Breve introduzione al buddhismo Theravada

Breve introduzione al buddhismo Theravada

buddhismo Theravada

Tratto da un discorso tenuto durante un ritiro a Angela Center, Santa Rosa, California, nel novembre del 1997.

Qualche giorno fa qualcuno ha chiesto: “Cos’è il buddismo theravada?”. E’ una domanda pertinente, perché spesso le persone entrano in contatto con la vipassana, la meditazione di intuizione profonda e con gli insegnamenti ad essa correlati, ma staccati dalle sue origini. Addirittura certe volte non sanno neanche che la vipassana ha a che fare col buddismo e ignorano chi fosse il Buddha.

Come ebbe inizio

Il Buddha cominciò la sua vita come principe ereditario di un piccolo regno situato nell’odierno Nepal. Nacque verso il 563 a.C., ma parecchi studiosi e varie tradizioni buddiste non si sono messi ancora d’accordo su una data esatta. Dopo essere stato vezzeggiato fino a 29 anni all’interno dei confini del palazzo, un impulso di ricerca spirituale lo spinse ad abbracciare la vita da asceta errante. Trascorsi alcuni anni di intensa pratica meditativa, accompagnata da parecchie inutili discipline austere, scoprì la Via di Mezzo e realizzò la vera natura delle cose. Fu illuminato.

Gli fu richiesto di insegnare e quindi passò i seguenti 45 anni spostandosi per la valle del Gange, nell’India nordorientale, dividendo con chi gli chiedeva insegnamenti, la comprensione che aveva realizzato. In questo periodo formò un ordine monastico ben preparato e una vasta comunità laica. La sua morte fisica (parinibbana) avvenne a Kusinara, ai piedi dell’Himalaya verso il 483 a.C. Dal punto di vista storico, sembra che la scuola theravada, nella sua forma iniziale, risalga a circa 100 anni dopo la morte del Buddha.

Qualche mese dopo il Parinibbana, si tenne un grande concilio di anziani per formalizzare e stabilire gli Insegnamenti. Dopo altri cento anni si tenne un secondo concilio, sempre per esaminare tutti gli Insegnamenti (i Discorsi e le regole monastiche), allo scopo di mantenere tutti sulla stessa linea. Malgrado ciò, pare che fu proprio in quel periodo che si ebbe la prima grave frattura all’interno del Sangha. Per come la capisco io – ma ci sono varie versioni dell’accaduto – una gran parte della Comunità voleva cambiare alcune regole, tra cui quella che avrebbe permesso ai monaci di usare denaro.

La maggioranza del Sangha voleva fare queste riforme, ma un piccolo gruppo disse: “Be’, che vi paia sensato o meno, vogliamo fare le cose nello stesso modo in cui le fecero il Buddha e i suoi primi discepoli”. Questa minoranza fu designata con il nome di Sthaviras (in sanscrito) o Theras (in pali), che significa “Anziani”. Dopo circa altri 130 anni, da questi si sviluppò la scuola theravada. “Theravada” significa letteralmente “La via degli anziani” e con tale nome furono poi conosciuti. La caratteristica di questa tradizione può esprimersi così: “Giusto o sbagliato, questo è il modo stabilito dal Buddha, perciò è il modo che anche noi seguiremo”. Per questo essa ha sempre avuto una qualità particolarmente conservatrice. Questo è la versione molto abbreviata della storia, ma descrive i lineamenti essenziali della nostra origine.

Come in tutte le tradizioni religiose e come in tutte le istituzioni umane, col tempo sorsero molte altre scuole. Si dice che 250 anni dopo il Buddha, durante il regno dell’Imperatore Asoka, vi erano 18 diverse principali scuole del Buddha-sasana, dell’insegnamento del Buddha. E’ importante notare, tuttavia, che non erano sètte completamente separate. Vi erano regolari monasteri dove gente di diverse scuole viveva insieme, e anzi ciò era piuttosto comune. Era normale che scuole e insegnanti di diversi orientamenti lavorassero insieme e vivessero vicini. L’accento veniva posto su elementi diversi, ma vi era una notevole armonia all’interno del Sangha. La tradizione theravada (sthaviravada in sanscrito) era una di queste scuole.

Sotto il patronato dell’imperatore Asoka

Una delle ragioni per cui la tradizione theravada si è mantenuta integra nella sua forma originale va attribuita all’imperatore Asoka. Questi era un re di stirpe guerriera di cui si è detto, con una iperbole tipica del mito, che avesse ucciso i suoi 99 fratelli per impossessarsi del trono. Poi guerreggiò nel resto dell’India, conquistando la maggior parte del subcontinente indiano. Dopo una battaglia particolarmente sanguinosa contro i Kalingan, in cui i morti furono circa 60.000, egli guardò quel mare di corpi gementi, piangenti, insanguinati e smembrati e improvvisamente fu colpito dalla follia di ciò che andava facendo. Si disse: “mi sono messo su una via veramente atroce”. Ma nel frattempo aveva conquistato tutta l’India, per cui poteva permettersi di prendere un po’ di respiro. Si disse anche: “Devo fare qualcosa per la mia vita spirituale perché se non lo faccio al più presto, sarò veramente in terribili guai”.

