“Se possiamo affondare una nave per la cui costruzione abbiamo investito milioni di dollari col solo scopo di aumentare l’esperienza di un artificiere, allora sicuramente possiamo permetterci di distruggere prodotti vecchi ed obsoleti con lo scopo di creare lavoro per milioni di persone e spingere la nazione fuori dalla catastrofe nella quale si trova attualmente”.
Così si esprimeva l’economista inglese Bernard London nel 1932, in un saggio intitolato “Ending the depression through the planned obsolescence”, in cui proponeva una legge per l’imposizione dell’obsolescenza programmata dei beni, subito dopo la crisi economica del 1929 causata dall’eccessivo squilibrio della produzione di beni rispetto al loro consumo. L’obsolescenza programmata è una politica industriale secondo la quale il ciclo di vita di un prodotto, ossia il periodo di effettivo funzionamento, debba coincidere pressapoco con il periodo di garanzia indicato dal produttore, generalmente due anni. Passato questo periodo, il prodotto è soggetto a facile danneggiamento e la riparazione viene resa deliberatamente difficoltosa, ad esempio per via di pezzi di ricambio impossibili da trovare, oppure troppo costosa rispetto all’acquisto di un nuovo prodotto. L’obsolescenza può essere programmata pure tramite l’introduzione di un bene nuovo sul mercato dopo un periodo di tempo prestabilito, e presentato tramite la pubblicità come un bene tanto alla moda e tanto rivoluzionario da instillare nel consumatore il bisogno di sostituire il proprio con uno nuovo, nonostante fosse magari ancora funzionante.
Una politica funzionale ad un mercato che ha bisogno di produrre in continuazione – e quindi consumare risorse – per soddisfare una domanda di novità in continua crescita, che si sposa alla perfezione con la dominante teoria economica neo-liberista, che professa una crescita economica infinita in un mercato infinito in un mondo dalle risorse, purtroppo, non infinite. L’esempio più attuale di questa poco lungimirante politica industriale è ovviamente quello degli odierni smartphone, ma il concetto ha radici ben più antiche. Se le lampadine ad incandescenza ancora oggi vengono garantite non oltre le 1000 ore di vita, è grazie ad un accordo del 1924 di un cartello di aziende produttrici, noto come Cartello Phoebus. Facevano parte di questo cartello aziende europee ed americane, le quali decisero che il limite di 1000 ore era una “ragionevole” prospettiva di vita per le lampadine, con il fine di consentirne una produzione continua. Le aziende che avrebbero prodotto lampadine di qualità superiore con l’obiettivo di garantire una durata maggiore, sarebbero state soggette a penali proporzionali al numero di lampadine prodotte e alla loro durata. Le lampadine dell’epoca raggiungevano senza problemi le 2500 ore, ed alcuni prototipi addirittura le 30000. Per fare un esempio, nella cittadina di Livermore, in California, una lampadina da 4 W installata nella locale caserma dei pompieri è accesa ininterrottamente da 112 anni, con giusto una breve pausa di 23 minuti nel 1976 a causa del trasloco del corpo cittadino dei pompieri in una nuova sede.
Da ricordare pure il caso delle industrie chimiche DuPont, che nel 1935 riuscirono a sintetizzare il nylon, utilizzato principalmente per la produzione di calze da donna. Nel momento in cui si resero conto che l’eccessiva durabilità del loro stesso prodotto era dannoso per gli affari, indebolirono deliberatamente la loro stessa formula. Per citare ancora un caso, molto più attuale, nel 2003 la Apple venne citata in giudizio con una class action di un gruppo di consumatori per aver messo in commercio un iPod la cui batteria durava deliberatamente circa 18 mesi e rifiutandosi poi di rendere disponibili in commercio nuove batterie sostitutive, invitando a comprare nuovi iPod. Questa politica industriale ovviamente ha forti ripercussioni economiche, sociali e ambientali: provoca un inutile spreco delle risorse programmato a tavolino, un surplus esponenziale dei rifiuti presenti in discarica, numerosi problemi riguardo la loro gestione e una domanda crescente di materie prime, spesso sempre più difficili da procurarsi, come il caso delle terre rare: minerali rarissimi, fondamentali per la produzione di prodotti tecnologici quali pc, smartphone e tablet. Secondo uno studio tedesco di inizio 2013, nella sola Germania, i consumatori tedeschi risparmierebbero complessivamente 100 miliardi di euro all’anno se non fossero costretti continuamente a comprare prodotti nuovi.
