Missione Uomo – La porta stretta dell’Apocalisse di Giovanni

Bessarabia. XVIII sec. La pecora smarrita

Una cosa nuova mai posta sul conto dell’Apocalisse di Giovanni evangelista, una “porta stretta” che si lega alla nota parabola della “Pecora smarrita di Gesù” raccontata nel Vangelo secondo Matteo (18,12-14) e nel Vangelo secondo Luca (15,3-7).

Leggiamo la parabola di Luca per intravedervi il nesso in questione:

«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.»

A prima vista è arduo capire dove e come trovare il supposto nesso sulla “porta stretta” nel libro dell’Apocalisse in questione, anche se dal punto di vista della catechesi evangelica è ben chiaro l’insegnamento ivi riposto.

Sul conto dell’Apocalisse giovannea, cominciamo col dire, che il fatto di definirla “stretta”, al punto da non riuscire a rintracciarla, è perché non si medita che attraverso di essa deve poter entrare il male e uscire puro e immacolato, il bene, e andiamo oltre.

Ora facciamo riflessioni sull’immagine sopra esposta dove si vede il Buon Pastore, nelle vesti del Signore Gesù, che porta sulle spalle, con sé pieno di gioia, la  ritrovata pecora smarrita del suo gregge, e poi ritorna là dove era partito. Ma per far questo, egli si è dovuto recare in un luogo impervio in cui ha trovato la sua pecora che conviveva con altre bestie poco rassicuranti. Non è stato facile per lui strapparla da quel luogo, ma, se dapprima la sua pecora era ostile a seguirlo, poi di buon grado si è lasciata prendere per far poi rientro al lontano gregge.

Si è capito ora perché la “porta”, in questione, cioè il varco che separa le bestie estranee a quel provvido pastore, da quelle del suo gregge, è stato definito “stretto”. Non perché era fisicamente “stretto”, ma perché in questo varco è avvenuto tutto il processo di “trasformazione” (di “trasmutazione” se si valutano le stesse cose in termini alchemici) del “malsano” della “pecora smarrita” in un corrispondente relativo “buono”. Si capisce che, con la “pecora smarrita”, si parla in modo traslato dell’uomo. Ma non basta, perché vi è dovuto corrispondere un sacrificio da parte di quel Pastore nel mettere da parte la sua dignità per avere a che fare con delle bestie del male onde recuperare la sua pecora. Egli, che in realtà è il Signore Gesù, ha dovuto introdurre nella “pecora smarrita” (l’uomo peccatore) la “vita” per bilanciare la “morte” causata dal fatto di aver fatto lega col malsano dell’ambiente in cui si è trovata.

La bestia di terra dell’Apocalisse di Giovanni

Ecco ho detto quanto basta per far trapelare nella “pecora smarrita” la famosa «bestia di terra» dell’Apocalisse di Giovanni (Ap 13,11). Poi sarà ripreso questo tema, e cominciamo coll’esaminare l’Apocalisse di Giovanni come ci appare nel suo insieme.

La bestia di terra dell'Apocalisse di Giovanni
Signorelli. Duomo di Orvieto. Cappella San Brizio. Particolare Predica e fatti dell’Anticristo

In questo libro sacro, presente e futuro sono come uniti fra loro, e anche se è tutto scritto al futuro, il suo scopo è verosimilmente rivolto al presente, cioè si parla del futuro per parlare del presente. E poi occorre chiedersi che senso ha una così lunga e complicata disamina escatologica come questa del libro dell’Apocalisse in esame, tutta orientata su un percorso che ci presenta una serie di fatti sulla presunta fine del nostro mondo, quando la stessa cosa è annunciata nella sua cruenta catastroficità dall’apostolo Matteo nel suo Vangelo 24,1-48?

Notare che, se il libro dell’Apocalisse è stato suggerito a Giovanni da un angelo su incarico di Gesù (come di un passamano), il Vangelo di Matteo è stato invece suggerito direttamente da Gesù.

C’è una significativa differenza per far capire il vero scopo dei due annunci, non sembra? Il primo è come visto da lontano dall’avvenire, mentre il secondo è quanto avverrà alla fine dei tempi. Ma sondiamo alcuni particolari per capire meglio.

