I 7 peccati del Greenwashing – Conoscerli per evitare l’inganno

I 7 peccati del Greenwashing – Conoscerli per evitare l’inganno

GREENWASHING slideUno studio dell’UL, ente canadese di certificazione ecologica indipendente, rileva che il numero medio dei cosiddetti prodotti “verdi” per negozio è quasi raddoppiato tra il 2007 e il 2008, mentre la pubblicità ecologica è quasi triplicata tra il 2006 e il 2008. Tuttavia, il 98% dei prodotti certificati come ecologici presenta almeno uno dei sette peccati del greenwashing. Vediamo allora secondo questo studio come possiamo difenderci dalla pubblicità ecologica ingannevole.

– Che cos’è il Greenwashing

Letteralmente dall’inglese greenwashing è l’azione di lavaggio con pittura “verde” (colore universalmente associato all’ecologia) con lo scopo di mistificare l’elevato impatto ambientale generato durante il processo di fabbricazione di un determinato prodotto, o servizio, da parte di un fabbricante.

GREENWASHINGIn altri termini, si tratta di una sfrontata azione d’inganno (nella maggior parte dei casi rasenta il dolo poiché intenzionale) – riguardo alle politiche ambientali – nei confronti dei consumatori. Nel nostro Paese non potevano mancare esempi e il fenomeno purtroppo è in crescita, operato da sedicenti aziende ecosostenibili, poiché favorito dalla buona fede, o peggio dall’ignoranza del consumatore distratto. In questa sede non pubblicheremo la lista dei falsi prodotti ecologici, nè delle aziende imbroglione, ma forniremo un semplice vademecum che speriamo risulti utile ad orientare le scelte dei consumatori che desiderino, con i loro acquisti consapevoli di prodotti realmente ecosostenibili, contribuire a ridurre gli impatti ambientali.

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1. nascondere la verità

Dichiarare che un prodotto è ecologico in base ad un insieme ristretto di attributi, senza porre attenzione su altre importanti questioni ambientali significa non dire tutta la verità ed è considerato greenwashing. Per esempio la carta non è necessariamente rispettosa dell’ambiente e quindi preferibile ad altri materiali solo perché proviene da una foresta gestita in modo sostenibile. Il suo processo di fabbricazione può implicare impatti ambientali non trascurabili ovvero emissioni di gas serra o contaminazione dell’acqua dovuta all’uso di cloro per il candeggio.

2. non fornire prove inconfutabili

Dichiarazioni ecologiche giustificate da informazioni di supporto non facilmente accessibili o non rilasciate da un’affidabile certificazione di terze parti. Esempi comuni sono le etichette dei prodotti di carta igienica che sostengono l’esistenza di contenuto riciclato post-consumo, senza però fornire prove inconfutabili.

3. vaghezza delle affermazioni

Dichiarazioni ecologiche mal definite o troppo ampie tanto che il significato rischia di essere frainteso da parte del consumatore. La dicitura “Tutto naturale” ne è un classico esempio poiché la presenza di sostanze come arsenico, uranio, mercurio e formaldeide, pur essendo tutte presenti in natura, sopra certe soglie sono particolarmente velenose. Pertanto, tutto ciò che è naturale non è necessariamente “verde” o ecologico e quindi salutare.

4. adottare etichette false

Un prodotto che, attraverso parole o immagini, dà l’impressione di essere approvato o raccomandato da terze parti autorevoli in materia ambientale, mentre in realtà tale approvazione non esiste; in altre parole si tratta di etichette ingannevoli o false. Anche questo è greenwashing.

5. informazioni irrilevanti

Una dichiarazione ambientale anche se può essere veritiera, non è di fondamentale importanza, oppure è inutile, per orientare i consumatori nella scelta di prodotti ecologici, o a basso impatto ambientale. Ad esempio la dicitura “Senza CFC” non è fondamentale perché è noto che quei gas sono vietati dalla legge poiché considerati climalteranti dal 2003 nei Paesi industrializzati e dal 2010 nei Paesi in via di sviluppo (vedasi il Protocollo di Montreal).

