Nasa, la leggenda contromano festeggia il mezzo secolo

Il Giornale OnlineVITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON – Erano le 16 e 44 minuti (e 34 secondi, per essere pignoli) del 6 dicembre 1957 a Cape Canaveral in Florida quando “mission control” accese la miscela esplosiva di ossigeno liquido, kerosene e azoto contenuta nel primo stadio dei missile Vanguard, al quale l'America aveva affidato la speranza di portare in orbita il “pompelmo”, come era stato soprannominato il piccolo satellite montato sul suo naso.

Sotto lo sguardo del presidente Eisenhower e del mondo, collegati in diretta televisiva, il motore del primo stadio si accese disciplinatamente e dopo 24 secondi esplose. Il suo viaggio per lanciare il primo satellite artificiale americano, per dare la risposta del “mondo libero” allo Sputnik del Cremlino, era stato esattamente di quattro piedi, un metro e venti, la più breve avventura spaziale nella storia dell'astronautica. I giornali ebbero vita facile a ridere amaro. Lo Sputnik mancato fu ribattezzato “kaputnik” e “flopnik”.

Kruschev sghignazzò felice. Eisenhower ebbe una dei suoi leggendari attacchi di collera, frequenti dietro la facciata stoica del vecchio generale che aveva guidato gli Alleati sulle spiagge della Normandia. Un uomo soltanto sorrise compiaciuto quel giorno da lontano: dal suo ufficio nel centro di ricerche missilistiche in Alabama. Era un ancora giovane ingegnere tedesco di quarantacinque anni, un uomo che aveva indossato l'uniforme nera con le teste di morto delle Ss, il padre di quelle armi della vendetta nazista, le V1 e le V2, che erano state fabbricate dagli schiavi deportati dall'Europa occupata ed erano piovute per mesi sulla testa di innocenti londinesi.

La fantastica lavatrice della Guerra Fredda lo aveva ripulito, smacchiato, candeggiato e naturalizzato americano, perché lui e lui solo, Wehrner Von Braun aveva il missile giusto, il progetto migliore, la chiave che avrebbe aperto per l'America le porte del cielo.

Otto mesi dopo il flop del pompelmo a Cape Canaveral, quando Dwight “Ike” Eisenhower avrebbe firmato il 29 luglio del 1958 l'atto di nascita della National Aeronautics and Space Administration, la Nasa, l'agenzia spaziale americana creata con il compito di raccogliere e coordinare i rottami e gli spezzoni dei programmi e progetti spaziali rivali, sarebbe stato lui, Von Braun, che l'avrebbe trasformata nella dominante e irraggiungibile “vergine delle stelle”, nella apparentemente infallibile dominatrice della corsa alla spazio che, appena dodici anni dopo il “flopnik” avrebbe portato noi uomini sulla Luna e volenterosi robot su Marte a scoprire l'ipotesi della vita oltre la Terra.

Cinquant'anni di esistenza, per la già infallibile ragazzona oggi guardata come una signora piuttosto sfiorita e fin troppo navigata, danno la misura insieme di quanto rapida e travolgente sia stata quella corsa al controllo scientifico, ma in realtà politico, ideologico e militare, del vuoto oltre la nostra atmosfera e del sistema solare. Un mezzo secolo di esistenza che ha riconfermato, passando dalla vergogna del volo di un metro e venti al progetto di stabilire colonie umane permanenti sulla Luna e su Marte, l'opinione che un grande conoscitore dell'America come Winston Churchill aveva espresso: “Si può sempre contare sul fatto che gli americani facciano tutte le cose sbagliate prima di fare quella giusta”.

È quasi impossibile, oggi, mentre l'ex Unione Sovietica sembra più impegnata a rastrellare club di calcio e a ricattare i consumatori del suo petrolio, e l'ultimo veicolo per i viaggi orbitali, lo Shuttle, si prepara al pensionamento definitivo tra poco più di un anno, rivivere il senso di sconfitta storica e di panico che attanagliava l'America in quella fine degli anni Cinquanta e in quei primi anni Sessanta.

