Il prezzo della fede

Il prezzo della fede

Il prezzo della fedeQuanto ci costa questa nostra imbarazzante classe politica ormai è cosa nota. Ma c’è un’altra casta che ci costa davvero tanto. E non solo in termini economici ma anche – e soprattutto – per questioni legate alla sua costante ingerenza in un ambito (la politica) che mai dovrebbe appartenergli in una democrazia compiuta. E’ Santa Romana Chiesa.

Da quando, nel ’90, è stato codificato, attraverso l’istituzione dell’otto per mille, il finanziamento palese ad alcune confessioni religiose, un fiume di denaro fresco ha cominciato a fluire nelle casse della Cei raggiungendo – secondo un’inchiesta recente di La Repubblica – il miliardo di euro l’anno.

“Ruini è il dominus incontrastato di questo denaro – scrive Curzio Maltese, inviato del quotidiano diretto da Ezio Mauro – e tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l’ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari”. E stiamo solo parlando di una delle tante voci a bilancio della Chiesa cattolica. Ma la domanda di fondo è più ampia, anche se più banale: quanto costa la Chiesa cattolica agli italiani?

E se è anche lecito poter pensare che la politica, il governo di un paese, abbiano un costo, perché si dovrebbe accettare che una confessione religiosa, ormai non più da tempo religione di Stato, debba essere foraggiata dai cittadini italiani attraverso il prelievo diretto sull’Irpef? In nessun Paese al mondo funziona come da noi, neppure nella cattolicissima Spagna o in altri Paesi dove la presenza Vaticana è particolarmente numerosa. Eppure, ogni volta che qualcuno muove una critica al sistema, chiedendone una revisione, il braccio armato della Chiesa presente in Parlamento blocca qualsivoglia istanza di cambiamento. E tutto finisce lì.

Eppure bisognerebbe rispolverare la memoria e ricordare, ogni tanto, come funziona questa “elargizione volontaria” dei cittadini verso le casse Vaticane. E’ certamente vero che gli italiani preferiscono pagare i preti più dei politici, ma non è detto che tutti la pensino allo stesso modo. Val la pena, allora, di rammentare che il meccanismo dell’otto per mille sull’Irpef, studiato a metà anni ‘80 da un fiscalista del calibro di Giulio Tremonti, all’epoca consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale.

l 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce “otto per mille” ma grazie al 35 per cento che indica “Chiesa cattolica” fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell’84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini. Che tale è rimasta, senza particolari lamentazioni da parte dei responsabili delle altre confessioni, troppo minoritarie e frazionate per poter rivendicare parità di trattamento.

L’otto per mille, in realtà, è solo la punta dell’iceberg del clientelismo dello Stato italiano rispetto alla chiesa cattolica. C’è anche – e soprattutto – l’odiosa sperequazione che riguarda l’ICI : i luoghi di culto, come dovrebbe essere noto, sono esenti dal pagamento della tassa comunale.

A Roma ci sono più chiese che ospedali e non bisogna essere fini matematici per capire quanto giovamento potrebbero averne le casse dell’amministrazione capitolina se solo questa esenzione (dovuta a cosa?) fosse stracciata. Stime “non di mercato” svolte dall’Anci, l’associazione dei comuni italiani, hanno valutato tra i 400 ai 700 milioni di Euro il mancato incasso per l’Ici delle amministrazioni locali italiane.

L’inchiesta di La Repubblica , senza portare cifre rigorose, d’altra parte impossibili da reperire per via della totale omertà delle gerarchie vaticane a rendere noti i propri bilanci, ha comunque stabilito che la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all’anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale.

La prima voce comprende il miliardo di euro dell’otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell’ora di religione (lo stabilisce il Concordato) altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c’è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all’ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell’ultimo decennio, di 250 milioni. “A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa – scrive sempre Maltese – occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un’inchiesta dell’Unione Europea per aiuti di Stato”.

A tutto questo infinito elenco della spesa andrebbero anche aggiunti i 500 milioni derivanti da esenzioni Irap, Ires e altre imposte, mentre in altri 600 milioni consiste l’ammontare dell’elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l’Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini.

Quattro miliardi all’anno, si diceva. Quante scuole, quanti ospedali, quanti servizi migliori si potrebbero fare con tutto questo denaro? “ La Chiesa cattolica – conclude Maltese – non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico”. Con quale ritorno per lo stato laico, ci chiediamo noi?

E come li spendono, poi, tutti questi soldi se, di certo, i sacerdoti hanno meno bisogno di far di conto delle famiglie italiane? Su cinque euro versati dai contribuenti – si legge nel bilancio della Cei, ma vai poi a sapere – la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all’estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all’autofinanziamento.

Prelevato il 35 per cento del totale, per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all’interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come “esigenze di culto”, “spese di catechesi”, attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l’altro paradosso: se al “voto” dell’otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Cita l’inchiesta di La Repubblica: “Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul “come” le gerarchie vaticane usano il danaro dell’otto per mille “per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa”. Una delle testimonianze più pungenti del momento è quella rappresentata dal libro “Chiesa padrona” di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell’Avvenire, il quotidiano dei vescovi.

Al capitolo “L’altra faccia dell’otto per mille”, Beretta osserva: “Chi gestisce i danari dell’otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici”.

E continua: “Quale vescovo per esempio – sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale – alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?”. “E infatti – conclude l’autore – i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere…”.

Oggi la Chiesa è di gran lunga più ricca e potente dei palazzi della politica, governa con rigore i media e la politica medesima (anche quella laica) e le alte gerarchie vaticane godono di una visibilità mediatica seconda solo a quella dei leader parlamentari.

“Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici – scrive Maltese – la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent’anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione”.

Proprio come Berlusconi, anche la Chiesa di Ratzinger sembra oggi tarantolata dal culto mediatico secondo cui la visibilità sarebbe direttamente proporzionale al consenso popolare. Niente di evidentemente più sbagliato, niente di così politico e antireligioso per antonomasia. E qualcuno, non troppo tempo fa, aveva lanciato, inascoltato, l’allarme. “La Chiesa – riporta Maltese – sta divenendo per molti l’ostacolo principale alla fede.

Non riescono più a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo”. Con gli occhi di oggi, la firma su questo testo lascia sgomenti: quel fine teologo era proprio lui, Sua Santità Joseph Ratzinger.

Sara Nicoli
senzasoste.it