Il “fiore prezioso” sacrifici umani e ritualità nelle antiche Americhe

Il “fiore prezioso” sacrifici umani e ritualità nelle antiche Americhe

sacrifici umaniLe pratiche sacrificali fanno parte della storia culturale dell’uomo da tempo immemorabile. Ciascuna cultura ha elaborato un proprio sistema di offerte, dalle più innocue a quelle più cruente, come l’autosacrificio o l’offerta di vite umane. Le cerimonie sacrificali vengono normalmente celebrate in occasioni di eventi sociali come le guerre, i riti di passaggio dall’età infantile a quella adulta, oppure in occasione di celebrazione a una divinità (sacrifici agli dei, a parti sacre del paesaggio, agli antenati divinizzati, o a capi santificati al momento della morte), o infine per propiziare un evento, come per esempio un buon raccolto.

Presso quasi tutti i popoli dell’America precolombiana esistevano svariate pratiche cerimoniali, molte delle quali prevedevano l’offerte di vita umana. Il sacrificio umano era spesso preceduto da lunghe cerimonie o combattimenti rituali che avevano come protagonisti i membri migliori della società. Come rituale di donazione estrema che una società poteva tributare, il sacrificio del “fiore prezioso” della vita era appannaggio della classe privilegiata.

Tra i popoli precolombiani certamente gli Aztechi furono tra quelli che maggiormente praticarono i sacrifici umani.

 

Gli Aztechi

Pur non essendo i soli a offrire sangue umano agli dei nel continente americano (e neppure nel resto mondo), tuttavia questa civiltà arrivò ad attuare, in determinate occasioni, quasi degli eccidi in massa. Famoso a questo proposito il sacrificio, citato in diverse fonti, di 20mila prigionieri di guerra avvenuto nel 1487 presso il Templo Mayor di Tenochtitlan (l’attuale Città del Messico e capitale del regno azteco).

Il cerimoniale sacrificale azteco avveniva in questo modo: il prescelto, dopo aver condotto una sorta di lotta simbolica contro alcuni avversari, veniva condotto magnificamente vestito in cima alla piramide dove veniva immolato su una pietra. Il sacerdote incaricato del sacrificio veniva normalmente assistito da altri sacerdoti minori che immobilizzavano la vittima mentre gli veniva squarciato il petto con un pugnale di ossidiana e gli veniva estratto il cuore, che doveva essere offerto ancora pulsante agli dei. Il corpo della vittima veniva generalmente eliminato, ma a volte poteva essere macellato e mangiato.

Il senso di tali sacrifici va ricercato nello stesso sistema cosmogonico azteco. Gli Aztechi credevano che per assicurare al Sole, e dunque all’intero mondo, la forza di rinascere ogni giorno fosse necessario offrigli il fiore più prezioso dell’uomo, il suo sangue. Gli Aztechi, espandendo velocemente la loro influenza su una gran parte dell’attuale territorio messicano, ebbero a disposizione un gran numero di nemici o schiavi da sacrificare al nutrimento del sole.

Paradossalmente, almeno dal nostro punto di vista, le vittime del sole erano onorate e festeggiate come se fossero esse stesse le divinità e venivano chiamati “figli del sole”. Se la vittima era un prigioniero di guerra, al momento della cattura egli si rivolgeva al suo rivale chiamandolo “padre diletto” e quest’ultimo a sua volta lo chiamava “mio figlio diletto”: i prigionieri di guerra, consci del loro destino, identificavano colui che li aveva catturati come il dio al qual sarebbero stati sacrificati (il loro padre, dunque) e altrettanto faceva il guerriero vincitore.

Particolarmente noti presso gli Aztechi erano anche i riti sacrificali celebrati in occasione del ciclo di maturazione del mais. La cerimonia prevedeva l’offerta di giovani donne: quando la raccolta del mais era matura veniva sacrificata una fanciulla che rappresentava il mais in erba tramite decapitazione (l’allusione era, chiaramente, alla “decapitazione” del mais che l’uomo attua attraverso la falciatura). Alla fine della mietitura, la fanciulla che rappresentava il mais raccolto veniva prima uccisa e poi scorticata: il sacerdote del sacrificio ne doveva rivestire la pelle. Anche in questa seconda fase del sacrificio sono chiare il riferimento simbolico alla decorticazione del mais.