Il Vangelo di Matteo non indica date o periodi precisi circa la fine del mondo, anzi dice che il “giorno” e l’“ora” della fine sono conosciuti solo dal Padre, ma è prudente che l’uomo non lo sappia, sembra di capire implicitamente. Importa contare sul ritorno definitivo e glorioso di Cristo che dice rincuorandoci:

«Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, …» (At 1, 7-8).

Allora non resta che ipotizzare una duplice ragione di fondo dello scopo dell’Apocalisse giovannea.

La prima ragione è che essa profetizzi “anche” la fine del mondo in cui viviamo, come tutte le cose che hanno una fine, a cominciare della nostra vita. Tuttavia non è questo lo scopo primario.

Se si riflette sul fatto che in realtà ogni essere vivente vive anche in un mondo a se, cioè nella sua interiorità, la cui sede è la mente-terra con una propria popolazione – mettiamo – di esseri-pensiero, allora è qui che trova spiegazione e scopo la seconda ragione di fondo dell’Apocalisse.

Di conseguenza ha senso concepire l’idea che possa far da ammaestramento ogni cosa detta in seno ad essa, come se fosse un percorso spirituale da porre in atto per sollecitare energicamente tutti gli uomini a vivere come se in ogni giorno della loro vita terrena dovessero essere giudicati.

Ma c’è di più da capire.

Riflettiamo bene su ciò che dice Giovanni nella conclusione del libro dell’Apocalisse, cioè:

<Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro». Sono io che ho visto e udito queste cose.>. (Ap 22,6-8)

Cosa viene da dire in conseguenza?

Si deve credere che Gesù si sia dato pena di incaricare un angelo per mostrare a Giovanni le suddette parole  «certe e veraci», per il diletto di molti studiosi presi a svelarle, fra i quali in gran parte curiosi presi solo per l’esclusivo gioco d’indovini per poi vantarsene e dire a tutti, “guardate come sono stato bravo”? Perché così sembra che siano tutti i dialoghi in merito pubblicati, per esempio, sul web, sul tema in discussione. Ed è davvero penoso tutto questo, una insana follia e stoltezza che degrada l’uomo anziché elevarlo: tante occasioni perse!

Si nota che nella suddetta conclusione dell’Apocalisse, Giovanni dice fra l’altro

«… ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto»?

Che vuol significare?

Vuol significare forse che la fine del mondo in cui Gesù verrà è così immediata come vogliono far credere le parole «tra breve» e «presto»?

Ma invece, così non è affatto poiché da quando è stata messa per iscritto tutta la frase relativa, sono trascorsi ben più di 2000 anni e non è accaduto nulla di catastrofico nel frattempo per la nostra Terra!

E allora che bisogno c’era di dirla in tal modo?

Poteva dire – mettiamo – «… ciò che dovrà accadere. Ecco, io verrò quel giorno.», alludendo ad un certo indefinibile futuro escatologico.

Invece Gesù dice categoricamente di seguito alla frase in questione:

«Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati quelli che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, gli omicidi, gli idolatri e chiuque ama e pratica la menzogna!» (Ap 22,12-15).

Dunque non resta che convincerci che si tratta di un continuo venire nel tempo di Gesù, da quel giorno in cui fu scritto e diffuso il libro dell’Apocalisse, ad oggi e fino ad un certo lontano domani indefinibile. (Ap 22,12-15)

Detto questo, resta allora da capire come affrontare le astruse frasi espresse nel libro dell’Apocalisse, convinti che siano istruzioni per istradare l’uomo verso un percorso spirituale e siano così «Beati quelli che lavano le loro vesti» (Ap 22,14), come raccomanda Gesù.

Ma sarà Gesù stesso che opera questo intervento spirituale, e lo dice chiaramente tramite gli Atti degli Apostoli:

«riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8).

Si capisce così, ancora meglio, che l’ammaestramento di ogni catecumeno (per usare un vecchio termine dei primi cristiani) comporta diventare come nuovi apostoli di Gesù.

