La forza di una teoria scientifica sta nell’essere sbagliata

Emilio Del Giudice
La forza di una teoria scientifica sta nell’essere sbagliata
Giuliano Preparata (in primo piano) con Emilio Del Giudice (sullo sfondo). -Da membri.miglioriamo.it

Ad un anno dalla morte del fisico Emilio del Giudice, lo ricordo con un libero e personale rifacimento di una sua lezione indimenticata

Come si ricava una teoria scientifica? “Tirando a indovinare” (Feynman), cioè per tentativi ed errori. Errore ed errare hanno la stessa radice: errore è la faccia negativa del significato che vale sbaglio, errare la faccia positiva che vale vagare per terre sconosciute, guardandosi intorno e così acquistando secondo l’Ulisse dantesco “virtute e canoscenza”, cioè tecnica (potenza) e scienza. Il contrario di errare è andare dritti per la propria strada, senza fermarsi ad osservare.

Andare dritti è la procedura delle tecnologie digitali, che sono sequenziali: un passo dopo l’altro. Ogni passo è determinato rigorosamente dal precedente e a sua volta determina il successivo. Il minimo errore nella sequenza blocca il sistema. Il computer è un cretino veloce, adatto a sostituire i burocrati. Ciò che un travet impiegherebbe anni a fare, un calcolatore lo fa in un attimo. Poi, per salvarsi il posto, il burocrate associato al pc provvede di suo ad allungare i tempi, cosicché la pubblica amministrazione moderna computerizzata non è più efficiente di quella di Maria Teresa di 3 secoli fa.

Per fortuna il cervello non è un computer, contrariamente alla disinformazione della vulgata pseudoscientifica. Il computer e il cervello non hanno nulla in comune: il primo è un oggetto deterministico e perciò ripetitivo, il secondo è del tutto imprevedibile e così creativo. Il cervello è un sistema errabondo che oscilla ininterrottamente a destra e a manca. Mentre sta andando da una parte, con la coda dell’occhio intravvede una bella possibilità da un’altra e devia. Le scoperte accadono così, sulla base di connessioni tra miliardi di neuroni cooperanti che precipitano in pochi millesimi di secondo in uno stato sincronizzato che i portatori del cervello interessato chiamano intuizione. Poiché il tempo necessario agli impulsi per connettere (secondo l’elettrologia classica) i diversi moduli corticali implicati in un’intuizione è di molti ordini di grandezza superiore a quello effettivamente impiegato nella loro sincronizzazione, la quasi istantaneità rivela che nel cervello sono all’opera meccanismi quantistici di coerenza.

La scoperta provoca stupore, che non è una manifestazione della ragione, ma un turbamento dell’anima. Esistono molti modi di conoscere, con due estremi opposti: la conoscenza analitica e quella intuitiva. Dal pensiero illuministico in poi, viene data molta importanza alla prima, quantunque proprio uno dei massimi esponenti dell’illuminismo, Kant, avesse mostrato i limiti del pensiero analitico nella “Critica della ragion pura” (1781). Il modo di procedere analitico, tipico della matematica, deduce per via logica dai postulati (evidenti?) le conseguenze (vere?).

E se le premesse fossero sbagliate? e, ammesso che siano vere, che conseguenze nuove ne deduciamo che non siano già implicitamente contenute nelle premesse? Nel filo deduttivo delle teorie scientifiche si stabilisce a priori un distacco tra soggetto osservatore e oggetto osservato, ma così si ha una conoscenza (superficiale) del fenomeno, non una (profonda) del noumeno, perché nel distacco si può solo dire come la cosa appare fuori, mai com’è fatta dentro. L’ideale della conoscenza è nella connessione (“empatia”) tra soggetto e oggetto, che è l’opposto del distacco. L’empatia non si può stabilire al livello profondo con la ragione calcolatrice del pensiero analitico, che guarda da fuori, ma (come Kant riconobbe nella “Critica del giudizio”, 1790) solo con l’intuizione dell’esperienza estetica. Questa fa “risuonare” (Schelling) il soggetto con l’oggetto, in un rapporto coerente tra i due. “Il vero poetico è più vero del vero fisico” (Vico).