Invitò vari insegnanti appartenenti a diverse sette – non solo buddisti – per venire ad esporgli le loro dottrine. Vennero, uno dopo l’altro, varie persone, ma nessuna fu veramente convincente. Finché un giorno, dalla finestra del suo palazzo, vide un giovane novizio buddista che camminava per strada. Fu molto colpito dal contegno di quel bambino di soli sette anni, e pensò: “Come può un bambino così piccolo avere un contegno tanto nobile e un’espressione così serena?” Ordinò di portare quel bambino a palazzo. Il re lo fece entrare e gli disse: “Accomodati pure”. Il novizio, sapendo che secondo il protocollo un membro del Sangha non doveva sedersi più in basso di un laico, e vedendo che l’unica sedia in alto era il trono, si arrampicò sul trono.

Anche se Asoka non avesse ucciso 99 fratelli e non avesse conquistato tutta l’India, un gesto così gli avrebbe fatto rizzare i capelli in testa. Disse perciò al novizio: “Cosa credi di fare salendo sul trono?” Il novizio rispose con queste parole: “Il Dhamma ha il potere supremo nel mondo. Siccome ho dedicato la mia vita a realizzare questa verità, è mio obbligo sedermi su qualcosa che lo rappresenti”.

L’imperatore allora cominciò a porgli domande. Fu così impressionato dalle risposte del novizio che pensò: “Devo trovare chi sono gli insegnanti di questo bambino”. Si scoprì allora che il ragazzino apparteneva alla scuola theravada dei discepoli del Buddha. Fu questa la tradizione che Asoka perciò abbracciò e siccome era responsabile dell’intera India, decise che l’India sarebbe diventata una nazione buddista. In primo luogo incoraggiò la tradizione theravada, pur dando sostegno anche ad altre tradizioni buddiste e ad altre sette non buddiste. Più tardi suo figlio e sua figlia, Mahinda e Sanghamitta, andarono a Sri Lanka. Sanghamitta era una bhikkhuni, una monaca buddista, e Mahinda era un monaco. Portarono la tradizione theravada a Sri Lanka, dove si affermò, verso il 240 a.C.

Fu per questa ragione che più tardi lo Sri Lanka divenne una roccaforte del buddismo theravada. E’ fiorita lì per molti, molti secoli, soprattutto perché, essendo Sri Lanka un’isola, è automaticamente protetta dal suo stesso isolamento. In India gli imperi andavano e venivano, le civiltà sorgevano e si spegnevano, e anche molte scuole buddiste si formarono per poi dissolversi o frammentarsi. Infine si diffusero verso il nord, in Afghanistan, Tibet, Cina e più tardi in Korea e Giappone. Più tardi la scuola theravada sparì quasi dal continente indiano e, insieme alle altre scuole buddiste, disparve completamente con l’irrompere delle invasioni musulmane. Malgrado ciò, laggiù a Sri Lanka (che a quei tempi veniva chiamata Tambapanni), l’esiguo gruppetto dei theravadini continuava a sopravvivere quasi totalmente indisturbato. Naturalmente nel corso degli anni, vi furono guerre e carestie e vi furono altre scuole buddiste che operarono nella zona, ma il buddismo theravada fu sempre ripristinato e si mantenne come la religione principale.

Infine il buddismo theravada si diffuse nel sud-est asiatico (vi erano intensi rapporti tra l’India e quelle regioni) per mezzo dei missionari inviati da Sri Lanka si diffuse in Birmania e più tardi in Thailandia, Cambogia e Laos. Dato che sopratutto in questi ultimi paesi, non vi era una forte cultura unificata, il buddismo theravada e la cultura indiana che lo avevano originato, divennero l’influenza predominante in quell’area. Quando arrivò in Thailandia, Laos e Birmania, la società si formò intorno ad esso. In molti paesi buddisti, i tratti delle immagini del Buddha assomigliano ai tratti somatici degli abitanti della zona. Tuttavia, si può notare che nell’Asia sud orientale spesso i Buddha hanno tratti indiani. Le immagini thai generalmente non assomigliano per niente alla gente thai, ma hanno tratti indiani, nasi larghi e forme tipicamente indiane.

Il linguaggio dell’insegnamento theravada

Il pali è la lingua delle scritture theravada. Sembra che, al tempo del Buddha, fosse una sorta di lingua franca nella regione della valle del Gange, un idioma quindi strettamente connesso alla lingua che il Buddha parlava realmente. Il Buddha fu molto chiaro nel sostenere che gli insegnamenti dovevano essere appresi attraverso una lingua comune e trasmessi mediante la ripetizione meccanica, invece che codificati nella “lingua religiosa” sanscrita, escludendo poi che venissero scritti, con il pericolo di diventare esclusiva proprietà dei bramini, gli unici che sapevano il sanscrito.

La lingua pali è come il parente povero del sanscrito, poiché ha una grammatica assai semplificata e non ha un suo alfabeto. Non fu usata come scrittura fino al 73 a.C. a Sri Lanka. In quel periodo infatti vi fu una forte carestia e si pensò che se i monaci e le monache che avevano memorizzato gli Insegnamenti fossero morti, le parole del Buddha sarebbero andate perse per sempre. Da quel tempo in poi il messaggio spirituale fu messo per iscritto, semplicemente usando l’alfabeto del paese in cui il buddismo entrava, o in alcuni casi, creandone uno appositamente. Sebbene i testi pali vengono siano scritti già da lungo tempo, mantengono tuttavia la loro forma ripetitiva – una forma molto utile per l’apprendimento meccanico e la recitazione, ma stancante per il lettore silenzioso. Il Canone è diviso in tre sezioni principali: i discorsi del Buddha (Sutta), la disciplina monastica (Vinaya) e il compendio filosofico/psicologico dell’Abhidhamma.

