Il Tibet tra politica e religione

Il Giornale Online
Faccio una premessa:

quanto mi accingo a esporre è frutto di letture disordinate fatte in anni passati, letture che ho avuto una grande difficoltà a recuperare. Per tale ragione molte delle cose che scrivo (o forse tutte…) sono molto imprecise e vi saranno sicuramente molti errori. Posso però esporre quanto ho compreso, per cui se qualcuno troverà questi inevitabili errori nei miei scritti, me lo faccia notare e provvederò a postare le rettifiche.

Pubblicherò a puntate questo scritto in quanto abbastanza lungo da rischiare di stancare i lettori prima che possano arrivare a metà strada.

Il Dalai Lama

Questa è una sintesi biografica della sua vita. Come riferimento biografico essa utilizza la fonte ufficiale del governo tibetano in esilio.

Tenzin Gyatso, nome che ebbe dopo che fu riconosciuto come XIV incarnazione del buddha Avalokitesvara, mostrò fin da piccolo una notevole curiosità che sconfinava abbondantemente dai limiti imposti dall’educazione di un reincarnato. Molti avranno visto il film “Sette anni in Tibet”, tanti sapranno che vi viene descritto un episodio della vita dell’ultimo Dalai Lama. Al di là delle inevitabili coloriture, l’amicizia fra il capo religioso e politico del Tibet e l’alpinista austriaco è un fatto storico; così come lo stesso Tenzin Gyatso ripete molto spesso nei suoi discorsi, è un fatto che sia profondamente affascinato dalle scienze, dalla tecnologia e dalla psicologia occidentali, che sistematicamente studia e confronta con la cultura tibetana e la pratica buddista.

Tali caratteristiche furono fondamentali quando, nel 1959, fu costretto a riparare in India per sfuggire al rischio di una sua cattura. Messo a contatto con una grande varietà di culture diverse, senza tanta curiosità, condita di quell’ironia distaccata che tutt’ora si può cogliere nelle sue parole, sarebbe perito e lo stesso lamaismo si sarebbe disperso diluendosi nei paesi della diaspora tibetana. Tenzin Gyatso è un capo di stato, un re, un capo religioso, un leader e un maestro. Lo è per diritto di karma, lo è per struttura caratteriale, lo è per la sua stessa forza. Tutte queste qualità convivono nella stessa persona che, ben lungi dall’essere “un semplice monaco”, diventa di fatto la vera sede del Tibet, la vera patria dei tibetani.

Karma e Reincarnazione

Parlare di karma e reincarnazione per me che sono un’occidentale educata nel cattolicesimo è immensamente complesso. Vedrò in che termini posso esprimermi senza riempire le pagine di sciocchezze illeggibili. In modo molto semplicistico si pensa che la reincarnazione sia quel tipo di credo secondo cui l’anima dell’individuo dopo la morte migri in un altro organismo vivente. Nel buddismo è il concetto di “individuo” che viene a mancare così come molti altri concetti per noi dati per scontati. Secondo tale visione il mondo in cui viviamo sarebbe uno stato illusorio nel quale facciamo esperienze di tipo circolare legate ad una legge di causa-effetto che, a differenza di quella indù, è meno meccanica ed ha qualche possibilità di essere modificata. In senso puramente meccanicistico tutto ciò che facciamo in parte dipende da delle cause pregresse e in parte da una limitata possibilità di scelta. A sua volta da ciò discendono degli effetti come i cerchi nell’acqua creati dal lancio di un sasso.

Questo avviene per l’individuo (usiamo questo termine perché nel mondo illusorio la percezione dell’individualità esiste), avviene nell’arco della vita attuale, ma avviene anche nell’arco di tutto il ciclo di morti e rinascite individuali, e avviene anche per i gruppi, le società, le nazioni, la popolazione mondiale, lo stesso universo. Nel buddismo la liberazione da questo ripetersi circolare di causa-effetto (una delle conseguenze dello stato illusorio di chi vive nel Samsara) avviene attraverso quel fenomeno che chiamano Illuminazione. Su come avvenga, su quello che è lo stato di illuminato non saprei dire.

Posso dire che, da quanto ho compreso, lo stato di illuminazione consente di vedere la realtà nella sua reale natura, liberandosi dal velo dell’illusione e in questo modo raggiungendo uno stato di gioiosa imperturbabilità. Altra conseguenza è quella di sottrarsi dal ciclo samsarico di morti e rinascite. Per andare dove? Per fare cosa? Non saprei dire, giacché ho i miei dubbi di aver raggiunto a mia volta tale stato. Vi sono molte scuole nel buddismo, e ognuna di queste ha la sua strada da indicare a chi vuole raggiungere la buddhità.

