UN LIBRO DI ARIEL LEVI DI GUALDO RECENSIONE- «Erbe amare»

Il Giornale Online
Gli scienziati (chiamiamoli così) che hanno proclamato la superiore intelligenza genetica degli ebrei devono aver trascurato qualcosa.

Per esempio le norme vigenti in Israele sui rapporti fra marito e moglie quando lei è mestruata.

«Il marito non deve scherzare con la moglie durante il ciclo mestruale […] Non deve toccarla nemmeno con la punta di un dito mignolo né consegnarle alcuna cosa in mano […] La cosa è proibita anche se si tratti di un oggetto lungo e così pure è proibito gettare un oggetto l'uno dalla mano dell'altro […] La donna non accenda la sigaretta al marito né con un fiammifero né con un lume che abbia in mano […] E' proibito sedere insieme su una panca lunga che dondola e che non è attaccata al muro, se vi è seduta la moglie in stato d'impurità […]».

Non si tratta di un qualche rescritto rabbinico elaborato in qualche ghetto galiziano del 16° secolo.
Si tratta dell'edizione 2002 del «Gran Compendio all'Alakha», a cura di Chaim David ha-Levi, rabbino capo del tribunale rabbinico di Tel Aviv.

Roba dei giorni nostri.

Così, l'ultimo rogo di libri proibiti non avvenne in Germania negli anni '30, sotto il segno della svastica.

E' avvenuto il 23 marzo del 1980 a Gerusalemme, quando centinaia di esemplari del Vangelo furono bruciati pubblicamente a cura del Lekahim, istituzione finanziata dal ministero della Religione dello Stato israeliano.

Queste, e molte altre prove della presunta superiore intelligenza ebraica si trovano nel saggio «Erbe amare» di Ariel Levi di Gualdo.
Né mancano informazioni sul razzismo ebraico, esercitato molto anche all'interno: i poveri falascià, portati dall'Etiopia in Israele con notevole grancassa pubblicitaria, hanno poi saputo che il sangue che donavano per le trasfusioni veniva rifiutato dai loro nuovi compatrioti, che non volevano «sangue di negro», sicuramente non-kasher per i loro rabbi.

I falascia furono costretti a compiere umilianti atti rituali di conversione: la vera ragione, spiega Levi di Gualdo, è che essi «come Legge rivelata riconoscevano solo la Torah», e «negavano che la Legge Orale, il Talmud, fosse stata rivelata anch'essa da Dio a Mosè sul Sinai».

Ma la vera novità delle informazioni di Levi Gualdo è un'altra.

E' il tono, apparentemente lieve e canzonatorio, con cui Levi di Gualdo documenta l'arretramento retrogrado che la «rinascita religiosa» rabbinica impone alla società israeliana, e alla diaspora intera.

Lo fa come uno che quell'ambiente lo ha frequentato, lo conosce da dentro, e ne ha visto le ipocrisie, gli abusi e le facilonerie con cui il Talmud viene usato – e cambiato quando serve – per opportunità che sono opportunismi e affarismi.

Racconta del grande affare del «marchio kasher», con cui rabbini di grido attestano, a beneficio di ristoranti e imprese alimentari, la «purità» del cibo offerto.

«Sul marchio kasher i rabbini incassano una tangente che varia secondo la fama del rabbino. Spesso rabbini famosi creano delle aziende di vendita del marchio, come Giorgio Armani che concede l'uso della sua griffa a un produttore d'occhiali».

Ci sono rabbini-Dior, che da questo affare cavano tanto da «costruire due piscine per i loro quindici figli, una per i maschi e una per le femmine», sempre per la impurità delle mestruate.

Data la posta danarosa in gioco, «vi sono rabbini che vietano ai loro fedeli il consumo di cibi diversi da quelli da loro controllati», e con marchio di altri rabbini «inferiori».

Tutto in nome del sacro Talmud.

Le Torah invece, ossia la Bibbia, viene modificata senza scrupoli.

Levitico e Deuteronomio vietano di prestare denaro ad interesse ad un altro ebreo.

Il che pose un problema nello Stato d'Israele.

Le banche si rivolsero ai rabbini, «E i rabbini di fronte al denaro si diedero cura di correggere Dio che aveva imposto al popolo eletto questo precetto, creando in seguito enormi problemi al sogno sionista», canzona Levi di Gualdo: «I Dottori della Legge tirarono fuori dal gran cilindro talmudico una dispensa per rapporti d'affari».

I pii ebrei che obbediscono al Gran Compendio sullodato e non toccano la moglie nemmeno con «un oggetto lungo» durante il ciclo, poi trovano kasher andare con le prostitute ucraine importate dai mafiosi ebreo-russi: a Tel Aviv Levi di Gualdo descrive una casa d'appuntamenti così frequentata da barbuti in lobbia nera e filatteri sotto la giacca lunga, che i passanti credevano fosse la sede di una yeshivah, pia scuola talmudica.

