Iran, le nuove sementi nascono senza multinazionali

Iran, le nuove sementi nascono senza multinazionali

SEEDversityGrazie agli agronomi italiani la mezzaluna fertile dove ha avuto origine l’agricoltura è diventata un laboratorio a cielo aperto per creare sementi più robuste direttamente in campo e senza ogm

“Eravamo sempre più economicamente dipendenti dal governo e la nostra terra diventava meno fertile anno dopo anno”. Ahmed Taheri fa l’agricoltore da più di trent’anni a Garmsar, in Iran. Da quasi dieci anni è diventato un vero e proprio innovatore, un leader locale che ha messo insieme una comunità e cercato una nuova strada per prodursi in autonomia le sementi per i propri campi, per sviluppare nuove varietà di piante adatte al clima locale e una filiera agricola a maggior valore aggiunto.

Un bell’esempio dell’approccio partecipativo che abbiamo raccontato nel webdoc Seedversity realizzato grazie al sostegno dello European Journalism Fund.

Siamo nella provincia di Semnan, qualche centinaio di chilometri Est di Teheran e nel mezzo di quel territorio dove l’agricoltura stessa è nata diecimila anni fa, nella cosiddetta mezzaluna fertile. Mentre ci addentriamo nei campi di grano vicino alla statale, Taheri ci racconta che di queste parti è anche l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad che ha contribuito in modo determinante alla reputazione difficile dell’Iran in Occidente e al suo isolamento internazionale.

Quelli di Taheri sono diversi dai campi di grano che si incontrano nelle grandi aziende europee o americane. Non si tratta solamente dell’estensione limitata di un’agricoltura familiare: è la varietà di piante diverse per forma e colore che colpisce. Come gli agricoltori che lo hanno seguito, Taheri sta producendo continuamente nuove varietà di cereali che sperimenta piantandole in una piccola zona della sua terra. Cenesta, un’ONG di Teheran che si occupa proprio di sviluppo agricolo, li sostiene con i propri agronomi. Ma c’è anche lo zampino di un italiano ben noto a livello internazionale per le sue campagne in difesa dell’autonomia e dell’emancipazione delle comunità contadine dalle grandi aziende sementiere, Salvatore Ceccarelli. “Il mercato mondiale del seme è attualmente nelle mani di 10 grosse ditte”, ci racconta nel mezzo di una giornata di formazione per agricoltori sulle colline pisane, “che ne controllano circa il 75%”. Il che significa il 75% di un mercato che vale miliardi a livello globale.

La grande idea di Ceccarelli, messa a punto una quindicina di anni fa e ormai diffusa in molti paesi del Sud ma anche in Italia e in Francia, si chiama miglioramento genetico partecipativo. Un modo forse un po’ involuto per definire una pratica molto semplice e diretta: la selezione delle varietà, pure o miste, che devono essere coltivate nei diversi territori deve nascere dalla collaborazione, in ogni fase del processo, tra agronomi, genetisti e contadini. “Questo”, dice indicando una delle parcelle sperimentali dove la sua idea è stata messa in pratica, “significa non dover più andare al mercato a comperare il seme”, rendendosi almeno un po’ più padroni del proprio destino. Secondo Ceccarelli e chi la pensa come lui, gente che lavora a tutte le latitudini e in tutti i climi, si può ripartire dalle sementi locali conservate perlopiù in banche e collezioni di germoplasma sparse ai quattro angoli del mondo, create e accresciute negli ultimi decenni. O andando a cercare quelle piccole colture marginali che sono rimaste in campo in qualche vecchia azienda.

Salvatore Ceccarelli, l’agronomo che ha ideato il PPB

I semi delle varietà commerciali devono seguire i dettami della legge sementiera europea in vigore, usata da modello per leggi simili in altre parti del mondo: le sementi devono essere certificate, iscritte a registro e vendute esclusivamente dalle aziende sementiere. Il che vieta la riproduzione a scopo commerciale per i contadini. I semi tradizionali delle cosiddette varietà da conservazione, però, riescono a sfuggire a questi vincoli. Sono le varietà antiche, spesso locali, che vengono considerate un patrimonio pubblico, collettivo, mantenuto appunto nelle banche presso istituti di ricerca o collezioni territoriali. E sono accessibili. Quindi da qui, Ceccarelli e gli altri innovatori sparsi per il mondo sono partiti, riutilizzando, moltiplicando e conservando in campo queste sementi, alla ricerca di nuovi incroci e nuove varietà che soddisfino sia l’agronomo che chi le coltiva.

