L'uomo primitivo era 'ecologo'?

di Giovanni Monastra

pubblicato col titolo Una saggezza atemporale in AA. VV., Verso casa. Una prospettiva bioregionalista, Arianna editrice, Casalecchio, 1998.

In alcuni ambienti esiste un'idea radicalmente ottimista sul rapporto instaurato tra l'uomo e la natura nelle società premoderne o, per lo meno, in quelle arcaiche. Si pensa, infatti, che l'uomo “naturale” abbia mantenuto sempre un sano rapporto con l'ambiente circostante, evitando di distruggerlo, quasi dotato di un istinto provvidenziale in sintonia con l'armonia della natura. Magari si ammette che in alcune grandi civiltà, come quella greco-romana, l'uomo già corrotto dalla “cultura”, elemento quasi “innaturale”, abbia operato in certi casi in modo antiecologico, facendo estinguere intere specie animali da cui traeva profitto economico o inquinando l'ambiente, come nelle metropoli antiche1.

Ma si mantiene l'idea, di origine roussoiana, che l'uomo tribale, non alienato dalla civilizzazione, sia stato sempre naturaliter ecologico, con un impatto antropico pari quasi a zero. Anche questa affermazione va verificata senza pregiudizi. Ci sono alcuni esempi significativi quali il comportamento tenuto, prima dell'arrivo dei bianchi, dai nativi dell'isola di Pasqua, in un'epoca in cui nessuno potrebbe pensare a “contaminazioni” da parte del progresso tecnologico e della mentalità occidentale, faustiana e prometeica, avida di potenza.

Infatti gli abitanti di quella lontana terra distrussero l'ambiente circostante con protervia feroce, dilaniati da guerre continue, accecati dalla bramosia di potenza che li indusse a incendiare i boschi e saccheggiare ogni risorsa, senza limiti, divenendo una tragica metafora dell'uomo eternamente in pericolo a causa di se stesso.

Analogo comportamento, almeno in parte, tennero i colonizzatori di un'altra isola, Malta, raggiunta settemila anni fa da popolazioni siciliane la cui storia si concluse con un collasso ecologico, dovuto a uno sfruttamento sfrenato dell'habitat2. Accettata questa premessa, senza gli estremismi interessati di alcuni studiosi “progressisti”, bisogna affermare, però, che casi del genere costituirono più l'eccezione che la regola nel passato.

Il che deve fare abbandonare l'ingenua idea che postula un uomo “naturale”, “mite”, ecologico, come meccanica conseguenza dell'assenza di “progresso”, “civiltà”, “tecnologia”: in definitiva il cosiddetto “primitivo” (il “buon selvaggio”, secondo i desideri inconsci di alcuni) non costituisce una figura univoca. La sua spontaneità non si dimostra sempre innocente, può rivelarsi anche distruttiva, rapace.

Cosa avvenne nel comportamento di quelle popolazioni, così anomale rispetto alla media delle genti arcaiche? Probabilmente si trattò di una miscela esplosiva di istintualità e cultura ambedue deviate. Infatti pochi credono ancora, seguendo Rousseau e Freud, che l'uomo arcaico sia stato libero da condizionamenti e inibizioni culturali. Tabù, proibizioni, regole, norme, certo molto diverse dalle nostre, ma forse ancor più rigorose e talora repressive perché interiorizzate e fatte proprie nel profondo della coscienza di ciascuno, di fatto limitavano, frenavano e indirizzavano l'azione (e ancora oggi lo fanno nei residui di comunità arcaiche esistenti).
Solo la cultura, una “certa” cultura, può formare e dare vita a un rapporto armonico con la natura circostante, evitando che la tanto mitizzata “spontaneità” prenda il sopravvento, con il possibile esplodere e scatenarsi di istinti distruttivi (l'etologia, già da tempo, ha demolito l'illusione idilliaca di una naturalità solo pacifica, mentre la recentissima teorizzazione di una innata biofilia nell'uomo, ossia l'attrazione degli individui della nostra specie per le altre forme di vita, ci sembra solo l'ennesima trovata di biologi in cerca di ipotesi originali, ma inconsistenti: l'amore per il mondo vivente ha poco o nulla in comune con l'istinto, il quale sembra neutro sotto questo aspetto).