I Moche

Anche nell’area andina sacrifici umani erano attuati sin da tempi antichissimi. Sono ben documentate pratiche sacrificali nella zona costiera del Perù, soprattutto a partire dal II secolo dopo Cristo. Qui i Moche, che occupavano le valli a nord di Lima, elaborarono rituali complessi di sacrificio che sono oggi documentati nella pitture della ceramica. I sacrifici, praticati dall’élite politico-religiosa, potevano essere celebrati in occasione della morte di un personaggio di rango, oppure avere funzione propiziatoria (per un buon raccolto, per ottenere un clima mite, e così via). Per il primo caso, abbiamo numerose testimonianze archeologiche: il clima desertico della costa ha permesso una buona conservazione delle inumazioni di quest’epoca.

Nel corso degli ultimi anni, sono state ritrovate importanti sepolture multiple dove il defunto, normalmente un personaggio importante, era sepolto assieme a una serie di “accompagnatori” sacrificati al momento della sua morte. Si tratta soprattutto di guardiani e inservienti che dovevano proteggere aiutare il signore dopo la sua morte. Generalmente, in questi tipi di tombe le persone sacrificate erano deposte attorno al sarcofago di canne che accoglieva il corpo del signore.

In un importante sito Moche, chiamato Huaca de la Cruz, è stata studiata una sepoltura di un uomo e di un bambino, accompagnati nella tomba da due donne morte per strangolamento: una di esse, al momento del ritrovamento, conservava ancora il laccio attorno al collo. A volte, invece di deporre assieme alla figura principale l’intero corpo dei sacrificati, si preferiva deporre solo parti del corpo, come per esempio le mani o la testa. Sembra che quest’usanza funeraria fosse un’innovazione dei Moche, e fu tramandata in tempi successivi ai Chimu, che abitarono anch’essi l’area della costa nord.

La ceramica Moche ritrae spesso sacrifici di prigionieri di guerra. In un famoso vaso noto come Pieza Larco, conservato attualmente al museo Larco Hoyle di Lima, un artista Moche ha dipinto con linee finissime tutte le fasi di un sacrificio umano. Lo studio di quest’importante ceramica ha permesso di capire in dettaglio come avvenisse il rituale sacrificale. La prima parte della cerimonia consisteva in un combattimento liturgico: i guerrieri erano riccamente vestiti e appartenevano senz’altro all’élite dirigente dei Moche. Sappiamo che si trattava di combattimenti rituali in quanto i gruppi di guerrieri che si fronteggiavano erano dipinti con abiti e tratti somatici tipici dei Moche, appartenevano dunque al medesimo gruppo etnico.

Lo scopo del combattimento, che poteva arrivare ad essere estremamente violento, era quello di fare un prigioniero, e non di uccidere il presunto nemico. Chi cadeva in prigionia veniva prima spogliato e poi legato alle mani e ai piedi, infine gli veniva passata una corda attorno al collo. L’atteggiamento quasi collaborativo con cui vengono raffigurati i prigionieri ha fatto pensare alcuni studiosi che si trattasse quasi di volontari.

Questi combattimenti avvenivano probabilmente in spazi aperti, vicino agli insediamenti Moche. Successivamente, la cerimonia del sacrificio poteva continuare in spazi architettonici urbani, oppure all’aperto se il sacrificio avveniva gettando il prigioniero da un’altura o annegandolo in mare. A seconda dei casi, il sacrificio avveniva decapitando, smembrando o dissanguando la vittima. Quest’ultima pratica era la più frequente, in quanto era particolarmente importante cercare di recuperare il sangue, il fluido vitale della vittima.

La raccolta del sangue avveniva perforando il collo e inserendo nella vena un tubo di osso o di metallo attraverso il qual il sangue veniva fatto fluire in coppe cerimoniali. I sacerdoti officianti (sia maschi che femmine) sono rappresentati con ricchissime vesti, e spesso portano travestimenti cerimoniali in forma d’animali, in quanto rappresentanti, evidentemente, di un mondo ultraterreno. Il sangue veniva poi offerto agli dei, anch’essi spesso rappresentati nella ceramica Moche come spettatori del sacrificio, e bevuto anche dai sacerdoti. Molti ritrovamenti archeologici hanno confermato le scene dipinte nella ceramica Moche. A Huaca della Luna, un importante centro Moche, sono stati ritrovati decine di corpi di giovani colpiti a morte e dissanguati.