Tra i primi progetti, ci sono sicuramente quelli di Ahmed Taheri e delle altre comunità di contadini iraniani, stanchi delle basse rese e della scarsa qualità delle sementi fornite, nel loro caso, dal governo. Ma oggi la mappa dei progetti di PPB, questa la sigla inglese usata per indicare il miglioramento genetico partecipativo, è molto più ampia.

Quali sono i vantaggi del miglioramento partecipativo e perché si sta dimostrando una scelta adatta soprattutto in tutte le situazioni di agricoltura marginale, a basso input, nelle zone dove la produzione non è intensiva né segue i parametri dell’agro-industria? I primi studi sul PPB dimostrano che il tempo di produzione di nuove varietà, partendo da semi tradizionali selezionati direttamente in campo danno risultati più velocemente rispetto alla procedura tipica dei laboratori delle ditte sementiere.

Nei paesi del Sud, come il Senegal e l’Etiopia che abbiamo attraversato per SEEDversity il webdoc pubblicato da Wired in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione 2014 ci sono spesso anche altri vantaggi: le varietà tradizionali hanno colori, sapori e odori che sono più graditi alle comunità locali rispetto a varietà di importazione. Queste ultime magari piacciono in un primo momento perché considerate più moderne ma poi deludono perché non sono adatte alle preparazioni alimentari tradizionali o perché richiedono tecniche e supporti costosi e poco disponibili in paesi a basso reddito.

SEEDversity, il primo webdoc di Wired

Un altro vantaggio è quello di poter ottenere prodotti diversi da una stessa pianta: la farina dalla molitura dei chicchi, il mangime dalla paglia e dagli scarti, prodotti fermentati, etc. Un dato fondamentale in una agricoltura fatta al 90% da piccole unità produttive di taglia familiare, come dice il recente rapporto FAO The state of food and agriculture 2014 pubblicato nell’anno del family farming, che sottolinea pure come questi piccoli agricoltori siano però anche quelli che producono l’80% del cibo al mondo. Le grandi aziende agricole occidentali pesano dunque assai poco nel bilancio complessivo della sussistenza agricola.

E infine c’è la libertà. Perché i contadini si producono da soli i semi come fanno da sempre tornando a essere padroni della propria sicurezza alimentare. E andando anche un passo oltre. “Il nostro obiettivo è e deve essere la sovranità alimentare”, ci ha dichiarato Omer Agoligan, agricoltore del Benin e presidente di una associazione che si occupa di produzione sostenibile. Lo abbiamo incontrato a Djimini, in Senegal, durante la Fiera dei semi raccontata nel reportage sull’Africa Occidentale di SEEDversity. In maniera più diretta, lo ha sottolineato anche Aliou Ndiaye, il coordinatore dell’Organizzazione rurale dell’Africa Occidentale: “Un contadino senza sementi è un contadino povero”. E con lui sono d’accordo anche i francesi, come Bernard Lassaigne, Armand Duteil e Jean-Francois Berthellot, e gli italiani Rosario Floriddia e Giuseppe Li Rosi, agricoltori della Rete semi rurali che si sono impegnati, in questi anni, a recuperare varietà tradizionali di mais e di grano antico.

E lo ha ribadito convinto Ahmed Taheri. Essere indipendenti, affidarsi a varietà migliorate in campo selezionate proprio per rendere al meglio nel clima arido della provincia di Semnan, moltiplicare e conservare in loco il seme: tutti fattori che offrono una possibilità di crescita economica per un contadino come lui. È un’innovazione vicina alla cultura rurale, sostenibile, a low input, capace di conferire resilienza alle produzioni. Ma soprattutto, è un’innovazione facilmente accessibile a chi costituisce la chiave della sicurezza alimentare di gran parte del pianeta: i piccoli agricoltori e le loro famiglie.

Marco Boscolo e Elisabetta Tola

Crediti immagine: shutterstock

wired.it