La reincarnazione

La reincarnazioneSe l’idea della reincarnazione, fino a ieri apparteneva quasi esclusivamente al mondo della filosofia orientale, oggi sta allargando i suoi orizzonti, grazie anche alle ricerche e alle scoperte di eminenti studiosi occidentali nel campo della medicina e della psicologia.

Primi fra tutti, gli psichiatri Ian Stevenson e Brian Weiss, e poi, la giornalista e terapeuta Manuela Pompas e molti altri ancora. Ma prima di entrare nel vivo dell’argomento reincarnazione risulterà utile spendere qualche parola ancora sugli eventuali percorsi intermedi che l’anima effettua tra un’esistenza e l’altra.

Nell’articolo precedente avevamo concluso chiedendoci se, dando per scontato la sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo fisico, era lecito ipotizzare un’unica esistenza per l’individuo, oppure un’evoluzione spirituale che necessiti di più vite per il raggiungimento della perfezione.

Sembra abbastanza verosimile ipotizzare che nel momento in cui l’anima abbandona l’involucro fisico, continui a sopravvivere per un certo periodo, impossibile da stabilire con i comuni parametri umani, in una dimensione dove gli è possibile continuare a crescere e ad apprendere, elevandosi verso livelli di spirituaità sempre più alti. E lì dove la coscienza individuale non è ancora in grado di raggiungere una perfezione tale da permettergli l’interruzione del ciclo delle rinascite, si prepara per la prossima incarnazione.

Durante questa fase, l’anima tende a purificarsi e a sfrondarsi del forte e inevitabile legame che aveva instaurato con la realtà contingente della sua ultima esistenza, tuttavia, non perde il proprio bagaglio esperenziale accumulato nei secoli. Bagaglio che, nella seguente incarnazione, potrebbe emergere in più circostanze e con modalità diverse. Ciò risulta tanto più vero e facile per coloro la cui la morte è avvenuta precocemente e/o in modo violento.

Si può ipotizzare per costoro che, la fase intermedia, sia breve e l’anima tenda a reincarnarsi velocemente per poter completare il cammino bruscamente interrotto, senza avere il “tempo” di annullare adeguatamente la sua vecchia memoria storica. In questi casi, accade, che l’anima o la coscienza individuale, anche se ormai, appartenente ad un nuovo corpo, riporti a galla vissuti, disagi, comportamenti e tendenze della sua vita precedente. Questo si verifica soprattutto nei primi anni di vita, quando i condizionamenti della nuova realtà contestuale non sono ancora così forti da influire sulla personalità in formazione.

E’ dal mondo dell’infanzia che proviene il più ricco e credibile materiale sulla reincarnazione.

Uno dei primi studi ampli e documentati in tal senso, è stato quello dello psichiatra Ian Stevenson, professore presso l’Università della Virginia a Charlottsville. Il suo interesse per soggetti, soprattutto di tenera età, che ricordano altre vite, dura ormai da più di trent’anni ed ebbe inizio nel momento in cui, l’insorgere di determinate paure, fobie o atteggiamenti insoliti e attitudini, in alcuni bambini, tenuti in cura da lui, non trovavano la loro ragion d’essere nel breve percorso di vita che li riguardava, tanto meno nel contesto familiare di cui facevano parte.

Inoltre, Stevenson, si accorse che proprio questi fanciulli, spontaneamente, riuscivano a dare una spiegazione plausibile ai loro comportamenti, addebitandoli, senza remore, ad una epoca passata in cui erano stati qualcun altro e avevano subito traumi di notevole entità o vissuto esistenze particolari.

L’atteggiamento iniziale di forte scetticismo, di Ian Stevenson, di fronte a un’ipotesi reincarnazionista, cedette gradualmente il posto a una maggiore attenzione e apertura verso questa direzione. Il dottor Stevenson, nella sua lunga carriera ha studiato e documentato più di duemila casi di bambini che dichiaravano di aver vissuto precedentemente e ciascuno di loro veniva seguito per per moltissimi anni. Il medico, si rese conto che i bambini, spesso, tendevano a dare riferimenti precisi riguardo alla loro vita precedente e ad effettuare riconoscimenti di genitori, parenti e qualche volta congiunti abbandonati precocemente a causa della disgrazia che aveva provocato la loro morte.