Ritornando al caso dell'isola di Pasqua, ciò che avvenne lì ci sembra paradigmatico di certi intrecci esplosivi: odi tribali, terribilmente naturali, facendo sorgere terrori incontrollabili e alimentando un istinto di conservazione parossistico e aggressivo, hanno condotto l'uomo a distruggere la natura circostante col fuoco al solo fine ossessivo (e spontaneo) di annientare il nemico. Il tutto si è intersecato con la sfera della cultura, o, forse meglio, con elementi culturali residuali, decadenti, che di sicuro hanno consolidato e incrementato aggressività e conflittualità senza regole e limiti (ad esempio, mitizzando il nemico e la sua pericolosità).

La cosiddetta “cultura” agente in tali frangenti tradisce il suo ruolo, in quanto va a rimorchio dell'istintualità e della spontaneità deviate, non le incanala a fini costruttivi, secondo la sua funzione classica di “dare forma”. Si tratta di una vera e propria inversione, una parodia della cultura. Probabilmente avvenne una rottura dell'equilibrio tradizionale, con oscuramento della spiritualità arcaica, il prevalere di superstizioni e di una volontà di autoaffermazione violenta, con successiva inversione direzionale della tensione spirituale, dalla dimensione verticale a quella orizzontale, ossia dalla conquista del m ondo dello spirito alla conquista del mondo fisico. È questa, in ultima analisi, l'essenza dello spirito faustiano e prometeico, condannato da molti autori del passato.

Ancora una puntualizzazione: l'uomo, rispetto agli altri viventi è un essere “aperto”, non direzionalizzato in maniera determinante dall'esterno e dall'interno, come avviene nel mondo animale. La sua “apertura” verso orizzonti e prospettive differenti anche sotto il profilo qualitativo, gli dà al contempo forza e debolezza, mette in luce il fatto che egli è un essere per natura culturale, in modo essenziale e radicale, non marginale. Così il caos è la sua minaccia latente e il comportamento rituale degli uomini arcaici dimostra la consapevolezza di tale pericolo: la presenza ubiquitaria dei riti di iniziazione, intesi come rottura e superamento dello stato naturalistico, testimonia che l'individuo arcaico era cosciente di “essere a rischio”, di essere “troppo poco”, se chiuso nella sola dimensione biopsichica.

Con realismo, la cultura, o meglio, la sapienza, fu percepita dall'uomo premoderno come frutto della interazione tra forze verticali e orizzontali, in un quadro dove la natura era veicolo di un messaggio di conoscenza, seppur da intendersi con modalità diverse rispetto a quanto la nostra mentalità corrente ci fa pensare a prima vista. Così per lui la natura circostante, sotto molti aspetti, costituiva un modello di cultura in quanto realtà dove traspaiono forme, regole, armonie, senso del limite: l'ordine globale, potremmo dire laotianamente, deriva dalla interazione complementare e bilanciata di molti piccoli apparenti disordini.

A questo proposito, per essere più chiari, ricordiamo, seguendo il pensiero del grande biologo elvetico Adolf Portmann3, che l'ordine della natura è diverso da quello meccanico che siamo portati a concepire, secondo la nostra concezione fabbricativa dell'agire.

Vediamo ora un altro aspetto della questione, affrontando un luogo comune opposto a quello naturista e roussoiano, luogo comune tipico di certa letteratura recente, di impronta progressista, a cui abbiamo già accennato, tesa a demitizzare oltre il segno le idealizzazioni del passato. Secondo tale modo di pensare l'uomo è stato sempre antiecologico, sia allo stato “selvaggio”, sia in quello “civilizzato” (usiamo questi temini in modo del tutto avalutativo), per cui oggi i danni alla natura sono molto più gravi rispetto al passato solo per la enorme potenzialità distruttiva della tecnologia: ciò è semplicistico e falso. Infatti si dimentica che il “progresso tecnologico” è nato e si è sviluppato in Occidente, ma non certo per l'incapacità degli altri popoli e delle altre culture di sviluppare un tipo di “riflessione” orientato alla prassi e alla dimensione quantitativa della realtà.