Ed ora si ha modo di capire un primo punto chiave nell’impatto con il testo dell’Apocalisse, nel tentare di farvi altra luce e così instradare il catecumeno che ha “sentito” il richiamo di Gesù, per istruirlo attraverso di esso. Ma al primo impatto si resta perplessi.

Si parla di una «bestia di terra che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago.» (Ap 13,11), ma che di lì come a inscenare tre fasi operative, nel giro di «un ora» (Ap 17,12), «tre giorni e mezzo» (Ap 11,11) o «un po’ di tempo» (Ap 20,3), diventa l’«Agnello» cioè come chi sta in mezzo al «trono del Dio vivente» (Ap 5-6). Come a imitare un “modello” di Agnello divino. In un certo senso, memori di ciò che è stato detto all’inizio con la parabola evangelica della pecora smarrita, si è preparati per capire che è da qui si dispone tutto il piano salvifico dell’uomo preso al laccio dal male che la “bestia” in questione rappresenta.

Cioè che è la “bestia” in questione, che spadroneggia nella nostra mente, e a causa di questo stato spregevole viene detto dall’angelo a Giovanni «Beati quelli che lavano le loro vesti», cioè di “lavare le sue spoglie grossolane e moleste”.

Ma riprendendo la fugace allusione all’Alchimia fatta in precedenza, in relazione al processo di “trasformazione” della bestia-agnello in Agnello di Dio, ho inteso definire fra parentesi col termine “trasmutazione”, con il “lavare le sue spoglie”, che è ciò che si attua nella cosiddetta Opera al Nero (Nigredo).

Ma riprendiamo il tema della parabola della pecora smarrita di Gesù raccontata nel Vangelo secondo Matteo (18,12-14) e nel Vangelo secondo Luca (15,3-7), e rileggiamo quella di Luca, cosa già fatta all’inizio:

«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.»

“Pecora” o “agnello” sono simboli che si equivalgono e allora un “agnello” che si “smarrisce” nel mondo delle bestie malvagie e aggressive non può che essere descritto come dice Giovanni nell’Apocalisse:

«Vidi poi salire dalla terra un’altra bestia, che aveva due corna simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago.».

Dunque c’è da chiedersi perché con la parabola della “pecora smarrita” Gesù dice fra l’altro «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito»?

La spiegazione è chiaramente palese riflettendo sulla differenza della “pecora smarrita” rispetto alle 99 del gregge, che è: « parlava come un drago».

Ma cosa poteva comportare questa differenza?

Il drago è la “bestia”, cioè l’antico angelo serafino fulgente, Lucifero il primo davanti a Dio, il portatore di luce.

E allora la “pecora o agnello smarrito”, avendo praticato inevitabilmente l’arte del drago, cioè si è impregnato della sua “luce”, quando era nel suo ambiente, aveva accettato in sé un frammento della stella fulgente sulla fronte dell’angelo Lucifero decaduto e precipitato nell’inferno. È una stella che apparteneva al cielo ed è qui che deve far ritorno. Ma di questa stella se ne parla chiaramente nell’Apocalisse in studio, definendola «marchio» quando viene detto:

«Faceva sì che tutti piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e nessuno poteva comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.». (Ap 13,16-18)

Ed ecco che si spiega la frase «ci sarà più gioia in cielo», come viene detto con la suddetta parabola, perché risplenderà, tramite la “pecora” ritrovata in seno al “gregge” un frammento della stella del primo angelo della creazione Lucifero poi andato in perdizione.

L’apocatastasi

E qui si apre uno squarcio che rivoluziona il mondo cattolico perché riapre l’antica e dibattuta questione ritenuta eretica dell’Apocatastasi.

Apocatastasi è un termine dai molteplici significati a seconda degli ambiti (principalmente religiosi e filosofici) in cui è usato. Letteralmente significa “ritorno allo stato originario”, “reintegrazione”.

Nello stoicismo, che trae l’ipotesi dalla fisica di Eraclito, l’apocatastasi indica il “ristabilimento” dell’universo nel suo stato originario, e si collega alla dottrina dell’eterno ritorno: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo, avverrà una grande conflagrazione, e il tempo e il mondo ricominceranno un nuovo ciclo.