Il caso Gopal Gupta1 è abbastanza significativo. Gopal, nacque in India nel 1956 in una modesta famiglia borghese e appena cominciò ad avere l’uso della parola si ribellò a un ordine del padre, dichiarando di essere un Sharma, un membro cioè della casta dei Bramini e quindi in quanto tale, abituato egli stesso a comandare e ad avere sotto di sé numerosa servitù.

Da quel momento in poi, Gopal cominciò a raccontare una serie di dettagli riguardanti la sua vita precedente in qualità di Bramino. Riferì di essere nato a Mathura, una città a 160 chilometri da Delhi, di essere stato dirigente di una compagnia farmaceutica la Suck Shancharak e di aver abitato in una grande casa con una moglie e due figli. Ma il particolare più raccapricciante riguardava la sua morte. Disse di essere stato ucciso dal fratello per una questione d’interessi.

Le dichiarazioni del bambino non suscitarono particolare interesse nei genitori, fino a quando il padre, nel 1964, non si trovò casualmente a passare proprio dalla città di Mathura e vi trovò la compagnia farmaceutica di cui aveva parlato il figlio. Incuriosito, andò a parlare con il direttore della Suck Shancharak e scoprì che realmente, alcuni anni prima, uno dei proprietari della compagnia aveva sparato al fratello, di nome Shaktipal Sharma.

In seguito, i coniugi Gupta, insieme al figlio si recarono a far visita alla famiglia Sharma e in questa occasione Gopal riconobbe oltre i luoghi anche numerosi membri della famiglia e rivelò particolari sconcertanti riguardanti sia gli interessi economici che ruotavano intorno alla Suck Shancharak che quelli relativi alla propria morte che potevano essere conosciuti solo dal vero Shaktipal Sharma ucciso.

Stevenson seguì attentamente il caso Gopal dal 1969 al 1974, anno in cui l’ormai adolescente Gopal iniziò a perdere il suo “snobismo” e si adeguò gradualmente al contesto familiare di appartenenza, sicuramente più modesto. Altri elementi rilevati in molti dei casi studiati dal dottor Stevenson, e che farebbero propendere per un’ipotesi reincarnazionista, sono i cosiddetti “segni di nascita”.

Con questo termine s’intende riferirsi a macchie e segni presenti su di un corpo e molto simili a cicatrici ma che in realtà non corrisponderebbero a ferite realmente ricevute. In genere, invece, fanno da riscontro a rievocazioni di esistenze passate, nelle quali il soggetto dichiara di essere deceduto in modo violento a causa di qualche corpo infertogli. In tal senso, un caso tipico analizzato da Stevenson è quello di Gillian e Gennifer Pollock(2), due gemelle nate nel 1958 e che all’età di due anni cominciarono a fare numerose affermazioni riguardo a una loro vita precedente, vissuta sempre all’interno di quella famiglia e ancora una volta in qualità di sorelle.

In realtà, i coniugi Pollock, un anno prima della nascita delle due gemelle, avevano perso due figlie, Joanna e Jacqueline, rispettivamente di undici e sei anni. Le due sorelline erano state investite contemporaneamente da un pirata della strada. Fatto che rese credibile le dichiarazioni delle due bambine fu la constatazione sul corpo di Jennifer di due segni, corrispondenti, sia per forma che per posizione, a cicatrici reali possedute da una delle due sorelle morta in precedenza. Inoltre, sia Gillian che Jennifer mostravano di conoscere particolari della vita e delle abitudini delle due sorelle decedute che non avrebbero potuto apprendere in alcun modo nella loro vita attuale.

Anche di questo caso il professor Stevenson si occupò per più di vent’anni, abbandonandolo poi, quando ormai le due ragazze mostrarono di aver dimenticato completamente le reminiscenze legate alla loro vita precedente. Riguardo ai “segni di nascita”, lo psichiatra della Virginia così si è espresso:

“Ritengo personalmente che i segni e i difetti di nascita collegati alla precedente personalità costituiscano una delle più evidenti prove a sostegno della reincarnazione quale migliore interpretazione di questi casi.(…) I segni e i difetti di nascita presenti in questi casi suggeriscono inoltre l’esistenza di un’influenza psichica che agisce sullo sviluppo del corpo fisico dell’individuo.”

Naturalmente, non tutti i bambini, presentano segni sul corpo o hanno reminiscenze di vite precedenti, ma sicuramente sono molto più numerosi di quanto generalmente si immagini. Molti di essi, pur non ricordando un’esistenza antecedente, manifestano talenti e abilità precoci e attraverso il gioco rievocano episodi e simulano ruoli che non sempre trovano giustificazione nel loro ristretto campo esperenziale.

