L'ingegneria genetica: un connubio di cattiva scienza e grande business

Il Giornale Online
Il libro di Mae-Wan Ho denuncia le motivazioni e i rischi delle biotecnologie

di Wanda Marra

L'ingegneria genetica è sostanzialmente un bluff: non solo nociva, ma addirittura inutile, prodotto della malafede della grande industria. È questa la posizione espressa da Mae-Wan Ho, una nota e stimata ricercatrice britannica, vicina alle Ong e alle esperienze del popolo di Seattle, nel suo libro “Ingegneria genetica. Le biotecnologie tra scienze e business”, uscito nel 1998 in Gran Bretagna e di prossima pubblicazione in Italia presso la casa editrice Derive Approdi.

Una serie di dati economici e sociali e di prove scientifiche sono utilizzati per avvalorare una posizione, esplicitata dall'autrice fin dalle prime pagine del suo lavoro: “La tesi sostenuta in questo libro è che l'ingegneria genetica sia un connubio tra cattiva scienza e grande business al servizio di profitti immediati, che sia contraria al bene comune, ai bisogni e alle volontà collettive, e ai valori morali della scienza, che prende la forma del determinismo genetico, sia inconciliabile con le prove scientifiche, e conduca a pratiche devianti e a progetti di ingegneria genetica contrari all'etica e finalizzati unicamente allo sfruttamento”.

La scienza, che non è un'entità astratta, non obbedisce solo a regole proprie, ma si sviluppa anche in base ad esigenze extra-scientifiche, economiche e politiche, non è cattiva di per sé. Esiste però una cattiva scienza che non serve gli interessi dell'umanità: la Ho rigetta sia il concetto di scienza “neutrale” (“la scienza è imbevuta di valori morali”), sia la presunta infallibilità della scienza (“la storia della scienza potrebbe essere scritta sia mostrando gli errori che ha compiuto sia i trionfi che le sono comunemente attribuiti”).

La prospettiva etica che guida l'autrice nell'analisi dell'ingegneria genetica, allora, è chiara: non la scienza ad ogni costo e prima di tutto, ma una scienza al servizio degli uomini.

In nome di questa convinzione, l'autrice rinnega il determinismo genetico, la mentalità che legittima e sostiene l'ingegneria genetica, “un insieme di tecniche atte a modificare e ricombinare geni provenienti da diversi organismi e si discosta completamente dalle tecniche tradizionali perché crea nuove combinazioni di geni, o geni ricombinanti, che non esistono in natura”. L'idea che gli organismi siano determinati solo dalla loro costituzione genetica, è semplicemente scorretta. Il determinismo genetico sostiene, essenzialmente, “che i principali problemi del mondo possano essere risolti identificando e manipolando i geni, poiché i geni determinano le caratteristiche degli organismi”.

Alla base di questa concezione sono la teoria darwiniana dell'evoluzione e la teoria genetica dell'ereditarietà. Ma, afferma la Ho, il determinismo genetico ha fallito la prova di realtà, secondo i suoi stessi principi scientifici. Infatti, non solo ogni gene esiste in molteplici varianti, ma “una delle principali funzioni dei geni è quella di codificare le migliaia di enzimi che catalizzano le migliaia di reazioni chimiche dell'organismo che forniscono l'energia che ci consente di vivere. Nessun enzima (e nessun gene) lavora da solo”. Questo significa che lo stesso gene avrà effetti diversi da individuo a individuo e che la scienza è profondamente in errore quando assume che un individuo sia interamente determinato dal suo corredo genetico, e che il corredo genetico delle cellule adulte rimanga inalterato.

Il clone, che si definisce come “la copia identica di un individuo o di un gene, o la totalità di tutte le copie ottenute da un individuo o da un gene”, in realtà non è affatto identico all'individuo originale, per le diverse esperienze di vita che avrà: anche i gemelli identici, che sono “cloni” nel senso stretto della parola, sono individui diversi. E così si sfata il primo mito, cioè la possibilità di ottenere due individui identici a tutti gli effetti.