Secondo alcuni stoici tale ciclo sarà identico al precedente, secondo altri non necessariamente uguale.

Nel neoplatonismo con apocatastasi si indica il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intera realtà proviene, un ritorno possibile tramite l’ascesi filosofica.

Nel Cristianesimo, il concetto di apocatastasi è presente in un unico versetto della Bibbia, Atti degli Apostoli 3, 21

«Egli dev’esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione (apokatastàseos) di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti.»

Anche se permangono alcune incertezze, nel cristianesimo dei primi secoli il principale sostenitore dell’apocatastasi è considerato Origene di Alessandria.

Secondo Origene, alla fine dei tempi avverrà la redenzione universale e tutte le creature saranno reintegrate nella pienezza del divino, compresi Satana e la morte: in tal senso, dunque, le pene infernali, per quanto lunghe, avrebbero un carattere non definitivo ma purificatorio. I dannati esistono, ma non per sempre, poiché il disegno salvifico non si può compiere se manca una sola creatura: “Noi pensiamo che la bontà di Dio, attraverso la mediazione di Cristo, porterà tutte le creature ad una stessa fine” (De principiis, I, IV, 1-3)

L’apocatastasi di papa Francesco e papa Benedetto XVI

Ma a fronte alle mie argomentazioni che fa riemergere la concezione dell’Apocastasi, in questi ultimi tempi qualcosa di analogo sembra serpeggiare nell’attuale pontificato vaticanense di papa Francesco, in accordo al precedente papa vivente Benedetto XVI.

Mi lego ad un articolo pubblicato   su Libero Quotidiano.it il 16 maggio 2020: “Qualcuno sta manipolando Ratzinger?”

L’autore Andrea Cionci così introduce questo suo articolo:

«Colpisce notare come il 93enne papa emerito Benedetto XVI, negli ultimi tempi, stia compiendo insolite virate tanto da sollevare, fra alcuni osservatori cattolici, perfino dubbi sull’autenticità dei suoi scritti più recenti. (E il fatto che Ratzinger non compaia in pubblico, ormai, da diversi mesi, di certo non aiuta).»

E poi giungendo al punto saliente:

«… “Tutti devono sapere – scrive – che la misericordia di Dio alla fine si rivelerà più forte della nostra debolezza”.

Come mai nessun accenno al fondamentale presupposto del pentimento? Da quando in qua, Benedetto XVI si è convertito al “misericordismo senza se e senza ma”? Tra l’altro, sul ravvedimento dal peccato insisteva moltissimo anche Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Dives in Misericordia” la cui visione è poi confluita nel Catechismo: “È il sacramento della PENITENZA – scriveva Wojtyla – che appiana la strada ad ognuno, perfino quando è gravato di grandi colpe. In questo sacramento ogni uomo può sperimentare in modo singolare la misericordia, cioè quell’amore che è più potente del peccato”.

Insomma, il papa regnante dice una cosa e il Catechismo ne dice un’altra, mentre il papa emerito fa la spola fra i due. Non si capisce più niente, ma i credenti hanno DIRITTO a risposte chiare, unanimi e inequivocabili su questioni di base: che ruolo effettivo avrebbe dunque la Misericordia divina? E’ indispensabile pentirsi per beneficiarne? La misericordia si può spingere fino a riconciliare forzatamente con Dio un’anima impenitente? L’Inferno esiste o no? E’ eterno oppure no? Ci sono anime dannate? Soffriranno in eterno? Il catechismo è da prendere come riferimento assoluto dai cattolici oppure è un “consiglio”? […]

Molti cattolici non sanno più che pensare e cominciano a sentirsi presi per i fondelli, anche perché tra la prospettiva di una dannazione eterna e garantita per chi muore in peccato mortale (Wojtyla) e quella di un “condono” finale, tramite una sorta di misericordia “smacchia-tutto” (Bergoglio), ce ne corre. E tale diversità di impostazione può far cambiare radicalmente i comportamenti dei fedeli e il loro senso di responsabilità.»

Missione uomo

A questo punto si fa strada una meravigliosa prospettiva e verità sul reale scopo e ruolo della creazione dell’uomo, cosa che emerge dall’attenta riflessione sulla guerra nei cieli di cui si parla nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-9:

«Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.»