Bisognerebbe solo essere più attenti nei loro confronti e imparare ad ascoltarli. Tutte le esperienze passate, dunque, continuano a coesistere nella nostra memoria inconscia e a incidere inconsapevolmente su ciò che siamo e che diverremo. E vi è un altro percorso, oltre quello delle reminiscenze spontanee, che permette di accedere a questo infinito archivio e di riportare a galla frammenti e a volte episodi interi di vite precedenti.

Stiamo parlando della cosiddetta “ipnosi regressiva” o, più genericamente, del “viaggio a ritroso nel tempo” grazie a tutte quelle tecniche come la meditazione, il rilassamento progressivo e quant’altro che permettono di aprire canali nuovi nella coscienza dell’individuo.

La prima psichiatra ad interessarsi di regressione ad altre vite fu Blanche Baker che iniziò a curare molti suoi pazienti con un’ipnosi regressiva leggera abbinata alle libere associazioni. La Baker, durante le sue sedute, si rese conto che anche quando non induceva il paziente a regredire verso esistenze precedenti, accadeva comunque che emergessero nei loro ricordi scene ed episodi di epoche passate.

Anche l’analista Edith Fiore, in un’epoca leggermente più recente, pubblicò un’opera con il resoconto dei suoi due anni di lavoro con pazienti che ricordavano tranquillamente altre vite. Rilevante fu in tal senso la ricerca della psicologa Helen Wambach che, accanita sostenitrice della reincarnazione, raccolse fra gli abitanti della baia di San Francisco centinaia di volontari per esperimenti sulla reincarnazione e tutti con esito straordinariamente positivo.

Ma se per questi eminenti studiosi si potrebbe anche obiettare che le ricerche da essi condotte possano essere state in qualche modo dirottate dalla loro fervente credenza nella reincarnazione, il discorso cambia per coloro che non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di una vita che continua secoli dopo secoli. Improvvisamente tali studiosi si sono trovati davanti a qualcosa che ha dovuto rimettere in discussione la loro formazione professionale nonché la loro intera esistenza.

E’ il caso di Brian Weiss, direttore per molti anni della Facoltà di Psichiatria del Mount Sinai Medical Center di Miami e poi primario in un grande ospedale collegato con la stessa università. Il dottor Weiss, divenuto ormai famoso per i suoi libri e i suoi studi sulla reincarnazione, all’epoca in cui s’imbatté per la prima volta in un caso che gli avrebbe aperto nuove strade di riflessione, possedeva una solida e severa formazione scientifica.

Poi una sera ricevette nel suo studio la visita di una paziente, affetta da numerose fobie. Catherine, temeva in modo sproporzionato l’acqua e di morire soffocata; aveva paura, inoltre, degli aeroplani, del buio e di restare chiusa in ambienti angusti. E i suoi disturbi si stavano accentuando con il passare del tempo, tanto da limitarle considerevolmente l’esistenza.

I tentativi di cura del dottor Weiss si focalizzarono per circa diciotto mesi sulle terapie classiche senza, però, ottenere con queste significativi miglioramenti. Con l’ipnosi vennero fuori parecchi episodi traumatici riguardanti l’infanzia della giovane donna che potevano lasciar pensare che si fosse finalmente giunti al fulcro del problema, ma la paziente non migliorava. Fino a quando, una sera, lo psichiatra non dette alcuna induzione a Catherine e la lasciò andare liberamente all’epoca in cui presumibilmente erano iniziati i suoi problemi.

A questo punto, improvvisamente, Catherine, si ritrovò proiettata in un’altra epoca e in un altro contesto. Cominciò a rievocare fatti relativi ad una sua antica esistenza trascorsa sotto le spoglie di “Aronda”, una giovane egizia vissuta nel 1863 a. C., in un villaggio che fu poi devastato da un’inondazione quando lei aveva appena venticinque anni. Così Catherine rievocò con voce ansimante uno degli episodi più traumatici di tutte le sue esistenze, durante il quale perse la vita insieme alla propria figlia Cleastra:
“Vi sono grandi onde che abbattono gli alberi. Non vi è via di scampo.

Fa freddo; l’acqua è fredda. Devo salvare la mia bambina, ma non posso…posso solo tenerla stretta. Annego; l’acqua mi soffoca. Non posso respirare, non posso inghiottire…acqua salata. La bambina mi è strappata dalle braccia.