E che fine fanno questi oggetti, una volta che diventano obsoleti? Specie nel caso di spazzatura hi-tech, tossica e difficile da smaltire, viene parcheggiata in paesi poveri, specie dell’Africa, dove spesso vengono anche rivenduti come prodotti di seconda mano. Per sostenere poi la produzione continua di beni tecnologici, si pone un ulteriore problema: l’estrazione e l’approvvigionamento delle terre rare. Le terre rare sono 17 elementi i cui principali siti mondiali d’estrazione si trovano in Cina e in alcune zone dell’Africa, specie nel sud. Il paese asiatico produce attualmente circa il 95% della fornitura mondiale delle terre rare: per la fabbricazione dei veicoli ibridi, ad esempio, è necessaria una forte quantità di disprosio, la cui unica fonte nota è quella di Bayan Obo, in territorio cinese. Inoltre le miniere illegali di terre rare non sono infrequenti, specie nella Cina rurale, e sono spesso note per rilasciare sostanze tossiche nelle falde acquifere.
Per cercare di superare il monopolio cinese, ci si sta rivolgendo sempre di più verso l’Africa, che si stima potenzialmente ricchissima di giacimenti, su cui molte grandi multinazionali stanno già posando gli occhi. Si può citare il caso del Congo, il cui territorio è ricco di coltan, fondamentale per l’assemblaggio degli smartphone. Il problema, non di poco conto, è che nelle zone del Congo e del vicino Ruanda sono presenti bande criminali molto potenti che controllano militarmente il territorio, e di conseguenza i commerci, non facendosi scrupoli delle popolazioni locali per accaparrarsi queste risorse, consapevoli dell’importanza sempre maggiore che stanno acquisendo.
Considerando le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, sta crescendo nel mondo intero un forte movimento indirizzato al riciclo e il riutilizzo dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE). Esemplare è il caso di Taiwan, paese sede di molte aziende all’avanguardia nel campo della tecnologia (Asus e HTC sono aziende taiwanesi, solo per citarne un paio) che attualmente spende 276 milioni di dollari per esportare fuori dai propri confini la propria spazzatura tecnologica. Il paese asiatico ha programmato di essere in grado nei prossimi dieci anni di dotarsi delle strutture necessarie per il riciclo dei propri prodotti elettronici dismessi, per poter poi reinserire le risorse recuperate in un mercato potenzialmente enorme, col quale finanziare poi lo sviluppo delle tecnologie energetiche a basso impatto ambientale, con l’obiettivo finale del proprio affrancamento energetico. Anche l’Unione Europea non ha tardato ad intervenire nella questione e ne ha già regolamentato il ciclo di produzione e riutilizzo di questi prodotti sul territorio europeo: la direttiva al riguardo è la 2002/96/CE, obbligatoria in ogni paese dell’Unione dal luglio 2006.
Il 23 marzo scorso, il gruppo verde del parlamento francese (10 seggi su 343) ha presentato una proposta di legge per abolire l’obsolescenza programmata e favorire la riparabilità dei beni rendendo pubbliche le istruzioni per la riparazione e prevedendo fino a 37500 € di multa e due anni di reclusione. Il testo di legge si propone di definire in maniera più larga possibile l’obsolescenza programmata, incorporando al suo interno anche hardware e software. Il discorso potrebbe rientrare in una più generale legge sul consumo in previsione di approvazione dal parlamento francese entro l’estate. Di sicuro questo punto sull’obsolescenza programmata incontrerà forti ostacoli, e il fatto che la massima istituzione pubblica di un paese (e la Francia non è sicuramente un paese di poco conto) si esprima a favore è attualmente pura utopia, ma già il fatto di averci provato è sintomo di una crescita di consapevolezza del consumatore e che comunque, anche a livello governativo, si muove qualcosa.
In un mondo sempre più interconnesso e sempre più a rischio dal punto di vista ambientale e sociale, occorre dunque reinterpretare questi processi economici decisamente insostenibili: un minor consumo delle risorse unito ad una generale presa di coscienza individuale riguardo le questioni legate al riciclo, il riutilizzo e le riparazioni; il superamento dell’attuale sistema globale di produzione, indirizzato verso una nuova economia, sostenibile e responsabile, potrebbero regalarci un mondo magari meno ricco, ma sicuramente migliore.