Fermi diceva che quando il risultato di un esperimento è conforme alle aspettative, vale a dire quando non sono stati fatti errori, abbiamo fatto una misura; se invece non è conforme, cioè se ci sono stati errori, abbiamo fatto una scoperta! La nostra società è tutta imperniata sulla razionalizzazione, sull’obiettivo di minimizzare gli errori. L’efficienza impone che dalla procedura siano eliminati tutti gli elementi cosiddetti d’irrazionalità, gli imprevisti, i disturbi, ma così si elimina alla radice ogni possibilità d’innovazione.

Ecco il progetto europeo “Human Brain Project” (HBP) da un miliardo di euro, per costruire un super-computer capace di “simulare la maggior parte o tutte le caratteristiche del cervello umano”. Ed ecco gli USA con la “Brain Initiative” (BI), da tre miliardi di dollari tanto per non essere da meno. Come s’è fatta la mappatura del genoma umano, con l’obiettivo della medicina personalizzata (e della riproduzione artificiale della vita), così HBP e BI dovrebbero servire per la cura personalizzata delle malattie di testa della vecchiaia (e per il conseguimento dell’Intelligenza Artificiale). Ma nei territori inesplorati, è dalla dialettica tra tante ricerche contrastanti che possono “per errore” emergere risultati fecondi, piuttosto che dal moloch di una Big Science guidata dirigisticamente da un unico business concept.

Che poi il concept, come in questo caso, sia di simulare un sistema quantistico dissipativo (il cervello) con una classica macchina di Turing (come sono tutti i computer attuali, più o meno super), la dice lunga sul perché da 30 anni non si fanno più scoperte. Il dogma dell’efficienza è mortale per il progresso della conoscenza. La scoperta coincide con l’imprevisto, per definizione. Cristoforo Colombo pensava di andare in India verso Ovest, per una via più breve (primo errore) e senza “ostacoli” di mezzo (secondo errore, fortunato). Voleva vedere l’India nota, trovò le “Indie” ignote. La scoperta dell’America fu il più grande errore di Colombo.

Oppure, ricordate Alexander Fleming, il biologo inglese che scoprì la capacità delle muffe di distruggere le colture cellulari? Immaginiamoci l’asepsi del laboratorio di colture di un biologo d’un secolo fa: mica Fleming sarà stato il primo biologo a vedere la propria coltura di colonie batteriche distrutta da una muffa! Chissà quanti altri avevano vissuto prima di lui questo evento come una disgrazia, dopo che avevano dedicato tante amorevoli cure alle loro provette… Quanti poveri tecnici di laboratori ospedalieri licenziati da un direttore imbecille, ignaro che invece di una disgrazia gli era capitata la fortuna d’una grandissima scoperta: la penicillina e gli antibiotici.

I colpi di fortuna vengono dagli errori, solo che il cretino non se ne accorge. La qualità di approfittarne appartiene agli intelligenti, che poi prendono il premio Nobel. Fleming ebbe l’onestà di riconoscere che la scoperta era stata fatta prima di lui da un napoletano che studiava medicina a Napoli a fine ‘800 e si guadagnava da vivere facendo il garzone in un laboratorio di analisi. I suoi vivevano in una casa colonica che attingeva l’acqua da un pozzo pubblico, le cui pareti umide e buie erano spesso ricoperte di muffa, e gli avevano raccontato che quando c’erano le muffe le persone del villaggio non si ammalavano. Cadevano malate solo quando le muffe non c’erano. Che siano le muffe impregnando l’acqua a proteggere dalle malattie? Lo studente registrò la congettura in una nota, che è conservata nell’archivio della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli. La nota fu letta dal giovane Fleming durante un suo stage a Napoli poco avanti lo scoppio della I guerra mondiale e quando, dopo la guerra, una casuale distruzione di colture per muffe toccò al suo laboratorio di Londra, il dott. Fleming si ricordò della congettura napoletana.