Nel buddismo tibetano la strada primaria è quella della meditazione in quanto si innesta nel filone di buddismo Dyana-Chan-Zen della strada India-Cina-Giappone, passando appunto per l’altopiano tibetano ove ha acquisito delle caratteristiche sue proprie integrandosi in una cultura politeista, variopinta, sciamanica molto variegata, e differenziandosi perciò da esso.

Chi ha raggiunto l’illuminazione è un Buddha, ma fra loro, secondo la tradizione Mahajana, alcuni fanno un voto: rinunciano volontariamente a restare nello stato nirvanico, ritornano per scelta nel ciclo samsarico di morte e rinascita, allo scopo di aiutare gli esseri a spezzare il circolo karmico e a raggiungere l’illuminazione di tutti gli universi (sulla cosmologia del buddismo preferisco ora come ora sorvolare). Questo voto viene chiamato voto del Bodhisattva. Tale voto è tipico del lamaismo tibetano che, per amor di precisione, rientra nel buddismo Vajrayana.

Incarnazione e RE-Incarnazione

Tempo fa un praticante del buddismo tibetano mi sottolineò questa distinzione. Parlava di INCARNAZIONE quando si trattava del processo involontario e karmico delle anime non illuminate, mentre di REINCARNAZIONE quando essa costituiva una scelta di un Bodhisattva. La differenza in effetti non è da poco. Mi ricollego al concetto di IO, di PERSONA, di INDIVIDUO come illusione. Secondo i tibetani non esiste un corpo e un’anima, ma esistono molti strati energetici e di questi almeno tre anime soggette a trasmigrare di corpo in corpo.

Anche qui mi rifaccio ad un film: Piccolo Buddha di Bertolucci. Nel film un lama si reincarna in tre bambini: uno è il protagonista, uno è un piccolo saltimbanco nepalese e il terzo è una bambina indiana. Il film contiene una verità e una imprecisione. Le tre anime che principalmente sono soggette all’incarnazione sono chiamate Corpo, Parola e Mente. Nel film hanno tre incarnazioni distinte e questa è l’imprecisione: i lama, i Bodhisattva, scelgono di reincarnarsi mantenendo unite le tre anime, cosa che diventa fondamentale per mantenere la memoria delle vite passate e per poter mantenere di vita in vita una linea di continuità.

Chi si INCARNA normalmente, disperde le sue anime in corpi diversi, ognuno dei quali riceve linee di incarnazione da vite diverse, di diverse “individualità”; in tal modo si ereditano karma che si intrecciano in modo praticamente impossibile da seguire. La percezione della propria unità, del proprio IO è illusoria ed è contingente al nostro stato di incarnazione terrena attuale. I Bodhisattva non hanno più questa percezione, persa dall’aver raggiunto l’illuminazione. Sono quindi degli esseri per così dire “impersonali” (nel senso di “privi del concetto di se stessi come persone”).

Il Dalai Lama come reincarnato

Lascio qui il link relativo ad una rapida spiegazione del sistema dei Tulku e dei primi riconoscimenti dei Dalai Lama. Costoro vengono considerati le emanazioni del Buddha Avalokitesvara,

La reincarnazione non comporta l’identità fisica, psichica o caratteriale dell’ultimo reincarnato con quelli precedenti, ma ognuno dei reincarnati dello stesso lignaggio e della stessa linea ha delle caratteristiche sue proprie che lo rendono particolarmente adatto ad affrontare la vita così come si presenta in quella particolare fetta spazio-temporale. Quindi il XIV Dalai Lama non è la fotocopia del XIII, costui non era la fotocopia del XII e così via.

I lignaggi di reincarnazione sono diversi, i più noti sono appunto quello del Dalai Lama e quello del Panchen Lama, considerati entrambi i capi spirituali del Tibet e, in varie epoche, anche i capi politici.

Il Lamaismo e la Cina.

La corrispondenza tra lamaismo e organizzazione politica del Tibet è stata la prova più dura che il governo cinese ha dovuto affrontare dal momento in cui ha invaso l’altopiano. L’invasione cinese ha comportato una capillare e continua politica di de-spiritualizzazione della popolazione tibetana, ottenuta attraverso la doppia tenaglia dell’azione di forza da un lato e delle azioni di contaminazione culturale dall’altro lato.

Con le azioni di forza hanno perseguitato i monaci, disperdendoli, chiudendo i monasteri e a volte distruggendoli con un “protocollo” già usato durante la rivoluzione culturale che portò a suo tempo alla perdita irreparabile di tesori millenari architettonici e artistici in generale. Con le persecuzioni hanno spinto migliaia e migliaia di tibetani a disperdersi, in un esilio in parte volontario e in parte obbligato. Tratterò oltre delle conseguenze di questa diaspora. Molti lama sono stati rinchiusi, torturati e uccisi, con loro anche molta gente del popolo: uomini, donne e bambini. I pochi monasteri rimasti attivi son stati spesso ripopolati da monaci filocinesi a scopi prevalentemente turistici.

