L’anello mancante

Siamo soli nell’Universo? Difficile dirlo e poi sarebbe davvero rassicurante darsi una o l’altra risposta? Cosa sarebbe più inquietante: sapere di essere davvero soli tra milioni di galassie o essere certi dell’esistenza di nostri fratelli sparsi nel cosmo?

Quando si parla di vita extraterrestre, in genere ci si divide in due partiti: chi la esclude categoricamente e chi è sicuro della sua esistenza. Il dibattito è viziato prima di tutto da un’idea di sviluppo della vita sul nostro pianeta che in realtà, anche per molti scienziati, presenta ormai molti buchi neri. Senza considerare che, abbandonando quel velo di presunzione, dovremmo accettare il fatto di non sapere nulla di cosa sia potuto accadere precisamente in miliardi di altre galassie nel corso di miliardi di anni.

La scienza e la tecnologia da sole non bastano mai. A cosa ci hanno portato? Il progresso ci ha consegnato lavori alienanti, vacanze frenetiche e ci ha lasciato un grande vuoto dentro. La cosa di cui tutti noi siamo più affamati è il significato della vita ed è proprio quello che la scienza non ha saputo fornire. Solo in parte le religioni hanno saputo riempire tale vuoto e così tutti noi continuiamo a ricercare un ‘senso’ per il nostro esistere. Non voglio dire che questo ‘senso’ debba essere necessariamente una verità. Possiamo anche solo immaginarlo ma vogliamo che qualcuno accenda la stanza buia dove sogni, speranze e verità si confondono.

Queste implicazioni, queste riflessioni sono al centro della storia che ho voluto raccontare. Una storia dove verità e finzione si mescolano continuamente.

Una storia che trae ispirazione da una scoperta reale, avvenuta nel 1979 in Molise.

Nelle immediate vicinanze del centro abitato di Isernia, venne alla luce, casualmente, quello che può essere definito il ritrovamento paleontologico più antico d’Europa. Un mattatoio a cielo aperto. I reperti ritrovati constavano, infatti, principalmente di resti di animali perfettamente conservati grazie alla spessa coltre di sedimenti alluvionali e al tappo generato dallo strato di ceneri, risultato di evidenti eruzioni vulcaniche. I segni evidenti di lavorazione delle carni testimoniavano un’attività umana nella zona. Le popolazioni del luogo portavano evidentemente lì le carcasse degli animali uccisi per macellarle. La presenza dell’acqua di un lago, infatti, facilitava le operazioni di pulizia e di conservazione della carne, soffocandone anche l’odore forte che avrebbe attirato animali feroci come i leoni, presenti a quel tempo in quella zona. La definizione “Homo Aeserniensis”, con la quale viene ancora oggi identificato il sito, fino a poco tempo fa poteva essere ritenuta fuorviante visto che resti umani non ne erano stati trovati. La recente notizia del ritrovamento del dente da latte di un bambino di 600.000 anni fa ha, però, riacceso l’attenzione sul sito dando, peraltro, un senso al nome scelto.

Parliamo di reperti eccezionali che dimostrano ancora una volta come il sito di Isernia sia unico nel suo genere, uno dei più antichi luoghi abitati che conosciamo in Europa. Eppure non ha mai trovato la visibilità che merita e, anche a dispetto delle ultime scoperte, continua a essere frequentato solo da pochissimi studiosi e ricercatori. Tutto resta avvolto da una coltre di fumo, da un alone di mistero, da un’inspiegabile e ingiustificata segretezza che non può che alimentare sospetti circa la possibile volontà di occultare qualcosa. Basta andare sul posto per rendersi conto e percepire questa sensazione. La ricchezza del sito e la straordinarietà dei reperti giustificherebbero ingenti investimenti promozionali per far conoscere il luogo e attirare turisti. Quanti di voi, prima di leggere questo articolo, avevano sentito parlare dell’Homo Aeserniensis? Credo pochi. La domanda allora sorge spontanea. È possibile che siano stati trovati reperti scomodi, in grado di mettere in discussione quanto pensiamo di conoscere sull’evoluzione dell’uomo?