Le scritture della Scuola settentrionale (generalmente conosciuta come la tradizione Mahayana) furono scritte soprattutto in sanscrito. Sebbene contengano una parte degli insegnamenti del Buddha così come si trovano nei testi pali (conosciuti come Agamas), la maggior parte dei loro discorsi non hanno una controparte in pali. Detto ciò però, anche quei tratti che, ad una prima occhiata, parrebbero specifici della Scuola settentrionale, come ad esempio la Terra Pura, hanno decisamente le loro radici nei testi e nei miti della Scuola meridionale. Gli studiosi e i devoti di entrambe le scuole hanno calorosamente discusso per secoli se quei discorsi fossero stati veramente parole del Buddha e non fossero stati inseriti nel testo pali per una qualche ragione, o se fossero stati composti più tardi. La maggioranza comunque è d’accordo nel sostenere che il testo pali è la redazione più antica e fedele degli Insegnamenti del Buddha.

Degenerazione e rinnovamento

Durante tutto il tempo della diffusione geografica della tradizione theravada, si è sempre sostenuta l’importanza di un continuo riferimento ai modelli originali, agli Insegnamenti originali. Quando essa prese piede in nuovi paesi, ci fu sempre un forte senso di rispetto e devozione per gli Insegnamenti originali, e anche rispetto verso lo stile di vita del Buddha e del Sangha originale, di quei monaci che fin dall’inizio abitarono nelle foreste. Questo era il modello di vita usato allora e perciò fu questo che venne vissuto in seguito.

Naturalmente durante tutti questi secoli, ci sono stati parecchi alti e bassi, ma questo è il modello che è stato portato avanti. Ci furono momenti in cui la religione stava per estinguersi a Sri Lanka e allora venivano monaci dalla Birmania a ravvivarla. Poi stava per scomparire in Thailandia e allora alcuni monaci da Sri Lanka le iniettavano forza per andare avanti, quindi ognuno aiutò l’altro attraverso i secoli. E’ così che è riuscita a mantenersi a galla, in gran parte nella sua forma originale. Quando era al culmine dello sviluppo, diventava ricca, obesa e corrotta, schiacciata dal suo stesso peso, in quel momento un gruppo dissidente decideva di ritornare nella foresta e proponeva “Torniamo al punto di partenza!”, e infatti i monaci ritornavano ai modelli originali mantenendo le regole monastiche, praticando la meditazione e studiando gli Insegnamenti originali.

La Via di Mezzo e le Quattro Nobili Verità

Sebbene in varie tradizioni ci siano numerosi volumi sui discorsi del Buddha, tuttavia si dice che la totalità del suo Insegnamento è contenuta proprio nel primo discorso, che è stato chiamato “La Messa in Moto della Ruota della Verità”, che egli tenne ai suoi cinque compagni monaci nel Parco delle Gazzelle di Benares, poco tempo dopo la sua illuminazione. In questo breve discorso (ci vogliono solo venti minuti per recitarlo) ha esposto la natura di ciò che egli ha chiamato la Via di Mezzo e le Quattro Nobili Verità.

Questo insegnamento, le Quattro Nobili Verità, è comune a tutte le tradizioni buddiste. Come una ghianda contiene in sé la struttura per ciò che nel tempo prenderà la forma di una grande e vetusta quercia, così anche si può far derivare la miriade di insegnamenti buddhisti da questa originale matrice intuitiva, cosa che è stata anche riconosciuta dai Saggi illuminati sia della tradizione meridionale che di quella settentrionale.
Le Quattro Nobili Verità sono formulate come una diagnosi medica della tradizione ayurvedica: a) sintomi della malattia, b) causa, c) prognosi, d) cura. Sembra che questo fosse lo schema usuale. Il Buddha attingeva sempre alle strutture e alle forme familiari alla gente del suo tempo, e fu così che espose le Quattro Nobili Verità.

La Prima Verità (il “sintomo”) è che c’è dukkha, l’esperienza di incompletezza, insoddisfazione o frustrazione, il fatto che non sempre siamo proprio beatamente felici. C’è qualcuno che non è d’accordo su ciò? [risate]. Certe volte siamo perfettamente felici, tutto va bene, ma ci sono anche momenti in cui ci sentiamo vacillare, vero? Se abbiamo l’intuizione di una Realtà Ultima, di una perfezione ultima, allora perché c’è questo dukkha? Eppure c’è.

Certe volte la gente legge questa prima Verità e la fraintende prendendola per un’affermazione assoluta: “La realtà, a qualsiasi livello, è dukkha” – come a dire che l’universo, la vita e ogni cosa sono insoddisfacenti. Questa affermazione viene interpretata come un giudizio di valore assoluto riguardante tutto e tutti, ma non è questo il suo vero significato. Queste sono nobili verità, non verità assolute. Sono ‘nobili’ nel senso che sono verità relative che, una volta comprese, ci conducono alla realizzazione dell’Assoluta o Ultima Realtà. E’ come se dicessimo: “C’è l’esperienza di dukkha c’è l’esperienza dell’insoddisfazione”.