Ad esempio, la matematica degli antichi Sumeri era eccellente, come ha dimostrato il matematico Lucio Giadorou-Astori, tanto che, sotto il profilo teorico, sarebbero stati capaci di calcolare la traiettoria di viaggi interplanetari. Tra l'altro Giadorou-Astori afferma che: “Sumeri ed Egiziani erano estremamente prudenti quando andavano verso le frontiere dello spazio e del tempo. Avevano in mente quella che noi chiamiamo l'umiltà di fronte alla creazione. Conoscevano la relatività dell'uomo, sapevano quanto piccolo fosse quest'uomo…

Quando si lavora nel mio campo ci si avvicina alla visione del sacro, cioè del divino. Più ho proseguito nelle mie ricerche e più mi sono reso conto che esistono altre dimensioni che non sono integrate dai nostri strumenti di pensiero. Dalla Grecia in poi abbiamo razionalizzato tutto, abbiamo introdotto le categorie e perfezionato sempre di più questa costruzione. Più si va avanti e più si astrae. L'uomo, alla fine, si è addirittua auto-astratto”4.
In definitiva, molti popoli (Cinesi, Arabi, ecc.) possedevano le conoscenze di base per ottenere uno sviluppo analogo a quello realizzatosi in Occidente. Semplicemente a loro non interessava, perché lo sentivano come ipertrofico, disarmonico, inutile, in quanto doveva necessariamente sacrificare la dimensione spirituale.

Non a caso, infatti, tale sviluppo venne spesso imposto dai colonizzatori occidentali ai popoli di colore (ma anche, all'interno della stessa Europa, ai ceti agricoli naturaliter conservatori). Alla base di tutto, quindi, sta la scelta culturale compiuta in Occidente, la quale è il frutto della fusione di alcuni aspetti del giudeo-cristianesimo e del pensiero tardo-greco, di tipo laico. Così ciò che in certi momenti costituì una negativa eccezione nel comportamento dell'uomo arcaico, per l'uomo moderno è divenuto regola di vita.

La sapienza tradizionale ha posto limiti e norme di comportamento, vincoli e tabù, leggi e regole rigorose per l'uomo nel suo approccio al mondo. Ciò venne stabilito senza aver mai visto gli effetti pratici di un agire violento e sregolato contro la natura. La cultura moderna, occidentale, invece, prima ha incitato al dominio assoluto del mondo e solo dopo, quando i disastri sono diventati gravissimi, ha fatto parziale autocritica. E' questa la differenza tra saggezza, che sa “vedere” lontano, senza necessariamente sperimentare, e cultura intellettualistica, spesso miope, la quale vede e capisce solo dopo aver sperimentato, in quanto si tratta di un tipo di pensiero vincolato e dipendente dagli schemi della prassi, quindi privo di vera intellettualità.

In definitiva, la sapienza ha dimostrato di essere realista, concreta, pur nella sua apparente “teoricità”, mentre la cultura intellettualistica, dai suoi albori fino al neopositivismo, nonostante le pretese, si è rivelata irrealistica e astratta dalla dimensione umana, vista nella sua integralità.

Note

1- cfr. K.W.Weeber, Smog sull'Attica, Garzanti, Milano 1991, interessante, ma troppo parziale in quanto teso a dimostrare l'equivalenza tra antichi e moderni, cosicché ignora tutto ciò che va contro la sua convinzione, ad esempio rifiutando di vedere che, di fronte a certi scempi compiuti in quell'epoca, la assoluta maggioranza delle persone viveva ancora legata a una visione sacrale delle natura e condannava come sacrilego il comportamento di quei (relativamente) pochi individui accecati dalla bramosia di guadagno.
2- Per un quadro abbastanza esaustivo di questi fatti rimandiamo a J.Diamon, The golden age that never was, in Discover, dic.1988, certo eccessivo nelle conclusioni, ma utile per la documentazione offerta.
3- cfr. A.Portmann, Le forme viventi, Adelphi, Milano 1989.
4- Corriere della Sera, Pagina della Scienza, 26/8/93.

Fonte: http://www.estovest.net/ecosofia/primitivoecologo.html