche se mi sembra evidente che gli indicatori di questa triste sorte siano già ben manifesti e lungi dal poter essere arrestati.

La ringrazio per avermi offerto l’opportunità di questa intervista.

Da parte di Pianeta Marte.net (e del suo gestore) un ringraziamento a Patsy Nicholas Di Falco per le ottime informazioni racchiuse nell’intervista.
© 2004 – 2008 Pianeta Marte.net. All right reserved.

pianetamarte.net