L’India ai tempi di Buddha

L’India ai tempi di Buddha

Il clamore suscitato nell’ottobre scorso dai media sulle travagliate vicende del Myanmar (ex Birmania) e in particolare sulle manifestazioni pacifiche dei monaci buddhisti, subito sedate dal regime, pone alcuni interrogativi su questo culto che buona parte del mondo occidentale poco ha notizia. Ma che cos’è il Buddhismo?

Per fare un po’ di chiarezza riteniamo utile fare un analisi attraverso il suo profilo.

Prima di addentrarci in questa religione, è obbligo accennare che l’India è la terra e l’induismo è la fede di colui che in futuro sarebbe diventato il Buddha. Una premessa fondamentale ci impone anche di fare un’analisi più sottile del sistema sociale indiano ed è, come tutti gli altri, che esso è sempre stato basato su regole e usi che hanno sempre regolato i rapporti delle classi sociali. Lo scopo fondamentale è quello di mantenere la separazione delle classi alle quali appartengono gli individui, pur assegnando loro un posto nell’insieme della società per assicurarne la coesione. E’ un sistema gerarchico in cui le classi sociali differenziate non sono paritarie, non hanno gli stessi diritti e privilegi, e non sono considerate come di uguale purezza secondo una ben definita scala di valori. E’ senza dubbio la forza del principio della separazione e della purezza che ha condotto portoghesi e spagnoli a designare col nome di casta (portoghese: casta, non mescolato).

E’ obbligo tener conto non solo del principio di separazione delle grandi classi della società, ma dei loro reciproci rapporti indispensabili e dei gruppi sociali minoritari. Il vocabolario delle lingue indiane (per esempio l’hindi, vicino al sanscrito) distingue due livelli nell’appartenenza di un individuo al suo gruppo sociale. Egli appartiene per nascita a una jāti, cioè ad una schiatta che si sente collegata a tutto un gruppo sociale che ha uno statuto, quello della jāti. A questo livello, la jāti spesso ha come caratteristica propria il mestiere, e molte jāti sono designate dal nome di un mestiere: per esempio la jāti dei vasai, dei fabbri, ecc.

Le jāti stesse sono situate secondo una scala cromatica in un insieme più vasto di quattro classi o varna, alla lettera «colori». Ci sono jāti che per un mestiere particolarmente impuro possono non essere integrate in questo insieme o anche costituire dei gruppi che gli altri non frequentano e che sono «intoccabili». Ci sono quattro classi fondamentali (varna): Brahmani, Ksatriya, Vaisya e Sudra. Ciascuna è oggi composta da numerose sotto-caste jāti che ne fanno o aspirano a fame parte. Le prime tre classi di base sono le caste nel senso nobile della parola e corrispondono alle tre funzioni in cui si ripartiva la società indoeuropea, così come i suoi dèi, prima di penetrare in India. Vi appartengono rispettivamente coloro che sono preposti ai riti religiosi e alla cultura dello spirito (brahmani), i guerrieri (ksatriya) e infine i commercianti, i pastori e gli agricoltori (vaisya). La quarta classe o casta è quella dei sudra o servitori ed è costituita dagli abitanti del continente indiano che le prime classi ridussero allo stato di servi.
[u]Condizioni spirituali dell’India ai tempi di Buddha[/u]

Tra l’VIII e il V secolo a.c. l’India, attraversò una profonda crisi religiosa. Due forze, diverse nella loro origine e nella loro natura, concordavano nello scuotere l’antico tronco del Brahmanesimo: la rivoluzione dottrinale capeggiata dagli Ksatriya e la pressione dei culti e delle credenze popolari, che aspiravano a ricevere il crisma dell’ortodossia da parte dell’aristocratica religione ufficiale. Gli Ksatriya opponevano alla dottrina del Brahman, forza universale indefinita e indefinibile, la meditazione d’una realtà più immediata, il «sé », l’Atman, e contro lo strapotere ritualistico della casta sacerdotale, che aveva distorto in atto di magia l’azione sacrificale, cercavano nell’interiorità di ciascuno l’alimento e la radice stessa della vita religiosa.

Ma cos’è il Brahman? Nelle Upanishad (testi religiosi che formano l’ultima parte dei Veda) viene designato col pronome dimostrativo neutro Tad (cf. greco to latino (is) tud): Ciò. Il Brahman è la Suprema Realtà, è l’Essere; ma non è persona. Pertanto il Tad è ciò che è, non Colui che è. Questa definizione esclude ogni possibilità da parte dell’intelletto di concepirlo; giacché l’intelletto può conoscere che Tad è la Realtà della realtà, ma non può conoscerlo in sé. Il Tad è unico, immenso, eterno, inconoscibile:

«L’occhio non riesce ad avvicinarlo, né la voce né la mente. Noi non lo conosciamo, né possiamo descriverlo. È diverso da ogni cognito e oltre ogni incognito. Cosi abbiamo imparato dagli antichi che ce l’hanno insegnato» (Kena Upanishad I, 3.

