Il disco nel lago di Vostok: dopo trent’anni il mistero è ancora fitto

Trent’anni e venticinque milioni di anni. Queste sono le tappe di quello che, probabilmente, è oggi il più affascinante mistero che riguarda lo studio dei fondali inesplorati.

lago di Vostok

Il lago di Vostok, in Antartide, fu scoperto dal geografo russo Andreji Kapica, nel 1959, ma oggetto di studi e carotaggi solo dai primi anni novanta.

Si tratta di un lago sub-glaciale, individuato a circa tremilasettecento metri di profondità rispetto alla superficie del polo sud, in una zona dell’Antartide orientale ed è parte di una serie di settanta laghi sub-glaciali. I dati che riguardano questo bacino sotterraneo indicano una lunghezza di 25° chilometri, un’ampiezza oscillante tra i quaranta e i cinquanta chilometri e una profondità rispetto alla superficie oscillante tra i tremilasettecento e i quattromila metri. Il dato più importante relativo alle caratteristiche geotermiche del lago è dato dal fatto che la sua temperatura media sarebbe di meno tre gradi, dunque superiore, a quella profondità, alla temperatura di fusione del ghiaccio. Inoltre, secondo gli studi sin qui condotti, il fondale del lago sarebbe localizzato in una zona in cui la crosta terrestre potrebbe essere più sottile e, dunque, sarebbe possibile ipotizzare la presenza di temperature molto più elevate, attorno ai trenta gradi.

Sino a pochi anni fa, dunque, era solo ipotizzabile che sotto i ghiacci dell’Antartide fosse presente una sorta di ecosistema puro, incontaminato, risalente a circa venticinque milioni di anni fa. Presenza di acqua, temperature miti, sostanziale isolamento del bacino lacustre, infatti, promettevano, con un dato margine di certezza, di sostenere la teoria di una zona primitiva incontaminata in cui forme di vita sconosciute potessero vivere indisturbate. Nel febbraio del 2012, poi, l’istituto russo di ricerca sull’Antartide conferma la notizia che una equipe di studiosi di pari nazionalità ha “bucato” la calotta di ghiaccio raggiungendo la profondità di 3776 metri trovandosi, dunque, nella possibilità di sondare la “bolla” di acqua e aria presente nel sottosuolo.

Occorrono ancora alcuni mesi e, nell’ottobre dello stesso anno, un “incidente” durante le perforazioni consente l’incredibile scoperta: un flusso di cherosene, risalito in superficie durante una trivellazione, per via della differenza di pressione, e immediatamente ricongelato in superficie, porta con sé dei batteri. Forme di vita, dunque. Probabilmente sconosciute. I batteri vengono poi analizzati e si scopre che essi hanno un DNA sconosciuto all’ottantasei per cento (i protocolli scientifici stabiliscono che, affinché si parli di vita “aliena”, nel senso di specie vivente non nota, occorre che lo scarto sia almeno pari al novanta per cento).

Appare subito evidente l’enormità della scoperta, non tanto per lo scarto differenziale tra ceppi genetici conosciuti e ignoti, quanto piuttosto perché il ritrovamento conferma che c’è un ecosistema o, quanto meno, che in quel lago la vita esiste. E quella vita, se tutte le variabili sin qui ipotizzate restano valide, risale a venticinque milioni di anni fa. Tutto questo potrebbe già essere sufficiente per confezionare la sceneggiatura di un romanzo, o la trama di una serie tv tra quelle oggi più in voga. Eppure, si tratta solo di una parte delle numerose coincidenze che riguardano questa zona del globo terrestre.

Ecco gli altri ingredienti che, da trent’anni, rimangono inspiegabili. Le stesse attività di ricognizione e studio del lago confermano che, a sudovest del lago, insiste una attività magnetica inspiegabile che condiziona i risultati ottenuti attraverso la strumentazione scientifica. Il magnetismo terrestre sarebbe disturbato da onde magnetiche di origine ignota. Si tratta di una alterazione di circa 1000 nanotesla. Non basta. In quella stessa parte del lago, in profondità, appare ormai evidente che “qualcosa” sia deposto sul fondale. Qualcosa dalle dimensioni troppo regolari per poter essere una struttura naturale: dunque, un artefatto. Un oggetto circolare o cilindrico e, in considerazione dello sbalzo magnetico rilevato dagli strumenti, probabilmente di composizione metallica. Meno certe le notizie riguardanti il diametro di questa formazione metallica: si parla addirittura di cento chilometri.

Non basta. Sempre nel 2012, il canale tv Fox annuncia che una intera spedizione scientifica è scomparsa nella zona di perforazione della calotta antartica, per poi riapparire magicamente dal nulla. Ovviamente, a seguito di ciò, le notizie si fanno sempre più scarne e la cosa passa sottotraccia. Ma non basta ancora. Sempre nel 2012 due donne australiane attraversano il continente antartico sugli sci; una volta giunte sono state prelevate con la forza di una squadra americana e messe in isolamento in un luogo non precisato.