Pieter Bruegel – La caduta degli angeli ribelli

La domanda che ora mi pongo è questa:

Cosa sarebbe avvenuto se non ci fosse stata la creazione dell’uomo in relazione alla caduta del «grande drago, il serpente antico»? L’unica risposta è che non ci sarebbe stata eternamente la sua “reintegrazione” che invece è stata possibile con l’intervento dell’uomo, tutto racchiuso nell’evangelica parabola della “Pecora Smarrita”.

Ma il fatto fondamentale che vi sta dietro è che, con la caduta di Lucifero e i suoi angeli, il mondo divino aveva perso il “gioiello”, e dunque il “tesoro” che egli portava con sé, la gemma splendente che lo illuminava. E c’è di più perché Lucifero, e Ahrimane, altro demone di natura malvagia noto come Mefistofele, strappando “pezzi” dal regno umano allo scopo di deviare del tutto la sua normale evoluzione secondo le intenzioni divine, costituiscono al posto dell’evoluzione terrestre una propria sfera evolutiva. Secondo il filosofo austriaco Rudolf Steiner, mentre Lucifero opera occultando nell’uomo le sue facoltà spirituali interiori che gli consentirebbero di prendere coscienza delle proprie essenze animiche, Ahrimane agisce sulle sue percezioni esteriori nascondendogli le forze spirituali responsabili dei fenomeni naturali di cui l’uomo in origine aveva chiara cognizione.[1]

Questa grave contesa del regno umano da parte di Lucifero e Ahrimane da un lato, e dall’altro del mondo Divino, per conseguenza ha determinato una provvidenziale situazione per permettere il “recupero” genetico dei valori spirituali preziosi posseduti sia da Lucifero che da Ahrimane attraverso gli stessi uomini. Ed è stata l’incarnazione del Cristo, nella figura terrena di Gesù nato in Palestina, a permettere agli uomini di liberare le loro anime dal peccato originale che permise al serpente, a satana, di attrarre a sé l’uomo, come risulta dalla Bibbia. Nondimeno, se attraverso l’anima l’uomo può sentirsi libero (a patto di una retta vita), come essere mentale-corporeo è sempre soggetto al serpente, cioè a satana, ovvero a quei due Lucifero e Ahrimane in particolare.

Rammento il noto versetto (Ap 13,16-18) dell’Apocalisse di Giovanni che lo attesta:

«Faceva sì che tutti piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e nessuno poteva comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.».

Il geocentrismo

Mappa della terra geocentrica. – TELESCOPI & RIVOLUZIONI

In conseguenza di tutto ciò che si è argomentato sin qui, si potrebbe aggiungere che la venuta del Cristo, se da un lato è servita per fornire all’uomo certe “ali” per svincolarsi dall’attrazione del maligno, dall’altro lato ha permesso di ricostituire il mondo divino similmente com’era al principio secondo il concetto dell’Apocatastasi.

E se si correla l’uomo al pianeta Terra si riafferma l’antico concetto tolemaico del geocentrismo, non senza legarsi alla «bestia di terra» dell’Apocalisse di Giovanni, quando viene detto al versetto Ap 13,18, «Qui sta la sapienza» il giusto contrappeso alla  «saggezza» del versetto Ap 17,9, «Qui ci vuole una mente che abbia saggezza.» per una bilancia in pari. E ricollegandoci all’inizio di questo saggio, ecco dimostrato il teorema sull’evangelica “porta stretta” in cui il “male” che si entra equivale al “bene ” che vi esce.

Gaetano Barbella

[1]«Lucifero nascondeva agli uomini quella parte del mondo spirituale che era penetrata nel corpo astrale umano senza la cooperazione di esso. […] Arimane ha nascosto tutta quella parte del mondo spirituale che si sarebbe palesata dietro alle percezioni fisico-sensibili, se verso la metà dell’epoca atlantica il suo intervento non si fosse verificato» (Rudolf Steiner, La scienza occulta nelle sue linee generali, pp. 128-129, trad. di E. De Renzis ed E. Battaglini, Bari, Laterza, 1947).