Ogni progresso tecnico-scientifico proviene da un’idea strampalata, ma non viceversa, perché non ogni idea strampalata dà luogo ad un progresso. La stramberia è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Pauli bocciò una volta un articolo dicendo: “Non è neanche sbagliato!”, per dire che era un inutile sfoggio di nozioni risapute. Oggi invece, i lavori inviati alle riviste scientifiche per passare la peer review devono essere politicamente corretti, cioè non devono dire assolutamente nulla di nuovo e soprattutto non devono andare contro il pensiero dominante. È invece importante dire anche cose sbagliate, perché sono le uniche suscettibili di aprire nuove strade. I referees bocciano un articolo dicendo che manca di questo o è contro quell’altro: ma questa dovrebbe essere una ragione di più per pubblicarlo! Invece viene censurato.

Tra fine ‘800 e inizio ‘900 chi diceva la cosa giusta in fisica stava fermo, chi diceva la cosa sbagliata progrediva. I grandi nomi di allora, quelli che occupavano le cattedre di scienze a Cambridge, Parigi o Berlino e selezionavano gli articoli da pubblicare nelle riviste scientifiche nazionali, predicevano che la fisica era finita e che non c’era ormai più nulla da scoprire. Si suona oggi la stessa musica dalle somme autorità della fisica? Confondevano la vita della scienza con la loro personale, volgente al termine e senza più la spinta della curiosità. Pontificavano che i corpi pesanti non possono volare e che gli atomi sono sfere impenetrabili. Nel giro di vent’anni sarebbero arrivate la relatività speciale, la relatività generale e la meccanica quantistica, con seguito di aerei e di particelle subatomiche, che avrebbero azzerato la precedente supponenza di conoscenza. Dalle fondamenta.

Come sono state inventate le telecomunicazioni? Da una sequela di errori e colpi di fortuna. Ne ho contati 6, che vi vado a descrivere. Nel 1861, il giovane matematico scozzese James Maxwell aveva realizzato l’unificazione dell’elettricità e del magnetismo in un sistema di equazioni che predicevano l’esistenza di onde eteree, insospettate da che mondo è mondo. 20 anni dopo, Augusto Righi, professore a Bologna e Heinrich Hertz, professore a Karlsruhe, dimostrano la realtà fisica di queste onde riproducendole in laboratorio. Le chiamano onde elettromagnetiche (o.e.m.) o hertziane. Le o.e.m. viaggiano nel vuoto in linea retta alla velocità della luce e si distinguono tra loro solo per la lunghezza d’onda. Questa può assumere praticamente qualsiasi valore, dal kilometro delle onde radio al decimiliardesimo di metro dei raggi gamma. La luce stessa è fatta di o.e.m. aventi lunghezza tra i 4 e i 7 decimilionesimi di metro. E come le onde marine sono usate dai naufraghi per trasmettere via mare messaggi in bottiglia, così le o.e.m. possono essere usate per comunicare messaggi via vuoto (“senza fili”): basta modularle, cioè sovrapporne due diverse, una consistente nel messaggio e l’altra che lo porta. Ai tempi di Righi e Hertz, le o.e.m. producibili artificialmente avevano lunghezza d’onda di qualche centinaio di metri, cosicché potevano superare una collina ed essere modulate per comunicare a qualche kilometro.

Ma non oltre: propagandosi solo in linea retta, la presenza della curvatura terrestre impediva anche in pianura la trasmissione oltre l’orizzonte. Ma se con le o.e.m. posso comunicare solo a vista, basta che alzi la voce o magari accenda un fuoco come fanno gli indiani, oppure usi un “telegrafo ottico” (una successione di tante torri una in vista dell’altra) come facevano i romani. Per farla corta, nessun sapiente europeo, che dico?, nessuna persona con un minimo di cultura elettromagnetica pensava a fine ‘800 ad inventare la radio: “Le onde elettromagnetiche non avranno mai nessuna applicazione” (Hertz).

L’idea stramba venne in mente agli ignoranti, che non avevano fatto il sopradetto ragionamento sensato. Guglielmo Marconi era un ignorante, ma aveva due fortune, tanto per cominciare:

1) era sicurissimo di sé, cosicché non prendeva mai in considerazione l’idea di sbagliarsi e

2) era di famiglia ricca: padre proprietario terriero e madre irlandese ereditiera della rinomata distilleria Jameson & Sons.