Solo una settimana dopo Catherine non temeva più di morire annegata e da quel momento il dottor Weiss, suo malgrado, cominciò ad interessarsi di reincarnazione e a leggere tutto quanto poteva essere stato pubblicato di serio sull’argomento. Le rivelazioni di Catherine, e di mille altri soggetti come lei che sotto ipnosi o spontaneamente rivelavano origini impensabili per i loro mali, imponevano nuove considerazioni sulla natura delle fobie e di tutte quelle paure immotivate che a volte accompagnano un individuo per tutto il corso della sua esistenza senza trovare una giusta causa.

Del resto, ogni fobia è la risultanza di un evento traumatico e quale evento può risultare più traumatico delle circostanze che hanno accompagnato la propria morte, soprattutto se violenta? Così come rileva anche Manuela Pompas:

“…la morte in sé non è traumatica: nel momento in cui la persona chiude gli occhi a questa vita, li riapre immediatamente nell’altra… Tuttavia, se negli attimi che precedono la morte si prova una forte paura, questa si fissa nel corpo emozionale, il quale nel momento della reincarnazione, proprio come avviene nel computer, trasmette l’informazione all’inconscio, dove però rimane celata e non può emergere se non con il comando giusto”.

Ed è proprio quanto è accaduto a Catherine, che annegando nella sua vita precedente ha conservato poi nell’attuale la paura inconsapevole di rivivere la stessa esperienza, anche solo entrando a contatto con l’acqua.

Ma dalla regressione di Catherine emerse anche un altro dato che sconvolse lo psichiatra che l’aveva in cura. Catherine, nominando Cleastra, la figlia che aveva avuto nel 1863 a.C., aggiunse qualcos’altro che la riguardava. Riconobbe nella bambina di allora, Rachel, la sua nipote attuale. Per il dottor Weiss questo fu un fatto del tutto nuovo che lo obbligò a informarsi e a interessarsi ulteriormente di quanto poteva verificarsi nel corso delle reincarnazioni.

Ma molti, prima di lui, si erano ugualmente imbattuti in questa sconcertante verità. Chi abbiamo conosciuto, amato, odiato o peggio ancora ucciso possiamo rincontrare nelle nostre vite successive.

Catherine, del resto, durante la regressione, non riconobbe soltanto in sua nipote una figlia avuta in passato. Sotto ipnosi, rievocò altre esistenze come ad esempio quella di Jhoan, un ragazzo di 21 anni, biondo e ricoperto di vesti fatte con pelli di animali, vissuto all’incirca nel 1473 nei Paesi Bassi. Jhoan mentre avanzava nel cuore della notte con un coltello in mano venne a un tratto aggredito alle spalle e sgozzato.

Anche in questo caso Catherine ebbe modo di rielaborare ed eliminare gli ultimi prodromi dei suoi sintomi legati al soffocamento. Ma l’aspetto più interessante fu che, prima di morire, Jhoan riuscì a guardare in faccia il suo assassino. Catherine, riconobbe in quell’uomo il suo attuale compagno di vita, Stuart. La paziente del dottor Weiss, dunque, si era ritrovata ad amare chi in passato le aveva tolto la vita.

E in realtà, i rapporti di Catherine con Stuart, secondo quanto riporta lo psichiatra nel suo libro “Molte vite molti maestri”, non erano dei migliori. Una sorta di ostilità, come diremmo noi, a livello di pelle, continua dunque a persistere vita dopo vita, nelle relazioni che si ripropongono. Ciò darebbe un senso a certe antipatie istintive che proviamo un po’ tutti verso individui che conosciamo poco o affatto; nonché a quei rapporti difficili che ci ritroviamo a vivere con parenti, amici, colleghi.

Spesso non riusciamo a spiegarci come mai una persona, pur possedendo un aspetto gradevole e mostrandosi gentile nei nostri confronti, ci ispira comunque sentimenti di ripulsa. Si tratta,dunque, di anime che potrebbero aver condiviso con noi, in un epoca remota, legami altrettanto conflittuali e con le quali non siamo riusciti ancora a raggiungere un equilibrio emozionale. Ma come abbiamo già avuto modo di constatare, le relazioni non si ripropongono giocando il medesimo ruolo. Catherine, mantiene un legame molto forte con Rachel che oggi è sua nipote ma ieri era sua figlia. E i ruoli spesso s’invertono in modo ancora più sorprendente. Nella sua vita attuale, Catherine ha un rapporto disturbato con Stuart che secoli addietro era stato il suo assassino.