Ma al di là di quello che questo significa per un ipotetico progetto di clonazione umana, la Ho evidenzia le conseguenze di tutte le applicazioni dell'ingegneria genetica. Denunciando la scienza del grande business, accusando le multinazionali di usare l'ingegneria genetica per sostenere le proprie vendite, a discapito degli ecosistemi locali, rivelando le ricadute sociali ed economiche delle applicazioni biotech, la Ho arriva a una conclusione dura, che non lascia spazio a mediazioni neanche riguardo agli organismi geneticamente modificati: l'agricoltura transgenica non nutre il mondo, non è sostenibile e mette a serio rischio la salute umana e la biodiversità; inoltre, “la clonazione, la 'farmaceutica' del bestiame, la produzione di animali transgenici per xenotrapianti o per ottenere modelli animali delle malattie umane, sono tutte pratiche scientificamente infondate e moralmente ingiustificabili. Sono inoltre per natura rischiose perché facilitano lo scambio tra specie e la ricombinazione dei patogeni virali”.

Queste conclusioni così radicali sono supportate da un'analisi scientifica, ricca di dati sperimentali e da una ricostruzione storica, che spiega come e perché si è arrivati al determinismo genetico e alla ricerca nel campo delle biotecnologie . Come si legge nell'introduzione all'edizione italiana di Sabina Morandi, il libro è un misto anche affascinante di “pragmatismo scientifico e utopismo visionario”, che, però, a volte, si esprime in un linguaggio francamente fazioso. La prospettiva etico-politica del libro, inoltre, è a tratti sconcertante proprio nel non lasciare spazio a dubbi. Per esempio: è possibile che il Progetto genoma umano sia davvero soltanto “una brillante mossa politica per carpire fondi per la ricerca”, e che la sua conseguenza naturale siano “la discriminazione genetica e l'eugenetica?”

Per controbattere la radicalità di questa posizione ci si potrebbe forse appellare ai risultati di quel progetto, resi noti in febbraio: il nostro patrimonio ereditario non comprende che 30.000 geni, circa la metà di quelli di un moscerino e un quinto rispetto a quelli che ci si aspettava di trovare: dunque i geni da soli non bastano a costruire e a far funzionare l'organismo umano, ma sono condizionati dall'ambiente.

Se sembra corretto ed importante gettare acqua sul fuoco degli entusiasmi dei clonatori, sottolineando – per esempio – come nel caso della pecora Dolly non si possa essere sicuri che l'originaria impronta genetica rimanga intatta in ogni cellula e che un organismo non possa essere clonato semplicemente prendendo una cellula qualunque di un organismo adulto, ma si debba invece utilizzare un ovocita con funzione di ringiovanire e riprogrammare il nucleo introdotto nella cellula, è altrettanto corretto non prendere neanche in considerazione quelle che vengono indicate come le possibilità aperte dallo studio delle cellule embrionali a scopo terapeutico: la scoperta di farmaci e vaccini nuovi, le cellule utili per i trapianti e la rigenerazione dei tessuti, la cura e la prevenzione delle malattie genetiche?

Di molte di queste “promesse” la Ho non parla che en-passant e fornisce una risposta sostanzialmente univoca: dietro all'ingegneria genetica in toto non ci sono che interessi economici o al massimo politici. Senza nulla togliere alla probabile – anzi forse certa – veridicità di questa analisi, non si rischia di buttare il bambino con l'acqua sporca, non è rischioso escludere categoricamente che un qualche beneficio possa derivare da queste pratiche? Certo, la mole di dati offerta dalla Ho è impressionante, e convincente. Ma viene voglia di andare a cercare da qualche altra parte elementi diversi che in questo libro non sono presi in considerazione. Come dire: anche se è tutto vero, e se si tratta di una denuncia non solo utile, ma necessaria, esiste, probabilmente, anche un'altra faccia della medaglia.

Senza trascurare il fatto che la clonazione umana – al di là degli interrogativi scientifici e etico-politici – provoca – almeno a livello istintivo – due reazioni opposte e complementari nell'individuo: un senso di estraniazione, di paura, di ribrezzo in un certo senso fisico rispetto alla violazione e allo sconvolgimento di alcuni parametri indiscutibili – o presunti tali – della vita umana; e un'ebbrezza superomistica, un rigurgito di immortalità, la presa di coscienza che l'abbattimento di alcune barriere potrebbe essere nient'altro che una tappa come altre della storia e del progresso.

fonte:www.mediamente.rai.it