A livello scientifico non è un mistero come continuino ad essere presenti enormi lacune nella teoria dell’evoluzione. Costantemente leggiamo sui giornali scoperte di reperti fossili in grado di riscriverne intere pagine. Non è poi così fantascientifico pensare che da qualche parte, tra le alte vette o nei profondi abissi, emergano testimonianze capaci di scuotere scienza e fede.

Nel 1831 Darwin si laurea in Teologia. Nello stesso periodo la Marina Reale inglese sta organizzando una spedizione per rilevamenti geografici intorno al mondo, sotto il comando del capitano Robert Fitzroy, che chiede al professor Henslow di indicargli un naturalista per la spedizione. Il professore che conosce gli interessi di Darwin, lo raccomanda.

Così, il 27 dicembre 1831, Darwin salpa sul brigantino Beagle. La sua eccitazione iniziale dura poco, poiché scopre di soffrire tremendamente il mal di mare. Durante il viaggio, egli scrive a sua sorella che «non c’è nulla come la geologia; il piacere del primo giorno di tiro alla pernice o il primo giorno di caccia non può essere paragonato alla ricerca di un delicato gruppo di ossa fossili che raccontano la loro storia molte più volte di qualsiasi lingua viva». Proprio grazie a questo viaggio, ai dati raccolti, arriva a formulare la famosa teoria sull’evoluzione delle specie.

Lo scalpore fu enorme perché Darwin partiva dall’idea che la vita si fosse evoluta nel tempo attraverso un processo di selezione naturale. Un pensiero che scardinò, con un colpo solo, il fondamento biblico della creazione dell’universo, introducendo il concetto di una lenta evoluzione delle specie animali e vegetali. Al suo tempo, però, la documentazione fossile era scarsa e non spiegava tutti i singoli stadi evolutivi. C’erano prove certe solo per alcune fasi dell’evoluzione da lui ipotizzata. Mancavano, però, reperti che giustificassero le fasi di transizione.

La sua teoria ha aperto molte porte ma neppure Darwin, ad esempio, ha spiegato il salto evolutivo dai primati all’uomo, quello che tutti conosciamo come l’anello mancante.

L’Homo Erectus in circolazione da milioni di anni in un lasso di tempo brevissimo cambia la dimensione del cervello che si triplica. Una storia che non concorda con la normale evoluzione delineata da Darwin che avrebbe richiesto più tempo, moltissimo tempo. Di tutto questo e di molto altro si parla nel romanzo DNA, un thriller fantascientifico, edito da Leone Editore.

Ecco una breve presentazione.

  • 1979, Molise, Italia.
    Durante uno scavo viene ritrovato un reperto che nasconde una verità sconcertante. Un’organizzazione che opera all’interno del Vaticano riesce, però, a isolare la notizia della scoperta.
  • Oggi, Città del Messico.
    Estela, psicologa e ricercatrice messicana, si mette sulle tracce di Daniel, il suo ragazzo misteriosamente scomparso da giorni, durante una spedizione speleologica in Italia. Un’indagine che si trasformerà presto in qualcosa di inaspettato e pericoloso. Costantemente inseguita e minacciata da un misterioso Ordine religioso, ricomporrà, faticosamente, un puzzle che nasconde una clamorosa rivelazione. Qualcosa capace di rivoluzionare quanto pensiamo di conoscere sull’evoluzione dell’uomo e di scuotere le fondamenta della Chiesa e del credo cristiano.

Dario Giardi


Dario Giardi, scrittore, fotografo e musicista, ricercatore in campo energetico e ambientale, è laureato con lode presso l’Università Luiss di Roma. È autore di guide turistiche, con la casa editrice Polaris di Firenze e con la Lighthouse Publisher di New York, dedicate alla sua grande passione: l’arte e la cultura celtica, etrusca e romana. Ultimamente sta lavorando alla sceneggiatura di un progetto cinematografico internazionale: un film fantasy/documentario sulla civiltà celtica, prodotto da una casa di produzione svizzera. Collabora con riviste di archeologia misteriosa (Italia Misteriosa, Fenix, Xtimes). Per Leone Editore ha pubblicato il suo romanzo d’esordio: “La ragazza del faro”. Dna” è il suo secondo romanzo.