La totale inconoscibilità del Tad comporta come conseguenza che su di esso non si può dire nulla di positivo; non è possibile dire «che cosa è il Tad». Esso esclude ogni teologia positiva e lascia spazio solo ad una teologia apofatica o negativa: solo accettando di non conoscerlo si può dire qualcosa di esso:

«Esso è conosciuto da colui che non Lo comprende; quegli invece che Lo comprende, non capisce nulla. Perché Esso è ignoto all’uomo sapiente, all’ignorante invece è noto» (Kena Upanishad II, 3).

Il Brahman, principio universale indefinibile, è sempre e soltanto soggetto, mai «oggetto» di conoscenza:

« Esso muove, ma non si muove; è lontano e insieme vicino; sta al di dentro di tutto e sopra ogni cosa» (Isa Upanishad, 5).

Con la dottrina del Brahman, il pensiero religioso indiano giunge a formulare una sorta di panteismo o, per essere più precisi, un vero panenteismo (cf. greco pan en theo: «tutto in Dio»): tutto al di qua è ancorato e immerso nell’aldilà; il divino si manifesta dovunque, ma non è afferrabile; esso non abita nelle cose, ma nulla noi conosciamo che non dipenda dal suo essere; il tutto non esaurisce il divino, che resta sempre infinitamente al di là dal tutto, ma tutto è divino:

« Quello (= Tad) è pieno, e pieno è questo (= il mondo); da Quello pieno questo proviene. Tolto questo da Quello, resta sempre pieno Quello » (Isa Up, Santi Mantra).

Stando così le cose, qual fine deve porsi l’uomo se non l’assorbimento totale nel Brahman?

« A quel modo che tutti i fiumi scompaiono nel mare, abbandonando in esso nome e forma, allo stesso modo il saggio, libero di nome e di forma (cioè della sua individualità), entra nello Spirito Universale, che è più alto dell’altissimo» (Mundaka Upanishad IlI, 2, 8),)

Reazione antibrahmanica
Lo strapotere della casta sacerdotale e la dottrina del Brahman, giustificazione teologica di questo strapotere, provocarono una vigorosa reazione nella seconda casta della società indiana, quella dei guerrieri (Ksatriya). Questa reazione, fra gli altri suoi effetti, aprirà la strada a grandi movimenti ereterodossi, alcuni dei quali, come il Buddhismo e il Giainismo, si svilupperanno come religioni autonome.

Mentre i sacerdoti riconoscevano nel Brahman (come Principio d’ogni cosa e come «parola sacra», della quale essi erano depositari) la forza universale, i nuovi pensatori, sorti dal seno della casta degli Ksatriya, furono portati a studiare non più il principio macroscopico di tutte le cose, ma quella realtà microscopica che è il piccolo «io», l’anima, individuale, ovvero l’atman. Il vocabolo sanscrito «atman» grammaticalmente è un pronome riflessivo di prima, seconda e terza persona, che potremmo tradurre “sé”, ed etimologicamente significa «respiro», «soffio vitale» (cf. greco atmòs, tedesco atmen).

L’atman è l’io più profondo, passivo ed inconscio, dell’essere vivente, la particella di Assoluto che gli è propria; è il principio microscopico del mondo, che è presente in ciascun uomo e perciò è direttamente intuibile con la concentrazione della mente e con le pratiche yogiche. L’esatta conoscenza dell’atman dà all’uomo la conoscènza immediata di tutto lo scibile e gli fa raggiungere il grado supremo di tutte le virtù. Indubbiamente, l’atman non è più definito né più definibile del Brahman; il sé è ugualmente inconoscibile e ineffabile; ma rispetto al Brahman appare più vicino e più immediatamente intuibile.

[u]Dottrina conciliativa del Brahman-Atman[/u]

Dinanzi al diffondersi della dottrina dell’Atman, che pareva contrastare quella del Brahman, la casta sacerdotale diede prova di una singolare capacità di conciliazione. Se l’atman è la radice di tutte le forze e di tutte le funzioni vitali dell’uomo – osservarono i brahmani -, se è ciò che, tolta ogni qualità esteriore, troviamo come nostro interno e vero essere, ciò vuol dire che l’atman, il principio microscopico, è essenzialmente identico al Brahman, al principio cosmico:

«In verità, anche se un uomo eseguisce un’opera grandiosa e santa, ma non sa che l’intero modo è Brahman ovvero il Sé (Atman) e che io sono Brahman ovvero il Sé, quel suo lavoro alla fine perisce. L’opera di colui che adora il Sé come unica realtà non perisce» (Brihadaranyaka Upanishad I, 4, 15).