Le scoperte, dunque, che possiamo fare in regressione, sono infinite. Ma il dato sicuramente più interessante e significativo è che nel “viaggio a ritroso nel tempo”, riusciamo ad acquisire una conoscenza di noi stessi immediata e profonda come non è possibile ottenere con le altre terapie ufficialmente note. Indipendentemente dal credere o non credere nella reincarnazione, resta innegabile il forte valore catartico delle immagini evocate.

E non soltanto per quanto riguarda le fobie e altri disturbi psicosomatici o della personalità. La terapia della reincarnazione proprio in quanto permette una conoscenza globale del sé, induce inevitabilmente ad una crescita spirituale e personale, tanto rapida da lasciare sbalorditi.

Ma al di là dei benefici che il rievocare le nostre vite precedenti può apportare alla nostra anima, può venire naturale chiedersi ora: che senso dare alla reincarnazione? Perché tornare secoli dopo secoli a farsi nuovamente carne, per ricommettere errori, rincontrare amori perduti e nemici rifuggiti, riallacciare relazioni interrotte e rivestire alternativamente panni da uomo e da donna, da bianco e da nero, da povero e da ricco, da soldato e da prostituta?

L’Institute of Noetic Sciences ha raccolto tutti i casi scientificamente documentati di guarigioni cosiddette miracolose. Benché l’opinione comune sia che tali casi siano rari, dare una scorsa alla letteratura medica in proposito è istruttivo. Un caso su otto di tumore alla pelle guarisce spontaneamente, così come un caso su cinque di tumore genitourinario.

Virtualmente tutti i tipi di malattia – inclusi il diabete, il morbo di Addison e l’arteriosclerosi, nei quali si suppone che restino irrimediabilmente danneggiati organi o parti vitali del corpo – sono guariti in modo spontaneo. Una piccola branca della ricerca riguarda i malati terminali di cancro, che con pochissimo o nessun intervento medico hanno sconfitto la malattia contro ogni previsione.

Benché tali casi siano etichettati come “remissioni spontanee” – come se improvvisamente la malattia avesse deciso di nascondersi, ma conservando la possibilità di presentarsi a ogni momento – in molti casi essi rappresentano un altro esempio della capacità del corpo di auto-correggersi, grazie al potere dell’intenzione. Tutti proviamo meraviglia di fronte ai casi di remissioni spontanee (SR), perché anche i più illuminati tra noi sottoscrivono il paradigma del corpo-come-macchina. Secondo questo modello, ciò che è rotto resta tale fin quando un bravo meccanico non arrivi con la giusta chiave inglese o il pezzo di ricambio.

Il numero di SR, da solo, dimostra quanto l’autoriparazione e il rinnovamento siano naturali per il corpo umano. Casi su casi di remissioni spontanee riguardano persone che si sono trovate dinanzi a un blocco nella loro vita: stress continuo, traumi irrisolti, conflittualità prolungata, isolamento marcato, profonda insoddisfazione o muta disperazione (Am J Psychother, 1058; 12: 723). Spesso si tratta di persone che non sono più protagoniste della propria vita. Molti casi di remissione spontanea sembrano verificarsi dopo un radicale mutamento psicologico che ripristina una vita piacevole e dotata di significato.

Nella maggior parte dei casi, il paziente si libera della fonte di angoscia psicologica e si assume piena responsabilità della malattia e della cura. Ciò lascia pensare che alcune persone si ammalino perché perdono ogni speranza nella vita, ovvero perché hanno pensieri che non promuovono la salute.

Esse scoprono il significato perduto della vita. Suonano il pianoforte o fanno trekking in Tibet. Trovano un cammino che li riporta alla loro joie de vivre. Il fatto che la malattia sia curabile tramite un semplice cambiamento nel modello di pensiero ha implicazioni ancora più profonde: i pensieri casuali che tutti i giorni attraversano la nostra mente diventano, nell’insieme, l’intenzione della nostra vita.

Se cambiare il nostro “nastro” interiore ci rende capaci di tenere sotto controllo malattie mortali, è probabile che il copione della nostra vita su noi stessi diventi la nostra realtà in molti altri modi, meno significativi.

Ma che dire del copione che scriviamo per i nostri cari? Quando pensiamo che nostro marito sia poco affettuoso o i bambini poco bravi in matematica, stiamo inconsciamente scrivendo il copione per loro? I nostri pensieri hanno lo stesso effetto sugli altri e su noi?