Maimonide ammette l'aborto solo in caso di grave pericolo per la madre.

Ma «moderni rabbini istigano all'aborto ragazze rimaste incinte da un non-ebreo», quindi mutano il rescritto del più grande talmudista di tutti i tempi, e per motivi razziali.

«Inutile dire cosa si scatenerebbe», commenta l'autore, «se dei sacerdoti tentassero di convincere ad abortire una ragazza cattolica rimasta incinta da un ebreo…».

Ipotesi del tutto irreale, ma il paradosso serve a Levi a sbugiardare quegli «ebrei da salotto» che vanno in TV a dichiarare che, al contrario delle «imposizioni della Chiesa oscurantista» in materia di aborto e di omosessualità, nell'ebraismo «tutto è rimesso alla libera scelta del singolo». Assolutamente falso, è vero il contrario.

Il Talmud grava «su ogni singolo minuto della vita dell'ebreo ortodosso» coi suoi asfissianti divieti.

Gli ebrei da salotto o da talk show sono una specie nuova, che Levi di Gualdo è il primo a portare a conoscenza del pubblico.
Già: perchè da qualche anno l'ebraismo «fa tendenza», è di moda, «ha mercato», e così «s'è creata una casta di ebrei professionisti contesi da università, editoria e televisioni».

C'è il tizio che ha spiegato i 63 tomi del Talmud «a grosse linee», anche se non conosce una parola di ebraico.
Ci sono i «baronati dell'ebraismo politicamente corretto, in linea filo-sionista di rigore: scrittore il marito, scrittore la moglie, scrittore lo zio».

C'è persino la Liala dell'ebraismo, autrice di «L'Ebraismo spiegato ai miei figli», che ha fatto esclamare a un rabbino: «Il fatto che i bimbi di questa mamma non siano diventati shintoisti è un miracolo più grande che la divisione delle acque del Mar rosso».

Sì, perché questi ebrei professionisti sono ignoranti come scarpe della materia su cui sono chiamati a pontificare da platee adoranti di goym, talora cardinalizi.

Di solito esordiscono: «… Premetto che sono un ebreo laico», e in genere ciò vuol dire che confondono «il Pentateuco con il nome di una discoteca dell'arcipelago greco».

Nel libro c'è tutta una serie di vispi ritrattini o macchiette di questi ebrei alla moda, in genere della comunità romana, che Levi di Gualdo conosce benissimo: la comunità diasporica più antica, sefardita, con sue tradizioni autonome, i cui rappresentanti mediatici oggi si mascherano, per zelo e per moda, da askhenaziti e yiddish, come fossero appena atterrati da un ghetto polacco di due secoli fa.

C'è l'ebreo romano che, al solito ricevimento, sta per addentare una tartina al prosciutto e formaggio (doppia violazione talmudica) e al goy rispettoso che chiede: ma a voi ebrei il maiale non è proibito?, risponde sicuro: «No, quelli sono i musulmani» – scenetta degna di Alberto Sordi.

C'è «il potente capitano d'industria che non ha difficoltà a giocare al genio del giornalismo sul giornale di proprietà della sua azienda e a pubblicare libelli sull'ebraismo politicamente corretto» presso «le più grosse case editrici».

C'è il figlio del suddetto, che «dopo il Bar Mitzvah s'è sposato in una deliziosa chiesa di rito cattolico, immortalato da tutti i tabloid con la fortunata top model».

C'è «il nuovo sefardita mascherato da cabarettista askhenazita» che conteggia gli incassi che ha prodotto come banditore della «cultura yiddish».

Figurine in cui non sarà difficile riconoscere Alain Elkann e il suo ineffabile Lapo, Moni Ovadia o altri «veri ebrei», improvvisati cabbalisti e talmudisti farsi invitare da Vespa o da Mentana.

Ma il tono svagato e divertito, apparentemente fatuo, non deve ingannare.

Il libro è cosparso di definizioni fulminanti, che colgono al cuore il problema della «patologia» ebraica.

Esempio: «Gli ebrei sono un popolo fornito in modo secondario anche di una propria religione».

Precisamente: la religione è uno strumento secondario, quello primario è l'identità, basata sui divieti alimentari che impediscono la cordiale convivialità con gli altri uomini.

E' «un ateismo religioso teso a celebrare il culto narcisistico dell'intelletto eletto: il mondo ebraico brulica di rabbini che non credono all'esistenza di Dio, se però gli torna conto ne usano l'immagine per avanzare pretese politiche» contro i palestinesi.
«Gli ebrei non fanno proseliti perché non hanno da offrire alcuna redenzione».

«L'amore [dei goym] è ciò che l'ebreo patologico non vuole, perché altrimenti morirebbe come vittima politica per rinascere come uomo libero creato ad immagine e somiglianza di Dio: non sia mai!».