La Seconda Nobile Verità è che la causa di questo dukkha è la bramosia egoica, tanha in pali (trshna in sanscrito), che letteralmente significa ‘sete’. Questa bramosia, questo attaccamento è la causa di dukkha. Può essere bramosia per i piaceri sensuali, bramosia di diventare qualcuno, bramosia di essere, di essere identificato con qualcosa. Oppure può esserci la bramosia di non essere, il desiderio di scomparire, di essere annichilirsi, di farla finita. Ci sono molte, moltissime dimensioni di esso.

La terza Verità è dukkha-nirodha. Nirodha significa ‘cessazione’. Ciò significa che questa esperienza di dukkha, di incompletezza può dissolversi, può essere trascesa. Può finire. In altre parole dukkha non è una realtà assoluta. E’ solo un’esperienza temporanea da cui il cuore si può liberare.

La Quarta Nobile Verità riguarda la Via, cioè come passare dalla Seconda Verità alla Terza, dall’esperienza di dukkha alla sua cessazione. La cura è l’Ottuplice Sentiero composto essenzialmente da virtù, concentrazione e saggezza.

L’Origine dipendente – il codice originario

Quello che ci ha portato a questo ritiro, ciò che ci induce ad usare tutte le nostre vacanze e a spendere un bel po’ di denaro per venire qui a soffrire per 10 giorni è la “Grande D” : Dukkha. Ciò che guardiamo molto da vicino durante la meditazione è il ponte che unisce la Seconda alla Terza Nobile Verità: come sorge la sofferenza, qual è la causa della sofferenza e come possiamo arrivare alla sua cessazione. Il Buddha ha posto un’immensa cura per spiegare questo punto. Ha parlato delle Quattro Nobili Verità in molti discorsi, analizzando in modi assai sottili il rapporto tra la Seconda e la Terza Verità.

Ha usato il termine idapaccayata per definire la “causalità”. Letteralmente la si può all’incirca tradurre con “la condizionalità della relazione tra questo e quello”. Riguarda il modo in cui le cose sono venute in essere – di come una catena di cause porta all’esistenza di dukkha e di come una catena di cause porta alla sua cessazione. Vi è un breve passaggio ripetuto continuamente nei sutta, che trovo molto utile da ricordare:

Quando c’è questo, quello viene ad esistere.
Con il sorgere di questo, quello sorge.
Quando non c’è questo, quello non viene ad esistere.
Con la cessazione di questo, quello cessa. (A.10.92)

Questo è lo schema fondamentale che sta alla base di tutti gli insegnamenti sulla causalità. Analizzando il sorgere di dukkha – da dove viene? – il Buddha indica l’ignoranza. Il Buddha, soprattutto negli Insegnamenti theravada, evita ogni forma di speculazione metafisica. Non è affatto: “all’inizio dell’universo ci fu questo evento, e poi Dio batté le palpebre.

Per questo noi soffriamo.” E nemmeno va visto come un giro di prova. C’è un romanzo di Kurt Vonnegut in cui tutta l’evoluzione umana, il corso della storia umana, tutte le guerre e i regni e le crisi e le glorie, accadono a causa di un alieno, un Tralfamadoriano, che si schianta con la sua navicella spaziale sulla terra e che cerca di inviare un messaggio al suo pianeta di partenza: “Potete inviarmi un nuovo spinterogeno, perché il mio si è danneggiato?”. Tutto il percorso della storia umana è stato determinato solo per avere un modo di spedire quel messaggio attraverso lo spazio.

Certe volte ci viene in mente che ci possa essere questo tipo di logica perversa dietro a ciò che sperimentiamo nella vita, ma il Buddha non entrò nel merito di ciò. Egli volutamente ha evitato di cercare di descrivere qualsiasi inizio assoluto delle cose non perché ignorava come si erano svolti i fatti o perché era del tutto inutile contemplare la natura della vita, ma soprattutto perché la sola speculazione metafisica era insensata e non portava alla liberazione.

Usava l’efficace similitudine della freccia avvelenata per illustrare tale principio: un soldato è stato ferito in battaglia. Un medico militare accorre per aiutarlo, ma il soldato dice: “Non permetterò che il medico mi estragga la freccia fino a quando non riuscirò a sapere se l’uomo che mi ha ferito è un nobile, un bramino, un mercante o un operaio… il nome dell’uomo e il suo ceto…se era alto o basso, biondo o bruno, dove vive, che tipo di arco ha usato, di che legno era fatto l’arco… da che uccello ha preso la piuma, ecc.

“Quell’ uomo non sarebbe stato in grado di sapere tutte quelle cose, poiché nel frattempo sarebbe morto” disse il Buddha (M 63,5). Morale della favola è che la sola saggia e importante cosa da fare è estrarre la freccia e medicare la ferita. Da questo punto di vista egli ha semplicemente detto che la causa centrale del problema è l’ignoranza, il non vedere in modo chiaro. L’intero ciclo inizia proprio dal non vedere chiaramente: siccome non c’è totale consapevolezza, totale presenza mentale, totale adesione alla realtà, perdiamo l’equilibrio.

Questo principio è conosciuto sotto il nome di Origine Dipendente. In un certo senso è il cuore di tutto l’insegnamento, il codice originario per il samsara e il Nibbana (Nirvana in sanscrito). E’ così che il Buddha ha analizzato la natura dell’esperienza nel modo più radicale. Inoltre egli ha affermato che la realizzazione dell’Origine Dipendente è stata la strada verso la sua illuminazione, e ha prescritto di realizzarla a coloro che erano interessati a curarsi la malattia, dukkha.