Il principio macroscopico e quello microscopico vengono così identificati: l’asso1uto non è Brahman oppure Atman, ma è Brahman-Atman, insieme. Del resto, tale identificazione è piuttosto agevole, dal momento che sia l’uno che l’altro principio è impersonale.

Atman e Brahman non stanno in relazione fra loro come una parte sta al tutto, né l’Atman è emanazione individuale del principio universale; essi sono, pur nella diversità del nome, un solo principio, una sola sostanza, l’Uno-Tutto. Varia soltanto il punto di vista dal quale è guardata la realtà. Di qui la formula Tat tvam asi,«Ciò tu sei », «tu sei il Tad », «tu sei l’Assoluto», che nella Chândogya Upanishad riassume questa dottrina destinata a restare patrimonio fondamentale della religione e della cultura indiana nei secoli, fino ai nostri giorni. Tutta la tradizione indù riposa su questa sacra « rivelazione »: ciascun uomo è essenzialmente identico all’Assoluto.

Come accennato or ora nell’Induismo, la casta brahmanica riuscì a conciliare la dottrina del Brahman con quella dell’Atman, identificando l’Assoluto del Brahman-Atman. Questa identificazione, però, diede nuove dimensioni al problema escatologico, il quale s’impose con maggiore urgenza che nel passato. Se, nella sua essenza, l’Atman è identico al Brahman, perché se ne distacca, diventando così principio vitale dell’individuo? E in quanto principio vitale dell’individuo, che cos’è l’Atman? Quale ne è il destino dopo la morte? Si afferma che l’Atman individuale tende naturalmente a ricongiungersi al Brahman, dal quale ha avuto origine; ebbene, dopo la morte, l’Atman realizza sempre questo ricongiungimento? Se lo realizza sempre, come si spiega il sorgere di nuove vite? Se non sempre lo realizza, se anzi la maggior parte degli Atman individuali resta incatenata alla realtà fenomenica, che cosa li tiene lontano dal loro scopo finale? Quale forza le spinge a dar origine a nuove vite?

Le risposte a questi interrogativi furono trovate nell’antichissima credenza non ariana del samsara, il ciclo senza fine delle nascite, delle morti e delle rinascite. La forza che incatena l’Atman al samsara è il karman, l’effetto di ogni atto, di ogni pensiero, buono o cattivo, consapevole e inconsapevole, di cui l’individuo deve render conto. Solo dopo l’estinzione del karman l’anima può evadere dal ciclo delle rinascite.

Le leggi del karman e del samsara entrano, così, nel credo del Brahmanesimo accanto all’accettazione dell’autorità dei Veda e del sistema sociale delle caste. Intanto una grande rivoluzione è avvenuta: il centro di gravità della religione indiana si è spostato da Dio all’uomo. Di conseguenza, le preoccupazioni metafisiche vengono sommerse da quelle escatologiche. Mentre il divino sfuma nelle astrattezze del Brahman-Atman, s’impone con drammatica urgenza il problema del dolore, della sofferenza e del destino individuale dell’uomo. La vita è dolore, e questo dolore si rinnova infinitamente nelle successive rinascite. Di qui l’aspirazione a spezzare il cerchio del samsara. La ricerca d’una vita di salvezza, che assicuri la liberazione definitiva dalla forza costrittiva del karman, diviene l’oggetto della specu1azione filosofica indiana. Ben sedici scuole si travagliano in questa ricerca, e gran parte di esse rompono i ponti con la tradizione vedica e con l’azione mediatrice della casta sacerdotale.

Tutto diviene problematico, ogni credenza vien posta in discussione. A somiglianza di quanto avverrà nella Grecia degli ultimi tempi, nel pensiero indiano si dileguano la capacità e la fiducia di conoscere le verità supreme e, nel dilagare della sképsis,i sistemi si giudicano dalla loro utilità pratica. Le vie di salvezza, proposte da scuole filosofiche e da sette religiose, si moltiplicano. Quale di esse dà sicuramente la liberazione? Le vie intellettualistiche del Sâmkhya e del Nyâya oppure il piacere dei sensi esaltato dal sistema Carvâka? L’ascesi dello Yoga oppure la severa mortificazione del corpo praticata dai giainisti?

Anche la casta brahmanica, adeguandosi alle esigenze spirituali del momento, propone la sua via: ogni uomo, se compie perfettamente il sacrificio interiore (e non più soltanto quello rituale), se cioè arriva a realizzare per esperienza personale l’identità del « sé» con l’Assoluto, può evadere dal samsara. Ma quanti possono e sanno realizzare tale identità? Ma, poi, tale identità è effettivamente realizzabile? Ammesso che lo sia: chi può affermare con certezza di aver raggiunto l’Assoluto e di essere così sfuggito alle vicissitudini delle esistenze cicliche?

Questi problemi spirituali travagliavano l’India, allorché a Kapilavastu, nel Nepal, nacque Siddharta Gautama (o Gotama), il futuro Buddha.

Antonio Cioppa

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