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6. evidenziare solo il male minore

La dichiarazione ecologica può essere credibile nella categoria del prodotto, ma rischia di distrarre la concentrazione del consumatore, meno attento, su impatti ambientali complessivamente maggiori. Le sigarette organiche potrebbero essere un esempio di questo sesto peccato di mistificazione, come anche quello di considerare il veicolo sport-utility a basso consumo di carburante.

7. raccontare falsità

Dichiarazioni ambientali semplicemente false. Gli esempi più comuni di questo tipo di greenwashing sono i prodotti con false certificazioni Energy Star (per le apparecchiature dell’ufficio).

– Casi frequenti di Greenwashing

Il settore merceologico più colpito dal fenomeno di mistificazione è quello domestico con i seguenti prodotti: i giocattoli, i materiali per la cura della salute in generale, i cosmetici, e i prodotti per le pulizie. Nel settore delle costruzioni possono trarre in inganno alcuni prodotti da costruzione specie quelli per cui non sono richieste certificazioni da parte di enti terzi, in particolar modo si tratta di pitture, o di vernici, che promettono di essere miracolose magari perché provengono dalla ricerca aerospaziale, delle quali, per questioni di segreto industriale, non è possibile conoscere la composizione chimica reale.

Un velo pietoso dobbiamo stendere anche su alcuni prodotti d’arredo, specie quando la loro provenienza non è tracciabile in modo attendibile, come spessissimo accade acquistando prodotti ai mercatini dell’usato. Purtroppo, sembrano essere sempre più frequenti i casi di pubblicità ingannevole anche nel settore alimentare ed in particolare ci riferiamo ai prodotti elaborati e confezionati da spregiudicate multinazionali, organizzate secondo il losco, però legale, sistema delle “scatole cinesi”.

Le stesse considerazioni, espresse fin qui, valgono anche per le multinazionali dell’energia fossile e per le multi utility che gestiscono i rifiuti, includendo la fase dell’incenerimento degli stessi, in quanto spessissimo sponsorizzano campagne ecologiche con il biasimabile scopo di suggerire un’immagine positiva agli occhi dei loro target di riferimento.

– Come contrastare il Greenwashing

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Negli Stati Uniti d’America esiste un ente denominato Federal Trade Commission, il quale, fra le varie funzioni di vigilanza, persegue anche i casi di pubblicità ecologica ingannevole, perché in definitiva si tratta di concorrenza scorretta nei confronti delle aziende serie che investono molte risorse per migliorare i loro prodotti riducendone gli impatti ambientali. Nel nostro Paese non esiste un organismo analogo a quello statunitense, ma per la tutela del consumatore segnaliamo l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) che ha sede a Roma.

A nostro modesto avviso, riteniamo che solo una vigilanza attiva, dunque non passiva, delle frodi potrebbe avere il duplice vantaggio: in primo luogo dissuadere i falsificatori o millantatori e, in secondo luogo, consentire un introito pubblico derivato dalle sanzioni pecuniarie. In altri termini, questa azione rientrerebbe in uno dei compiti ascrivibili alla politica verde. Tutto ciò per suffragare la tesi di molti tecnici: le tecnologie sostenibili ci sono, mancano solo le volontà politiche per sostenerle.

In generale, consigliamo ai consumatori – prima di acquistare – di verificare se la certificazione del prodotto è riconducibile ad un ente realmente esistente e, in caso affermativo, di capire se questo è autorizzato a rilasciare certificazioni indipendenti dagli interessi economici del fabbricante di turno. Le etichette che meno si prestano ad azioni di mistificazione, degli impatti ambientali, sono quelle del terzo tipo poiché vengono rilasciate da enti terzi in base ai criteri del Life Cycle Assessment, come ad esempio la certificazione europea Ecolabel

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Per concludere, a chi conosce l’inglese suggeriamo una serie di strumenti e divertenti giochi educativi messi a punto dalla menzionata UL per evitare le più comuni insidie del Greenwashing.

Giovanna Barbaro

architetturaecosostenibile.it