Quando c’è ignoranza, ogni senso di “soggetto” e “oggetto” si cristallizza si solidifica il senso di questo e quello. Si identifica il “sé” con il corpo, e i sensi e il “mondo esterno” con gli oggetti sensoriali esterni. Poiché c’è un corpo e dei sensi, noi udiamo, pensiamo, odoriamo e così via. Ci sono piacere, dolore o sensazioni neutre, sensazioni di interesse, avversione, eccitazione, qualunque tipo di sensazioni.

All’inizio è solo una sensazione, ma poi da quella sensazione sorge il desiderio. Una sensazione piacevole farà sorgere il desiderio di trattenerla, di conoscerla più da vicino: “Ohibò, che è questo? Che buon odore!”. Questa è una sensazione che si sta tramutando in bramosia. C’è il contatto sensoriale, la sensazione, e da questa sorge poi la bramosia. Se è una cosa dolorosa o spiacevole ci ritiriamo, desideriamo allontanarci da essa. Poi la bramosia porta all’attaccamento, upadana.

Upadana a sua volta porta al “divenire” (bhava in pali). Mi piace vederla come un’onda che sale. La mente si impadronisce di un’esperienza: “Forse giù in cucina hanno bisogno di aiuto. Sì, certamente ne hanno bisogno. Posso sbucciare una castagna o due. Posso veramente essere d’aiuto.” Questo è upadana. Poi bhava ci spinge ad alzarci dal cuscino e a dirigerci verso le scale. Il divenire punta verso l’oggetto del desiderio e agisce di conseguenza. La società consumistica corre senza sosta, sospinta da bhava. Tutta l’industria pubblicitaria e la cultura consumistica hanno come scopo di alimentare bhava: l’eccitazione di un io che sta per ottenere ciò che desidera.

Poi viene jati (“nascita”). La nascita è il momento in cui otteniamo ciò che vogliamo. E’ il momento in cui non si torna più indietro. Bhava è un punto da cui possiamo ancora ritirarci. Potremmo già essere sulle scale e pensare: “Ritorna dentro. Avanti, è a metà di un discorso di Dramma. Questo è veramente troppo!”. C’è ancora il tempo di ripensarci. Ma da jati non si può più tornare indietro. Il dado è tratto, e siamo lì a raccontare la nostra storia al cuoco e ad ottenere ciò che volevamo.

“Certo, puoi essermi di aiuto. Puoi mescolare questo e poi assaggiarlo?”.

Pensiamo “Ahhh, ce l’ho fatta!” Quello è il momento in cui abbiamo ciò che volevamo. Poi, dopo aver ottenuto ciò che volevamo, ne subiamo le conseguenze. Come tutti sappiamo, dopo essere nati, molte cose accadono nella vita. Dopo il momento della nascita si svolge tutto l’arco della vita. Passato l’eccitamento e dopo aver assaggiato tutto quello che abbiamo potuto, l’emozione suscitata comincia a svanire. Sorge un senso di disagio: “Buon Dio, ma che sto facendo? Trascinato in giro dal mio naso! Ma quando imparerò a vincermi?”

Ci assalgono sensazioni di auto critica, di auto disprezzo e delusione: “Dopo tutto non era poi così buono! Dopo tutto… Sono stato lì seduto montandomi la testa per venti minuti, per poi scoprire che hanno messo troppo sale”. Questo viene chiamato soka-parideva-dukkha-domanassupayasa: “dispiacere, lamento, dolore, cordoglio e disperazione”. (Come il nostro caro manager del ritiro ha detto “Queste sono alcune delle cose che preferisco”). Allora cosa succede? Siamo lì, sentendoci quasi scandalizzati, delusi, depressi. E questo è dukkha. Quella lunga parola composta non significa altro che dukkha ci si sente male.

E allora cosa facciamo quando ci sentiamo male? Questo è interessante. Il Buddha ha detto: “Dukkha matura in due modi: continuando il ciclo delle rinascite o dedicandosi alla ricerca”. Nel primo caso ci sentiamo malinconici, infelici e allora pensiamo “Forse hanno bisogno di aiuto per la torta!”.

Se non ne siamo consci, accade che torniamo indietro al momento in cui ci siamo sentiti veramente bene, al punto cioè di bhava-jati quando c’era stato il primo fremito d’eccitazione. Quello era stata l’ultima volta in cui ci eravamo sentiti bene. Perciò torniamo a quel momento e proviamo a sentirci di nuovo bene. E lo facciamo di nuovo e di nuovo e di nuovo…

“Dukkha matura nella ricerca” significa comprendere che “da questa esperienza ci sono già passato 153,485 volte, basta ora basta. Come ne posso uscire? Che posso fare? Che succede? In che modello si inserisce?”. Noi siamo creature piuttosto coriacee – parlo per esperienza personale. Ci prendiamo un sacco di colpi prima di imparare la lezione.

Possiamo essere molto convincenti. Ci montiamo veramente la testa e ci troviamo ogni sorta di scuse. Ma ciò che ci conduce qui a un ritiro è il riconoscimento che cercare di trovare la felicità per mezzo di questo genere di gratificazioni non funziona. E’ questo che intendiamo per “ricerca”, cercare alla radice per trovare come funzionano le cose.