Insomma Levi di Gualdo è uno che conosce la realtà dietro la maschera, che ha studiato il Talmud e legge l'ebraico, e che scherzando sferza.

Faranno bene a leggerlo i giudizzanti cattolici, specie i cardinali genuflessi a venerare i fratelli maggiori, o quelli che ballano attorno alla Torah con i Lubavitcher, credendoli ebrei purissimi e arcaicissimi.

Invece i Lubavitcher, spiega l'autore, sono «la più appariscente deviazione della modernità. Una ricca setta pseudo-ebraica, inquadrata su forti modelli razzistici», la cui dottrina fonde «forme di ebraismo para-mistico e strabilianti credenze politeiste» insieme a «vecchi usi della plebe cristiano-ortodossa dell'Est europeo».

Insomma una classica americanata da telepredicatori, sincretista e influenzata dal protestantesimo USA «più zotico».

I cui membri, quando morì il loro super-rabbino («fuehrer») Schneerson, «attesero tre giorni per seppellirlo, violando le più basilari prescrizioni della Legge», perché da «qualche parte avevano letto … et resurrexit tertia diae».
Si presentano con il cipiglio di askhenaziti appena usciti dalle isbe polacche.

«Ma molti di loro sono venuti al mondo in Australia da genitori australiani» e si sono messi «a studiare da polacchi nel quartiere di Brooklyn»: un «balzo all'indietro della loro psiche verso le sperdute radici ebraiche europee» che compendia la volontaria tendenza retrograda dell'ebraismo contemporaneo, che il sionismo ha aggravato invece di liberare.

Tanto che a suo tempo, «l'Associazione degli Psichiatri Ebrei d'Australia commentò: lo spettacolo dei canguri crea effetti devastanti sugli ebrei affetti da sintomatologie askhenazite».

Qui, non so se Ariel scherzi o dica sul serio: è un tipo divertente e divertito, come il suo libro serissimo.

Gli rimprovero solo una ingenuità di fondo: oggi, Levi di Gualdo aspetta che i membri più noti della comunità romana lo prendano di petto, levino strida e anatemi contro il suo libro, e lo trascinino in un talk-show a giustificarsi.

Aspetterà a lungo: il silenzio è stato ordinato su «Erbe Amare». (1)

Comprensibile prudenza, del resto: si potrebbe scoprire che Riccardo Pacifici, Leo Paserman o persino il rabbino Di Segni – i più vocali e maneschi sorveglianti della comunità, quelli che tengono lezioni al Papa sull'«antisemitismo» dei Vangeli e della Messa in latino, e sono invitati regolarmente ai «dialoghi ecumenici» – di ebraismo, di Talmud e di caratteri aramaici ne sappiano quanto tutti gli altri «nuovi ebrei professionisti», felici addentatori di panini al prosciutto e formaggio.
Quando, s'intende, non c'è nei paraggi un rabbino o un confratello.

Maurizio Blondet

Note
1) Nota dell'editore

Questa recensione di «Erbe Amare» è quasi certamente l'unica che leggerete mai: sappiamo per certo che recensori dal nome prestigioso, che s'erano offerti di parlare del libro su prestigiosi giornali, sono stati respinti.

Sappiamo anche che prestigiosi giornalisti, a cui il libro era stato spedito per posta, non l'hanno ricevuto.

Se questo libro venderà, sarà in buona parte grazie alla segnalazione sul nostro sito.

Proprio per questo ci pare strano il comportamento dell'editore Bonanno.

I fatti: riceviamo giorni fa una cortese lettera di Levi di Gualdo che ci chiede di inserire il suo libro in EFFEDIEFFESHOP.com.
Al cortese invito abbiamo risposto a Levi di aver parlato con il suo editore per telefono, chiedendogli, vista la visibilità che ottiene un testo dopo una segnalazione/suggerimento di Blondet, un certo numero di copie omaggio.

Ciò avviene spesso tra editori (per EFFEDIEFFE è la prima volta in assoluto): ad esempio Arianna editrice, dietro nostra richiesta, ci ha donato 20 copie del testo di Tarpley; finite in un giorno, ora le stiamo comprando contrassegno con lo sconto d'uso per le librerie.

Nuova mail di Levi che scrive, tra l'altro, «Per come conosco Mauro Bonanno non penso abbia particolari problemi […] Credo che avendo fatto trenta non abbia difficoltà a fare trentuno».

Evidentemente l'autore non conosce bene Mauro Bonanno, che non ha fatto «trentuno» e nemmeno uno (nemmeno una copia).
Come vedete però l'articolo/recensione è stato pubblicato ugualmente: è più importante la buona battaglia rispetto a calcoli spilorci.

(Fabio de Fina)

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fonte:re.ilcannocchiale.it