Altro non è stato detto e da allora non si è saputo che fine abbiano fatto le due malcapitate. L’unica cosa certa è che la loro scomparsa cela un mistero collegato con l’ultimo collegamento radio e la base di Casey, stazione australiana, nella quale affermavano che “avevano visto qualcosa di cui volevano assolutamente riferire, ma di cui non osavano parlare per via radio per timore di essere captate”. È servito a poco, perché sono state intercettate e isolate rendendo ancora più fitto il mistero. Cosa hanno visto le due donne che non dovevano vedere? Basta così?

Non basta affatto. Nella stessa zona, nel giugno 1934, nel corso della seconda spedizione a lui assegnata, Richard Evelyn Byrd – Esploratore polare e aviatore statunitense (Winchester, Virginia, 1888 – Boston 1957) era rimasto isolato a circa 125 miglia dal campo base. Altri membri della spedizione dovevano spingersi in suo soccorso, ma a 50 miglia dalla partenza il trattore sul quale viaggiavano si era rotto. Un secondo tentativo si era risolto in un altro fallimento a 30 miglia dalla base. Il terzo finalmente aveva avuto successo, ma Byrd era stato trovato in condizioni critiche, dopo aver resistito circa tre settimane. In un suo diario redatto al termine di questa infernale campagna polare, l’ammiraglio, da tutti conosciuto come persona pragmatica e assolutamente affidabile, raccontò di aver raggiunto il sottosuolo del continente antartico, di avervi trovato un reticolato di caverne e, al loro interno, una civiltà umanoide con cui aveva interagito sino alla data del suo ritrovamento.

Caverne abitate. E, naturalmente, non basta. Alcuni quotidiani russi, proprio in occasione delle trivellazioni operate sul fondale del lago, hanno rispolverato una vecchia fantastoria. Infatti, assieme alle teorie sulle possibili scoperte di organismi mai visti, riaffiora anche la storia dei resti di Hitler, che potrebbero essere stati trasportati in Antartide alla fine della Seconda guerra mondiale. Più che resti, campioni di dna, con l’obiettivo di clonare il Führer ed Eva Braun, la compagna morta con lui. Nel 1943, peraltro, l’Ammiraglio Karl Doenitz si vantava del fatto che una flotta di sottomarini tedeschi avesse raggiunto l’Antartide e lì avesse lavorato duramente per allestire «una fortezza inespugnabile per il Führer all’altro capo del mondo. Di concreto, a suffragio, c’è davvero poco.

Spulciando, infatti, gli archivi navali tedeschi, emersi a seguito della caduta del Terzo Reich, parrebbe che, nel 1945, il sottomarino U-530 arrivò effettivamente al Polo Sud. È evidente la differenza che esiste tra “un sottomarino” e una intera flotta di sommergibili. Comunque, i membri dell’equipaggio avrebbero costruito una grotta di ghiaccio, utilizzata come magazzino di fortuna – probabilmente anche temporaneo – con «reliquie del Terzo Reich».

E, naturalmente, non potevano mancare le precipitazioni di meteoriti, ulteriore tassello per introdurre il tema della panspermia, ossia l’innesco della vita, sul pianeta terra, a opera di DNA interstellare precipitato nelle feconde acque terrestri assieme alle meteore. Alcuni di questi meteoriti, infatti, sono stati rinvenuti nelle profondità antartiche. Ad attrarre in modo particolare gli studiosi sarebbe uno dei tre meteoriti antartici, “Nakhla”, conservato da circa 100 anni nel Museo di Storia Naturale di Londra.

Mescolando tutti gli ingredienti di questa gustosa ricetta è almeno possibile trarre una conclusione: finché non si farà chiarezza sul “misterioso” oggetto discoidale deposto sul fondale del lago di Vostok tutte le speculazioni più azzardate continueranno a proliferare, soprattutto se, ad alimentarle, contribuiscono fatti come quello di seguito riassunto.

Tempo fa, la portavoce della NASA, Debra Shingteller, nel corso di una conferenza stampa, ha alluso a «questioni di sicurezza nazionale» che hanno consentito all’ente aerospaziale di assumere il controllo di quello che era stato un tentativo internazionale di esplorare un vasto lago sotto il ghiaccio nei pressi della stazione di ricerca russa Vostok. La signora Shingteller pare sia stata immediatamente allontanata dal podio, lasciando a un’assistente il compito di sostituire le inquietanti dichiarazioni con un più rassicurante teorema: «il progetto è stato bloccato a causa di problemi di natura ambientale». Comunque, dopo la conferenza stampa, pare che la signora Shingteller non abbia risposto a ripetuti tentativi di contatto.

Vincenzo Di Pietro


Vincenzo Di Pietro, autore italiano nato nel 1974 a Pescara, è conosciuto nel mondo letterario per i suoi romanzi che spaziano dalla narrazione introspettiva, al genere horror, alla fantascienza. Ha iniziato la sua carriera letteraria nel 1992 con “Una strada buia” seguito da numerosi altri titoli tra cui, di recente pubblicazione, “Genesi” – Arkadia Editore – che sviluppa una complessa storia fantascientifica incentrata sul ritrovamento di Vostok.  Il romanzo è disponibile anche qui