Una lezione da un bigné di cioccolato

Certe volte una lezione ci viene da dove meno ce l’aspettiamo. Mi viene in mente un aneddoto riguardante un episodio che avvenne molti anni fa nel monastero di Chithurst. Un nostro amico novantenne, un guaritore gentile e di provata devozione, Albert Knockles, voleva offrire un pasto all’intera comunità. Al monastero generalmente non si cucina il pomeriggio o la sera, ma tra di noi si era deciso che si doveva preparare quel grande pranzo per Albert. Fu chiesto alle monache di prepararlo (ciò avvenne prima che fossero introdotti i 10 precetti) e che esistessero le monache vestite di marrone, per cui a quei tempi tutte le monache erano vestite di bianco e seguivano gli otto Precetti). Alcune furono contente di cucinare nel pomeriggio, ma alcune si sentirono quasi costrette a farlo.

Si discusse anche se non fosse tutto una gran perdita di tempo, se era giusto che tanta gente mettesse tutta quell’energia nel cucinare, tanto più tenendo presente che ci si aspetta che riflettiamo che “il cibo della questua è solo una medicina per il corpo…”. Altri invece pensavano “Che bello ! Domani gran festa!”. Io ero schierato nel campo precedente, e anzi lo inasprivo pensando “E’ una perdita di tempo completa”.

Man mano che i giorni passavano e si avvicinava quella sera, alcuni monaci cominciarono a sentirsi leggermente agitati uno di essi era il vice-abate. Io passai gran parte della serata in pensieri sprezzanti ed egli passò gran parte della serata con l’acquolina in bocca. Il mattino seguente, dopo i canti del mattino, la meditazione e la riunione di lavoro, egli confessò che non era stato in grado di dormire la notte, perché per tutto il tempo non aveva fatto altro che pregustare il cibo. Quando ammise ciò, il mio livello di disprezzo divenne smisurato “Si suppone che sia un grande monaco, un esempio che ispira, e invece lui… arrrgghhh…”. Ma ormai era lanciato e nessuno lo avrebbe dissuaso dal credere che ciò fosse una cosa buona.

Arrivò l’ora del pranzo: tra le altre cose che le monache avevano preparato vi erano dei bigné, grandi bigné di cioccolato, ripieni di panna montata anche il resto del pasto era favoloso. Io ero pieno di avversione per tutta la situazione. Dopo che il cibo venne offerto, notai che il vice abate tirò fuori il suo bigné dalla ciotola e lo pose sul coperchio poi cominciammo a mangiare.

Dopo alcuni bocconi fui costretto ad ammettere che era tutto delizioso e che forse dopo tutto non era stata una cattiva idea lasciare che si preparasse. Nel frattempo, avevo notato che il vice abate aveva cominciato il pasto proprio con il bigné. Lo prese con grande concentrazione, ne prese due bocconi e lo rimise nel piatto. Poi chiuse gli occhi e rimase così seduto, senza mangiare altro. Pensai: “Ben fatto ha visto la follia della sua avidità, la sua ossessione e ha deciso di rinunciare all’intero pasto veramente bravo, ben fatto, impressionante.”

Arrivati alla fine del pranzo, mentre stavamo lavandoci le ciotole, feci una specie di commento rivolgendomi a lui, sul genere “E’ stato interessante vedere che, dopo tutta quella aspettativa, hai rinunciato a mangiare”.
Rispose: “Stavo per sentirmi male”.
“Perché?”
“Com’era il tuo bigné?”
“Buono”
“Ne ho preso un boccone del mio ed aveva un sapore salatissimo”, disse. “Ho pensato allora che me lo ero sognato, per cui ne ho preso un altro morso, ma aveva lo stesso sapore. Sono rimasto seduto lì per tutto il pasto cercando di non vomitare.”

Le monache avevano finito di cucinare la notte precedente così tanto tardi che alla fine erano così stanche da essersi sbagliate, e avevano messo, nella panna montata dell’ultima infornata, sale invece di zucchero. Inoltre mantenendo gli otto Precetti, non potevano mangiare la sera e perciò erano costrette dalla loro Regola non solo a non consumare il cibo che preparavano ma neanche ad assaggiarlo. Per questo non avevano notato la differenza. Fu lui a ricevere il bigné salato: soka-parideva-dukkha-domanassupayasa, l’insoddisfacente risultato del desiderio. Fu una grande lezione.

Fuga dal ciclo di nascita e morte

Come probabilmente avrete già notato, nella meditazione cominciamo proprio con questo tipo di lezione. La vita ci colpisce in pieno viso e ci dice: “Svegliati”. Oppure cominciamo a notare uno schema ricorrente. Osserviamo noi stessi mentre continuiamo a ripeterlo e pensiamo: “Che sciocco. Ma perché continuo a farlo?!”. Lentamente, continuando a praticare, riusciamo a captare il processo sempre più sul nascere, fino al punto che osservando noi stessi intrappolati, avidi, affannati a trattenere, e sentendone il disagio, impariamo a lasciar andare. Man mano che la consapevolezza si raffina e che sempre più chiaramente l’attenzione segue il flusso dell’esperienza, scopriamo che riusciamo a cogliere il processo proprio nel punto in cui l’avidità si trasforma in attaccamento o in cui la sensazione diventa bramosia. Allora potremo sperimentare una sensazione piacevole senza che si trasformi in bramosia, o avere una sensazione spiacevole senza volgerla in avversione.