Lo psicologo William Braud è uno dei pochi scienziati ad aver affrontato questa domanda. Egli ha raccolto un gruppo di volontari e ha chiesto loro di fare biofeedback su se stessi. Dopo aver diviso per coppie il gruppo, ha collegato un membro di ciascuna coppia alla macchina per il biofeedback, ma ha chiesto all’altro partner di rispondere alle letture ed eseguire l’invio di istruzioni mentali. Secondo i dati di Braud, i risultati erano equivalenti a quelli ottenuti quando il paziente collegato alla macchina faceva il biofeedback su se stesso. In altre parole, l’effetto “mente-sopra-materia” dei pensieri dava gli stessi risultati fisici, che si trattasse del corpo del pensatore o di quello di qualcun altro.

Ciò suggerisce che le intenzioni di un’altra persona su di te, e anche i suoi pensieri quotidiani su di te, le tue abitudini e le tue capacità, possono tradursi in una profezia auto-realizzantesi, rivelandosi tanto potenti quanto il tuo “copione” su te stesso. Anche il nostro pensiero casuale sugli altri, così come il “copione” che abbiamo scritto su di loro, può diventare un’intenzione, e quindi va gestito con cautela.

La prova più interessante del “pensiero-come-malattia” viene dal lavoro di un team composto da moglie e marito, la psichiatra Jan Kiecolt-Glaser e il professore di virologia all’Ohio State University Ronald Glaser. Recentemente, essi hanno condotto un esperimento su 42 coppie sposate, di età compresa tra i 22 e i 77 anni. Tramite un dispositivo di suzione, hanno creato otto piccole vesciche sulle braccia dei vari coniugi, monitorando poi la guarigione di tali ferite nelle successive 24 ore.

All’inizio, alle coppie veniva chiesto di parlare di ciò che avrebbero voluto cambiare nella propria relazione matrimoniale, sotto l’assistenza di uno psicologo che faceva sì che l’incontro fosse positivo e costruttivo. Alla seconda visita in studio, alle coppie veniva chiesto di rivivere, in un certo senso, un litigio che aveva provocato forti emozioni, ma senza l’assistenza di un professionista. Studiando i risultati, i Glaser scoprirono che le ferite nella seconda visita impiegavano un giorno intero per guarire. Nelle coppie litigiose e conflittuali, la guarigione impiegava il 40 percento di tempo in più.

La produzione di citochina – l’elemento chiave nel sistema immunitario per provocare la guarigione – intorno alla ferita era molto inferiore quando i partecipanti litigavano con il coniuge che quando erano sostenuti da un professionista. Inoltre, l’ostilità cronica metteva in circolazione molte più citochine proinfiammatorie, che potevano condurre a patologie degenerative come malattie del cuore, diabete, artrite e cancro (Arch Gen Psychiatry, 2005; 62: 1337-84).

I Glaser offrono solide prove biologiche – se ancora ne abbiamo bisogno – del fatto che una persona circondata da un conflitto psicologico non è sana come una persona circondata da relazioni amorevoli e di sostegno. Ciò che i casi di SR suggeriscono, è che i pensieri nostri e di coloro che ci circondano la maggior parte del tempo ci guariscono o ci uccidono.

Recentemente, ho letto di studi che dimostrano quanto profondamente e rapidamente il cervello altera le sue funzioni e persino la sua struttura fisica in seguito a certe forme di pensiero: mi riferisco nello specifico, alla meditazione (Psychosom Med, 2003; 65: 564-70; NeuroReport, 2000; 11:1581-5). In poche settimane, le persone che pensano determinati pensieri alterano aree precise del cervello.

Ciò che questa ricerca lascia supporre è che il nostro organismo sia una sorta di Play-Doh [pasta da modellare, NdT] che viene plasmata dai nostri pensieri consci. La consapevolezza forma il nostro io fisico, e non il contrario. Se nel corso di tutta la vita il cervello può essere fisicamente trasformato semplicemente grazie a pensieri migliori, altrettanto vale per il resto del corpo.

La remissione spontanea può originare solo dalla plasticità dinamica ed energetica del corpo in quanto servitore della consapevolezza. Il migliore proposito salutare da ora in poi è incredibilmente semplice: risolversi ad avere pensieri felici.

Molto è stato scritto riguardo la cosiddetta “personalità del cancro”: in realtà, forse il punto sarebbe arrivare al cuore del cancro nella tua anima.

Elisa Albano