Probabilmente, secondo l’archeologo Luis Jaime Castello della Pontificia Universidad Cátolica del Perù, furono sacrificati per placare le piogge battenti che si rovesciarono su quell’area a causa del Niño, che sin dai tempi antichi imperversava nell’area. Secondo l’archeologo, i combattimenti erano evidentemente una maniera per “selezionare” individui coraggiosi, i migliori elementi della società, gli unici che erano ritenuti adatti ad essere offerti alle divinità.

Gli Inca: le capacochas

Molti secoli dopo i Moche e i Nazca troviamo i sacrifici umani anche presso gli Inca. Anche presso questa cultura, i sacrifici avvenivano in svariate occasioni sia religiose che di natura sociale. Il primo archeologo a studiare tali pratiche presso questa civiltà fu Max Uhle già all’inizio del secolo scorso. L’archeologo ritrovò un gran numero di donne sacrificate tramite strangolamento e sepolte vicino al tempio del sole, a Pachacamac, nella costa del Perù. Evidentemente le fanciulle erano state sacrificate al dio del sole Inti.

Occasionalmente, in seguito alla morte di un sovrano, anche presso gli Inca come presso i Chimu e i Moche prima, il capo veniva “accompagnato” nell’aldilà dai servi e dalle mogli. Recentemente la nostra conoscenza sulle pratiche sacrificale degli Inca è nettamente cresciuta grazie al ritrovamento di vittime sacrificali perfettamente conservate in diverse punti della Cordigliera andina. Qui, la sepoltura dei corpi nel permafrost (suolo permanentemente ghiacciato) ha permesso di effettuare autopsie e di studiare, oltre ai corpi, persino i vestiti, la pelle e i capelli di queste vittime.

La scoperta più recente è stata quella effettuata nel 1999 sulla cima al vulcano Llullaillaco, a più di 6mila metri d’altitudine nell’area nord ovest dell’Argentina. Il gelo ha qui conservato i corpi intatti di tre bambini sacrificati alle divinità delle montagne: i bambini dovevano aver tra gli 8 e i 15 anni. Vestiti di lana finissima e con in testa un ampio copricapo di piume, i bambini vennero probabilmente narcotizzati con un distillato ricavato dalle foglie di coca, servito sia per farli affrontare la faticosa salita verso la cima di questo vulcano (combattendo il soroche, mal di montagna) sia per alleviare le loro paure. Ma la masticazione della coca, oltre ad avere un effetto terapeutico contro il mal di montagna, era un elemento fondamentale dei rituali religiosi, in quanto i popoli precolombiani attribuivano a questa pianta poteri magici, di guarigione e persino divinatori.

Una volta narcotizzati con la coca, e dopo una bevuta abbondante di chicha (una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del mais, molto usata nelle cerimonie religiose), i bambini venivano gettati ancora vivi in buche di 1,50 metri di profondità, assieme a un ricco corredo di statuette in metalli preziosi, ceramica e tessuti. La scoperta dei bambini del Llullaillaco è infatti avvenuta grazie al ritrovamento in superficie di una statuetta di lama.

Ma chi erano questi bambini, e perché si decise di sacrificarli in un luogo tanto remoto? Erano capacochas, vittime sacrificali donate dagli Inca ai temibili dei delle montagne. Scelti tra la nobiltà, i bambini destinati a diventare capacochas dovevano essere, secondo il cronista Cristobal de Molina, belli e in perfetta salute. Tramite il sacrificio di creature così pure, gli Inca ritenevano di offrire agli dei il tributo più prezioso. Dal canto loro i bambini, una volta sacrificati, avrebbero avuto l’onore di entrare nel mondo degli dei.

I sacrifici di bambini avvenivano in determinati momenti del calendario o in occasione d’avvenimenti particolarmente delicati come un’epidemia o una sconfitta in guerra. Con l’arrivo degli spagnoli e la repressione della religione indigena ogni rito sacrificatorio venne proibito. Ma sappiamo che, in segreto, durante l’epoca coloniale, molti sacerdoti continuarono a offrire capacochas ai loro dei.

Carolina Orsini

sapere.it