L'Unione Sovietica di Nikita Kruschev e poi di Brezhnev e di Kosygin semplicemente dominava lo spazio, con una serie di primati che un testimone impeccabile come Neil Armstrong ha elencato nella sua prefazione alle memorie del collega Scott e del russo Leonov, Le due facce della Luna: primo satellite in orbita, lo Sputnik del 1957, visibile a occhio nudo; primi nel lancio (e nel martirio) di una creatura vivente, la cagnetta Laika; primi nel volo di un cosmonauta, Yuri Gagarin; primi nelle passeggiate spaziali, con Alexei Leonov; primi nel mandare una donna in orbita; primi nel lanciare un equipaggio multiplo; primi nel raggiungere la Luna, Venere e Marte con sonde.

Ma la Nasa aveva in Von Braun il motore, in John F Kennedy il carburante e nella competizione con i sovietici quello stimolo che sempre questa nazione richiede per scuotersi dal proprio torpore autocompiaciuto. Con una curiosa combinazione esclusiva di massoni ed ex nazisti al proprio vertice amministrativo e progettuale, da Von Braun al direttore James Webb (Aldrin indossava e mostrava orgogliosamente l'anello della Massoneria in ogni foto ufficiale, spesso tagliato o cancellato dai ritoccatori della Nasa), la trasformazione dal dilettantismo dei primi passi alla ferrea, tedesca organizzazione dello sforzo che portò Armstrong e Buzz Aldrin nel Mare della Tranquillità il 20 luglio del 1969 fu sbalorditiva.

Paragonabile soltanto, per impegno, fissazione ed entusiasmo popolare, al “Progetto Manhattan” che in quattro anni, con centotrentamila addetti e un costo di trenta miliardi di dollari al valore attuale, produsse la prima arma atomica. O alla grande mobilitazione industriale e umana del dopo Pearl Harbor, quando l'America passò da un risibile esercito addestrato con manici di scopa per mancanza di fucili alla macchina irresistibile che sapeva costruire mercantili “Liberty” in ventiquattro ore, da zero.

Oggi, cinquant'anni dopo, mentre i diciotto miliardi di dollari stanziati dal Congresso per il bilancio 2008 sembrano destinati a tenere in funzione centri e basi per compiacere senatori e deputati, e il Saturno V, il vettore dell'Apollo, arrugginisce come una balena in secca sulle spiagge di Cape Canaveral, ricordare il valore e il significato dell'epoca d'oro della “vergine dello spazio” negli anni Sessanta richiede uno sforzo di immaginazione storica, anche per chi quegli anni visse e conobbe.

La irresistibile ascesa della Nasa, dalle ceneri dei primi flop alla commozione globale per l'orma di Armstrong sulla Luna, avvenne volando controvento rispetto agli umori e allo spirito del tempo in quella decade. Le capsule Mercury dei primi lanci, il successo del primo volo orbitale di John Glenn, la temerarietà del progetto Apollo, la tragedia dei tre astronauti arsi vivi nell'incendio di Apollo I, il dramma vissuto in diretta di Apollo XIII, viaggiarono contromano sulla strada di una nazione che attraversava il buio degli assassinii politici, del Vietnam, del Sessantotto, della violenza e della demoralizzazione.

La Nasa non portò l'America sulla Luna. Riportò la Luna in America, compiendo quel fantastico “stunt”, quel numero tecno-politico-propagandistico che le restituì il senso della propria primazia globale, ammaccato dagli Sputnik, tarlato dalla guerra in Vietnam e sforacchiato dai proiettili che proprio in quegli anni abbattevano due Kennedy e due leader dei diritti civili come Malcolm X e Martin Luther King.