Meditando sul disagio fisico, potremo vedere che è possibile avere un dolore nel corpo senza soffrirne. Il dolore è una cosa e la sofferenza che proviamo a causa sua è un’altra. Possiamo rimanercene in pace. C’è quella certa sensazione, ma questa non provoca desiderio o avidità. E’ come se, mangiando un boccone per volta, sperimentassimo che il cibo è delizioso, ma non ci stiamo aggiungendo niente, non ci ossessioniamo per il prossimo boccone. Semplicemente “E’ buono”. Fine della storia. Siamo in grado di aderire all’esperienza perché non ci precipitiamo sulla cosa seguente e non ci formiamo opinioni su di essa. In questo modo lasciamo che il processo fluisca.

Se la presenza mentale è totale, se c’è consapevolezza – una presenza mentale incondizionata – allora il processo di avidità e dukkha non sfocerà nell’azione. Quando non ci sono pause nella consapevolezza, allora la polarità tra il senso di me stesso e dell’altro non sarà più così forte. Quel senso di “me” qui e del “mondo” là fuori, si allenta, non si solidifica. Quindi, quando c’è un suono o una sensazione, un’emozione o un ricordo, una qualsiasi impressione sensoriale o mentale, viene vista per ciò che realmente è. Non le si dà una vita indipendente. E quindi cessa.

Spezzando la catena delle cause nel punto dell’attaccamento o dell’avidità, o quando le sensazioni si trasformano in avidità, o addirittura all’inizio – non permettendo all’ignoranza di sorgere usando la consapevolezza – allora si tolgono di mezzo le cause stesse di dukkha. Se non ci sono le cause, la sofferenza non potrà sorgere. “Quando non c’è questo, anche quello non c’è. Quando questo cessa, anche quello cessa”. E’ questo che noi intendiamo per la fine di nascita e morte, la fine delle rinascite.

L’intero processo dell’Origine Dipendente è conosciuto anche col nome di bhavacakka, ciclo o ruota delle rinascite. Il termine “uscire dalla ruota” o “por fine alla nascita e alla morte” descrive proprio il processo che vi ho appena illustrato. Questo è ciò che principalmente costituisce la pratica nel buddismo theravada: fine della rinascita, non nascere di nuovo. L’aneddoto raccontato prima illustra questo ciclo di rinascite: io, nato nella mia negatività, scopro che non vi era nulla su cui essere negativo. L’altro monaco era nato nel suo bigné di cioccolato. Nasciamo in un un’infinità di cose. Non accade solo nel reparto maternità. La nascita avviene molte, moltissime volte al giorno. Possiamo considerarlo da un punto di vista esteriore, fisico, ma possiamo vedere l’intero processo in continuazione e più direttamente a un livello psicologico. Sovente, quando cantiamo l’insegnamento del Buddha sulla Gentilezza amorevole, la gente lo trova meraviglioso, ma poi arrivano le ultime parole:

Non aggrappandosi a opinioni fisse,
Il puro di cuore, avendo una chiara visione,
Libero da ogni desiderio sensoriale,
Non rinasce in questo mondo. (S. 152)

E’ facile inciampare su queste parole. Non so se qualcuno di voi lo ha fatto. Certamente quelli condizionati dal buddismo della Scuola Settentrionale o dall’ideale del Bodhisattva potrebbero pensare: “Ehi, aspetta un attimo! Che significa non rinascere?”. Anche dal punto di vista della filosofia occidentale, generalmente a favore della vita terrena – soprattutto in America, soprattutto in California – si potrebbe obiettare: “Ehi, non mi dispiace rinascere. Questo mondo va benissimo. Mi piace. Ma insomma che cosa non va in questo mondo?!” L’idea di non rinascere viene sentita come un augurio di morte, come a dire “se solo potessi smettere di esistere. Se potessi essere annientato e non esistere più”. Ma non è così che va compreso.

Sono certo che ognuno di noi in questi ultimi giorni ha avuto almeno un attimo in cui la mente era al massimo della chiarezza si hanno questi “momenti perfetti” quando non nasciamo in niente. La rinascita è finita. La mente è sveglia e c’è pace, chiarezza. Non vi è il senso del sé. Non vi è tempo e spazio: solo “E’”, Così. Tutto va bene. Siamo realmente svegli al massimo, e la vita è al suo apice di perfezione. Il “non nascere”, proprio a livello pratico, di esperienza, non è affatto un’esperienza distruttiva di annichilimento o di mancanza di sensazioni, quasi una anestesia totale. Assomiglia più a uno stato in cui uno si sente completamente sveglio ma anche completamente indefinito. Sente che vi è una consapevolezza che non ha forma né luogo, che non ha niente a che fare col tempo o con l’individuo.

E’ difficile metterlo in parole, ma quando parliamo del “non rinascere” parliamo della persona, dell’individuo, dell’idea di un sé separato che non si cristallizza. Quando cerchiamo di crearci un’idea di ciò che siamo, ci chiediamo: “Ma che cos’è infine una persona? Certamente se non rinasco, dovrò andare in qualche posto o dovrà accadere comunque qualcosa. Ma che cosa?”

Lo scopo

Si narra che un asceta errante di nome Vacchagotta, andò dal Buddha e gli chiese: “Dove vanno gli illuminati quando muoiono?”

Il Buddha disse: “Se stessimo di fronte a un fuoco che brucia e lo lasciassimo estinguere e a quel punto io vi chiedessi: ‘Dove è andato il fuoco, verso nord, sud, est o ovest?’ Cosa mi rispondereste?”. Vacchagotta aggrottò le sopracciglia e disse: “Non va da nessuna parte. Si estingue e basta. La domanda non è pertinente”.