La contaminazione culturale è avvenuta invece facendo insediare coloni nel territorio invaso, allo scopo di insinuare la loro cultura materialista radicale e di ridicolizzare come “superstizioni dannose” il bagaglio culturale e la ricchezza spirituale dei tibetani. In questo senso non hanno avuto dei grandi risultati: perché si verificasse quanto speravano, i cinesi dovevano comunicare con i tibetani, con il risultato che spesso erano i primi a “convertirsi” e non viceversa.

La sparizione del Panchen Lama

Come potete leggere da questo link, il governo cinese ha cominciato ad agire in modo massiccio sull’organizzazione politico-spirituale del Tibet, cercando di tagliarne le radici per impedire alla popolazione di mantenersi fedele ad un sistema che, effettivamente, è rimasto rigido e immutato nel corso dei secoli. L’unico modo possibile era proprio quello di stroncare il sistema delle reincarnazioni. Al riconoscimento del Panchen Lama, i cinesi rapirono quindi il bambino con tutta la sua famiglia e a tutt’oggi non si sa nulla di loro. Al loro posto è stato insediato dal governo cinese un altro Panchen Lama, un bambino scelto da loro la cui educazione è strettamente controllata dal governo cinese. Tale manovra è di fondamentale importanza in quanto il Panchen Lama è tradizionalmente deputato a riconoscere l’incarnazione del nuovo Dalai Lama dopo la sua morte.

La diaspora tibetana e le lente rivoluzioni del Dalai Lama

Il Tibet ha vissuto per molti secoli in uno stato di isolamento pressoché totale. Finita l’epoca dei continui scambi culturali, con India, Cina e Mongolia in particolare, ha progressivamente irrigidito la propria struttura sociale e ne ha protetto l’identità culturale operando uno strettissimo filtro ai propri confini. Pochissimi gli occidentali ammessi. Fra essi ricordo Heinrich Harrer, l’alpinista austriaco già citato divenuto amico personale del Dalai Lama; e, soprattutto e prima fra tutti, la straordinaria Alexandra David-Néel, esploratrice e studiosa parigina dalla vita indubbiamente ricchissima e fuori dal comune, che peregrinò per tutto l’estremo oriente, tradusse moltissimi testi del buddismo tibetano e contribuì grandemente alla diffusione della cultura di questo popolo in un linguaggio accessibile agli occidentali.

Ma fino all’invasione cinese queste costituivano delle eccezioni. In seguito Tenzin Gyatso ebbe a dire che il Tibet si era costruito nei secoli un karma negativo attraverso la propria chiusura e il rifiuto di scambi culturali con i paesi limitrofi, considerando la Cina come l’involontaria esecutrice di tale karma.

La diaspora tibetana si è sviluppata a partire dalle nazioni limitrofe, in particolare India e Nepal. Nazioni a prevalenza indù, sono caratterizzate fondamentalmente da una grande apertura spirituale e religiosa e hanno consentito ai tibetani di fondare la sede del governo tibetano in esilio. Da lì i tibetani giunsero praticamente ai quattro angoli della terra, trovando accoglienza in particolare nei paesi occidentali, avidi di una spiritualità lontana da quella, considerata ormai consunta, legata alle proprie forme tradizionali di fede.

In questa situazione i tibetani si trovarono costretti ad un confronto, a volte shockante, fra stili di vita profondamente lontani.

Il monachesimo tibetano, con la grande pletora di riti, con l’immensa ricchezza di pratiche fra le più disparate, con gli innumerevoli livelli di conoscenza esperenziale raggiunti attraverso forme di meditazione molto complesse e raffinate, si è trovato di fronte a stili di vita frenetici, alla mancanza di tempo, alla necessità di un sostentamento diretto. In questa situazione è diventato fondamentale proprio il carattere peculiare del Dalai Lama, Tenzin Gyatso.

Come ho già ricordato, si tratta di persona curiosa, incline alla conoscenza e al confronto, portata già dall’infanzia ad allargare i propri orizzonti al di là degli studi tradizionali. In prima persona Sua Santità cominciò a partecipare attivamente alla cultura del mondo occidentale, intervenendo frequentemente a seminari e convegni soprattutto in campo psicologico e di studio delle neuroscienze,. Partecipa tutt’ora attivamente ad ogni tipo di incontri interreligiosi e viene invitato volentieri da scienziati di diversa estrazione: psichiatri, neurofisiologi, fisici nucleari, economisti, sociologi e via discorrendo. La sua apertura mentale ha influenzato profondamente il buddismo tibetano della diaspora. Intanto i tibetani, ben lungi dal chiudersi in se stessi, hanno volentieri accolto chiunque volesse contattare la propria cultura e non hanno fatto distinzioni di provenienza geografica nel fornire insegnamenti a chi fosse in grado di seguire una strada comunque difficile e lunga.