Talmente incomprensibile fu questa capacità di essere meravigliosa e perfetta nel tempo della confusione e della imperfezione, che i suoi successi generarono sospetti, teorie, accuse di manipolazioni. Dal giorno in cui, settantadue ore dopo lo sbarco sulla Luna, un misterioso personaggio con occhiali neri e spolverino da C'era una volta il West girava nella sala stampa del Jet Propulsion di Pasadena, il centro di ricerca e controllo che Nasa e il Politecnico della California, Caltech, dividono, distribuendo un comunicato stampa per avvertire che l'allunaggio era pura fiction e gli “astronauti” erano “allunati” nel deserto Mojave, in California, i patiti del complotto resistono.

Esiste addirittura un'ampia letteratura di chi pensa il contrario, che le sonde e gli uomini della Nasa abbiano scoperto segni stupefacenti di civiltà scomparse, strutture, piramidi corrose, addirittura città morte e manufatti che i dirigenti nascondono truccando le foto e fingendo guasti, perché noi umani non saremmo ancora pronti per confrontarci con la realtà di un universo abitato da altre creature. Una famosa frase del riservatissimo Neil Armstrong, che a settantotto anni di età continua a vivere nel silenzio, ha sempre alimentato il dubbio che la Nasa sappia assai più di quello che dice o fa vedere: “Ci sono là fuori cose meravigliose e sbalorditive, se soltanto sapessimo togliere i veli dalla verità”.

Ma il problema della Nasa non è quello di mentirci su scoperte ancora impronunciabili, che potrebbero, al contrario, servire a eccitare il popolo dei cittadini, dunque dei contribuenti. È semmai quello di convincere presidenti, parlamenti, pubblico, che la sua missione è ancora rilevante per il futuro dell'America e dell'umanità e che un'agenzia di stato come essa è può fare di più e di meglio di quanto i privati, che oggi vogliono partecipare all'esplorazione extra planetaria, saprebbero fare. La “presunzione di infallibilità” che l'aveva accompagnata negli anni Sessanta è finita con la doppia catastrofe delle navette Challenger e Columbia, divorate in diretta televisiva al decollo e al ritorno.

I piani per la colonizzazione della Luna nel 2020, e poi di Marte, richiedono investimenti di entusiasmo popolare e di tesoro pubblico che i preventivi – sempre sbagliati per difetto – neppure riescono a immaginare, e anche la stazione spaziale orbitante, la base permanente oltre l'atmosfera, è stata progressivamente ridimensionata nelle ambizioni e nella funzioni.

Potranno essere i cinesi, che hanno cominciato a graffiare lo spazio con i loro primi lanci, o gli indiani a riaccendere l'ansia e l'orgoglio nazionalistici di mezzo secolo fa? Sarà qualche rivelazione sconvolgente arrivata da Marte, dove ci vengono mostrati dettagli appetitosi ma non convincenti di possibile vita elementare? Per ora, nonostante i suoi successi occasionali con le sonde automatiche, con il sempre stupendo telescopio spaziale Hubble, e in vista della fine degli Shuttle per i quali non ci sono successori pronti, la Nasa sembra tornata alla fatica del piccolo quotidiano lavoro sperimentale.

In questi giorni, è impegnata in una campagna per la raccolta di pipì, chiedendo ai volontari secchi di urina per studiare come eliminarla nelle lunghe permanenze future sui pianeti, e non si chiede più se in cielo si veda Dio, come i primi cosmonauti e astronauti si sentivano domandare. Ma come maschi e femmine possano stabilire relazioni e far all'amore senza finire a botte di giroscopi in testa per gelosia e rivalità, confinati per mesi e anni dentro astronavi e basi sigillate. E se parlare di pipì e di sesso nello spazio può sembrare umiliante ancor più del “flopnik” del Vanguard, è in questa riduzione dello spazio a problemi quotidiani e umanissimi che sta la prova del successo della Nasa. Colei che ha saputo in cinquant'anni rendere possibile l'inimmaginabile e normale come un vasino da notte ciò che era fantascientifico.

(27 luglio 2008)

Fonte: http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/scienza_e_tecnologia/nasa/zucconi-27lug/zucconi-27lug.html?ref=hpspr2