Mamma Annie non aveva referees sopra di sé e concesse al figlio un fido illimitato. Così il rampollo decise d’inventare la radio sulla base di un ragionamento molto, ma proprio molto sbagliato. Aveva studiato nei libri di fisica (del liceo, o forse delle medie) che se si produce un campo elettrico vicino ad un conduttore, il campo si dispone parallelo al conduttore. Bene, si disse Marconi, allora io produco un campo elettrico vicino alla Terra e siccome questa è un conduttore, il campo elettrico si curverà intorno alla Terra! Nella sua ignoranza della fisica, Marconi aveva confuso il campo elettrico col campo elettromagnetico…

Corre a esporre il progetto al succitato Righi, luminare in Bologna:

– Ho scoperto la radio! Prima modulo le o.e.m. e poi invio un segnale in tutto il mondo, ecc., ecc. [Marconi].

– Ma caro ragazzo, Le hanno mai segnalato che la Terra è rotonda, non piatta? [Righi].

– E che importa? le onde s’incurvano seguendo parallelamente il profilo terrestre, ecc., ecc. [Marconi].

– Ma Lei, sig. Marconi, ha fatto l’esame di Fisica 2? Ecco, forse no. Lo faccia e poi ne riparliamo [Righi].

Che arroganti questi cattedratici! Marconi torna a Villa Griffone, con i soldi della mamma affitta due lotti di terreno, uno di là della Manica in Cornovaglia, l’altro di là dell’Atlantico in Terranova, e comincia a montare le antenne. I giornalisti, informati dalla madre della grande impresa tentata dal figlio, vanno a Parigi dal numero 1 mondiale della matematica, della fisica teorica e della filosofia naturale, il prof. Henri Poincaré, a riferirgli che c’è un giovanotto italiano che vuol collegare senza fili l’Europa all’America. Poincaré sbuffa: ma come si può essere così ignoranti, ce monsieur Marconi non lo sa che la Terra è sferica?!

Marconi se ne infischia dei risolini dei giornali. Lavora, prova, sbaglia, riprova… e il segnale alla fine, la notte del 12 dicembre 1901, superati 3.000 km di vuoto, arriva! E ciò intanto per un altro marconiano colpo di fortuna, il terzo:

3) Marconi aveva inviato i segnali di notte quando, come si sarebbe capito molti anni dopo, viaggiano meglio.

Popper era ancora nella pancia della mamma quella notte, se no avrebbe detto: Marconi ha falsificato almeno una teoria scientifica, o non è vero che le o.e.m. si diffondono solo in linea retta o non è vero che la Terra è rotonda! Di qua non si scappa. E invece sono vere tutte e due, caro Karl. Tertium datur! Senza che nessuno al mondo lo sapesse, né Righi, né Hertz, né Poincaré, Marconi aveva vinto al Lotto per la quarta, quinta e sesta volta: si dà infatti il caso che

4) la Terra sia circondata da uno specchio (la “ionosfera”), che riflette le o.e.m. di determinate lunghezze d’onda;

5) più precisamente, la ionosfera riflette quelle più lunghe di 600 m, com’erano per caso quelle di Marconi. Per comunicazioni a lunghezza d’onda più piccole, come quelle oggi usate, ci sarebbe voluto il satellite e l’esperimento di Marconi sarebbe fallito; e

6) la ionosfera è molto alta, dell’ordine di centinaia di km, così che le onde di Marconi riflesse poterono attraversare l’Atlantico rimbalzando (probabilmente due volte) da quello specchio. Con uno specchio più basso non ci sarebbero mai arrivate.

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La prima connessione wireless Europa-America ad opera di Guglielmo Marconi (1901)

Le teorie scientifiche giuste sono quelle ufficialmente sbagliate. “Il volo con macchine più pesanti dell’aria è impossibile” (1895, Lord Kelvin, ingegnere, matematico, fisico e presidente della Royal Society di Londra). Il primo volo di un aereo avverrà nel 1903.

Giorgio Masiero

enzopennetta.it