Dal canto suo Tenzin Gyatso ha cominciato a fare un’opera di semplificazione dell’apparato ritualistico, sfrondandolo laddove fosse eccessivo e non necessario all’avanzamento delle pratiche. Questo anche allo scopo di renderlo più accessibile ad un mondo le cui caratteristiche sono piuttosto lontane dal Tibet così com’era fino a metà dello scorso secolo.

La sottile lotta tra governo cinese e Sua Santità il XIV Dalai Lama

Parlare di “lotta” nel caso di Sua Santità rischia di essere fuorviante. Bisogna intenderla in senso lato, costituendo, almeno da parte sua, più qualcosa di simile ad una difficile partita a scacchi che una battaglia con caratteristiche di tipo aggressivo.

L’opera di trasformazione e di parziale semplificazione della ritualità tibetana non ha solo uno scopo di integrazione nel mondo occidentale. Ogni tanto saltano alla ribalta affermazioni del Dalai Lama che riguardano proprio la sua successione. In sintesi:

* Egli potrebbe reincarnarsi in un non-tibetano
* Potrebbe reincarnarsi in una donna
* Si deve discutere della eventualità di scegliere il suo successore fra i viventi e non attendere la sua prossima reincarnazione.

Che significato dare a queste affermazioni? Arrivo ora all’articolo che ha fornito l’input a questo mio scritto: l’articolo scritto dal blogger Virtualblog. L’articolo si presenta ironico, ma sottende quella lotta di cui ho parlato all’inizio del paragrafo. I cinesi tentano di scardinare il sistema politico tibetano in ogni modo. Giacché i metodi tradizionali hanno in fondo sortito effetti meno incisivi del previsto, stanno provando ad intaccare il sistema politico-religioso nel suo nucleo centrale: quello legato, appunto, alla dottrina delle reincarnazioni. Ovviamente non possono impedire alle anime di reincarnarsi né vogliono farlo. Ormai allontanatisi definitivamente da qualunque forma di spiritualità considerano risibile questa visione della vita.

Lo scopo è semmai un altro: impedire la trasmissione della cultura attraverso il lignaggio lamaico. Dopo qualche anno dalla morte di un lama quelli che furono i suoi discepoli leggono dei messaggi costituiti da sogni e visualizzazioni durante le meditazioni e sulla base di essi vanno alla ricerca della reincarnazione del lama stesso. Identificati i bambini candidati, li sottopongono a delle prove che generalmente consistono in un riconoscimento di oggetti appartenuti al lama defunto messi insieme ad oggetti uguali ma non di proprietà del lama. Una volta riconosciuta la reincarnazione del lama, accolgono il bambino nel monastero per iniziarlo ad una vita di studi e meditazione. I lama sono una struttura portante dell’impalcatura politico-religiosa del Tibet, non deve perciò stupire che i cinesi si vogliano intromettere nel processo di riconoscimento del reincarnato, così da pilotarlo e, possibilmente, controllare l’istruzione del bambino designato.

Sua Santità Tenzin Gyatso sta cercando di operare per piccoli passi in modo da togliere terreno all’opera demolitrice del governo cinese. Alla sua morte infatti, secondo la tradizione, si dovrà attendere almeno 4 anni prima di poter iniziare la ricerca della sua prossima reincarnazione, dopo di che saranno necessari circa vent’anni perché il futuro Dalai Lama abbia completato la sua preparazione. Un buco di potere immenso e attualmente inaccettabile, che potrebbe portare alla definitiva perdita della battaglia tra Tibet e Cina.

I cambiamenti che Sua Santità sta mettendo in essere potrebbero, fra le altre cose, vanificar le azioni del governo cinese volte a controllare e piegare definitivamente il popolo tibetano.

Per concludere

Mi preme sottolineare che questa carrellata che ho esposto è quanto mai incompleta e parziale. Il Dalai Lama (unica persona che a mio parere meriti l’appellativo di “Sua Santità”) è un uomo dalla duttilità fuori del comune, che ha fatto proprio in modo integrale il concetto buddista della impermanenza (che ricorda il “πάντα ῥει” panta rei attribuito ad Eraclito). Nel suo accettare pienamente, consapevolmente e totalmente l’impermanenza sta agendo in modo armonico e coordinato sugli aspetti religiosi, ritualistici, politici e sociali del Tibet e, soprattutto, dei tibetani. Ma anche di tutti noi.

da Uyulala

Fonte: sacroprofano.net