Il Buddha disse: “Infatti è proprio così, Vacchagotta. I termini della domanda presuppongono una realtà che non esiste”. Non possiamo dire che un illuminato vada in qualche posto. Lo stato di un essere illuminato al momento in cui il suo corpo si disintegra è indescrivibile. (M.72.16-20). C’è anche un altro dialogo che il Buddha ebbe con un asceta itinerante, di nome Upasiva, riportato nel Sutta Nipata, in La via verso l’Aldilà. Upasiva aveva posto al Buddha una domanda simile a Vacchagotta, e il Buddha risponde:

“Come una fiamma colpita da un’improvvisa folata di vento,
si spegne in un attimo,
e non se ne sa più nulla.
Così avviene per il saggio
liberato dal corpo e dalla mente –
in un attimo essi se ne sono andati,
e non se ne sa più nulla
nessuna definizione li riguarda più”.
“Per favore spiegamelo chiaramente, Signore”, disse Upasiva,
perché è uno stato che tu hai conosciuto:
uno che ha raggiunto la fine –
non esiste più
o diventa immortale, perfettamente libero?”
“Uno che ha raggiunto la fine
non ha un criterio
su cui si possa misurarlo.
La ragione per cui si poteva parlare di lui
non sussiste più.
Non puoi dire ‘Non esiste’,
quando tutti i modi di essere,
quando tutti i fenomeni sono rimossi,
anche tutti i mezzi per descriverli
non ci sono più” (S.N. 1074-6)

E questo ci porta allo Scopo. Nella tradizione theravada lo scopo della vita spirituale è la realizzazione del Nibbana. Esso ha una qualità imperscrutabile. Frustra ogni tentativo della mente razionale, ma mi sembra che sia importante avere almeno un’indicazione di ciò a cui si riferisce – risvegliare la nostra intuizione sulla Realtà Ultima. E’ anche importante sapere che il Buddha non ha detto che questa Meta può essere raggiunta solo dopo la morte del corpo.

Vi è un principio di cui il Buddha ha parlato, conosciuto come “l’inafferrabilità dell’illuminato”. Il giovane monaco Anuradha era stato provocato da alcuni bramini che gli avevano chiesto “Cosa capita a un illuminato quando muore?”. Egli replicò “Il Buddha non risponde a queste domande”. “Tu devi essere uno che è veramente molto stupido, o un novellino alla vita monastica che hai scelto, sennò ci avresti dato una risposta esauriente”.

Più tardi Anuradha ripete questa discussione al Buddha e gli chiede: Ho risposto bene o ho risposto male?”

Il Buddha disse: “Hai risposto bene, Anuradha” e poi continuò ad istruirlo più approfonditamente:

“Anuradha, ti sembra che il Tathagata sia i cinque khandha [corpo, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza discriminativa]?”
“No, venerabile signore”
“Ti sembra che il Tathagata abbia i cinque khandha?”
“No, venerabile signore”
“Ti sembra che il Tathagata non abbia i cinque khandha?”
“No, venerabile signore”
“Ti sembra che il Tathagata sia nei cinque khandha?”
“No, venerabile signore”
“Ti sembra che il Tathagata sia separato dai cinque khandha?”
“No, venerabile signore”
“E’ proprio così, Anarudha. Perciò se il Tathagata è inafferrabile qui e ora mentre il suo corpo è ancora vivo, tanto più lo sarà alla disintegrazione del corpo dopo la morte. Ciò che io insegno, Anuradha, sia prima che dopo, è dukkha e la fine di dukkha” (S. 44.2).

Il Buddha, nella tradizione theravada, è sempre restio a creare una descrizione metafisica del Nibbana, dell’Aldilà, della Realtà Ultima. Al contrario, egli riporta sempre l’attenzione sul punto principale: “Se c’è sofferenza significa che vi è attaccamento a qualcosa. Si è creata un’identità”. Questo è tutto ciò che dobbiamo conoscere. Il resto è panna montata. In continuazione la gente poneva al Buddha questo tipo di domande filosofiche astruse, e in continuazione egli le riportava allo stesso punto: “Io insegno solo dukkha e la fine di dukkha”.

Non è questione di creare un modello filosofico perfetto (per poi perdersi in esso) ma piuttosto di osservare come ci sentiamo ora, che cosa sta accadendo nel cuore proprio ora. Man mano che osserviamo, man mano che vediamo come si crea dukkha, risaliamo alle cause. Comprendiamo che vi è dell’attaccamento che l’attaccamento è venuto dall’avidità che l’avidità è venuta dalle sensazioni e che la sensazione è venuta dal contatto. Infine comprendiamo “Aha! E’ stato quel pensiero che ha messo in moto tutto questo!”. Lo vediamo e lo lasciamo andare. Questo è dukkha-nirodha, la fine della sofferenza. La fine della sofferenza non è un qualche tipo di Armageddon, una salvezza cosmica alla fine del tempo. La fine della sofferenza avviene esattamente nel luogo in cui è stata generata. Quando risaliamo alla sorgente di un certo evento doloroso, quando vediamo da dove è nato e lo lasciamo andare, allora non vi è più sofferenza. Vi offro ciò affinché ci riflettiate sopra, un banchetto serale di Dhamma.

M = Majjhima Nikaya
S. = Samyutta Nikaya
A. = Anguttara Nikaya
S.N. = Sutta Nipata

Ajahn Amaro

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