Medicina tradizionale e Occidente

Medicina tradizionale e Occidente

medicina tradizionale cineseCome si può apprezzare ciò che non si conosce?

Popoli e culture diversi sono ormai quotidianamente gli uni a contatto con gli altri. Incomprensioni, liti, guerre, discriminazioni, paure, ma allo stesso tempo curiosità, interesse, fascino, ammirazione, rispetto caratterizzano queste relazioni.

E’ questo il nostro tempo, un tempo confuso, pieno di contraddizioni, di dubbi, di incertezze, ma anche di possibilità, di opportunità, di nuove finestre da cui osservare il mondo e soprattutto da cui osservarci.

Oggigiorno, in Occidente, sembra che l’interesse per le conoscenze e per le società tradizionali si sia improvvisamente risvegliato. Sempre più spesso si sente affermare che, nonostante i progressi della scienza, le conoscenze tradizionali possono offrire ancora qualcosa di utile. Ma se questo processo di riscoperta dei saperi tradizionali sembra una cosa relativamente semplice, soprattutto per chi è abituato ad osservare e studiare fenomeni, ossia l’apparenza esterna delle cose, in realtà una comprensione vera e profonda di quei saperi è compito ben arduo in un contesto, come quello occidentale dove ormai da qualche secolo si è abituati a prendere per sapere la semplice erudizione e a confondere così, spesso e volentieri, la memoria con l’intelligenza.

La differenza tra il sapere tradizionale e le cosiddette “scienze moderne” non è da ricercarsi in una differenza del settore o campo di applicazione, ma è essenzialmente una differenza di metodo, di punto di vista, che di fatto traduce una profonda differenza di concezione.

Il discorso sulla medicina tradizionala è costellato di trappole e di difficoltà, a volte veramente insormontabili quando si resta all’interno di una logica prettamente medico-scientifica. I suoi limiti, infatti, sono molto più vasti di quelli imposti alla medicina ufficiale poiché esso spazia in un campo che al medico comune è precluso, trattando spesso di azioni basate su delle forze invisibili, su virtù curative di cose e persone, su poteri di parole inintelligibili: tutto un complesso ideologico che, esorbitando dalle qualità chimiche e fisiche della materia e delle comuni leggi della biologia, esorbita anche dalla cerchia di azione di pertinenza del medico.

La medicina tradizionale esiste? “No” sarebbe la risposta di un guaritore tradizionale autentico, “esiste la Conoscenza”.

Nell’impatto, scontro e confronto con la medicina convenzionale, alcune pratiche curative tradizionali, che potrebbero costituire una porta di entrata in un discorso più complesso che la tradizione chiama “Conoscenza”, si riducono ad essere catalogate come medicina tradizionale e ad essere considerate pratiche di cura alternative, se non addirittura contrarie, alla medicina convenzionale.

Per un guaritore parlare di medicina tradizionale è una riduzione legata alla progressiva degradazione della comprensione del sapere tradizionale e delle sue applicazioni. Considerare solo l’aspetto di cura delle malattie significa perdere l’essenza di quest’ultimo e perdere l’occasione di fare il salto che è richiesto per proseguire passando dal “capire” al “sentire” e dalla “Medicina” alla”Conoscenza”.

Uno dei problemi fondamentali nel quale ci si imbatte quando si affronta questo tema consiste in tutto il bagaglio di pregiudizi che inevitabilmente ci accompagnano a causa della specificità della nostra cultura rispetto a quella tradizionale. Per esempio, l’utilizzo del termine “medicina” per designare l’arte terapeutica tradizionale, oltre ad avere le implicazioni sopra evidenziate, porta un occidentale, a causa della sua formazione positivista, ad associarlo automaticamente alle idee di cura e di malattia, spostando immediatamente l’attenzione sulla dialettica “stato di crisi biologico-organica – rimedio da adottare per risolverlo”.

Tuttavia, nell’avvicinarsi alla medicina tradizionale per approfondirne il sapere, sforzandosi dunque di adottare un’attitudine mentale tale da permettere uno vero scambio, questo è il primo aspetto che viene messo in crisi. Infatti esse non lavorano sulle malattie, ma sulle persone e sulla salute. La salute inoltre non è presa in considerazione dal punto di vista della singola persona. Nella visione tradizionale ciò che va bene all’individuo non è detto che vada bene al gruppo o, in generale, ad un contesto più allargato, e viceversa.

La Conoscenza permette al guaritore di sentire profondamente se stesso e il cosmo e di acquisire gli strumenti per poter gestire l’equilibrio delle forze che interessano entrambi a beneficio della comunità a cui appartiene o delle persone che vengono in contatto con lui. Pertanto il sapere tradizionale non può essere ridotto alla semplice possibilità di curare alcuni casi patologici individuali, ma piuttosto riguarda la capacità di comprendere globalmente il contesto e le dinamiche all’interno delle quali l’essere umano è inserito. Lo sviluppo di questo approccio porta alla definizione delle priorità e la scelta è praticamente obbligata: è la comunità, il bene collettivo, ad avere la meglio.

Questo è il secondo aspetto che mette in crisi il modo di procedere del nostro pensiero. Quale medico occidentale curerebbe la malattia di un paziente ignorandolo completamente e lavorando sul suo contesto naturale, sociale o spirituale? E quale medico occidentale, se non alcuni psicoterapeuti della famiglia o di comunità, affronterebbero il sintomo del paziente come fenomeno emergente di un disequilibrio che interessa il gruppo sociale e il suo ambiente di vita?

Il sapere tradizionale grazie al suo riallacciarsi a principi universali è molto più deduttivo che induttivo. Per quanto riguarda la medicina tradizionale, senza nulla togliere al suo carattere pratico, costituisce qualcosa di ben più esteso di quanto in Occidente si è abituati a designare con questo nome; oltre alla patologia e alla terapeutica essa comprende in particolare molte considerazioni che il pensiero scientifico tende ad includere nella psicologia o addirittura nella filosofia, nella teologia o nella magia.

A rendere ancor più difficile alla mentalità occidentale una profonda e reale comprensione del sapere tradizionale è l’utilizzo, da parte di quest’ultimo, di mezzi di investigazione totalmente diversi da quelli con cui ha familiarità.

A ciò si ricollega anche la notevole differenza tra le nature ed il carattere dell’insegnamento nei due contesti, rispettivamente l’iniziazione e l’istruzione accademica. E questo è un terzo punto che mette seriamente in difficoltà l’approccio medico occidentale. Per noi il sapere scientifico è frutto di un’illuminazione, nel senso etimologico del termine, cresciuto con forza grazie alla “pulizia” operata sulle ombre della superstizione dal lume della ragione. La comunità scientifica cresce investigando la realtà e accumulando dati da cui si estrapolano modelli, e qualche volta leggi, che tentano di spiegare il funzionamento del mondo.

Questi insegnamenti per avere un qualche valore, leggi riconoscimento, devono essere scritti e divulgati attraverso pubblicazioni, conferenze, documentari, e quant’altro permei la sfera pubblica. Inoltre chiunque intenda intraprendere la carriera di ricercatore-scienziato e, nel caso specifico, di medico, non ha che da iscriversi ad uno dei numerosi corsi di laurea esistenti e intraprendere il proprio percorso universitario. Il sapere tradizionale invece è custodito gelosamente da pochi, è trasmesso oralmente e per via iniziatica, e non può non solo essere divulgato pubblicamente ma nemmeno essere trasmesso a chiunque desideri riceverlo. Guaritori si nasce e si diventa…. ma se non ci si nasce non c’è nulla da fare. E questo è un terzo aspetto su cui il pensiero scientifico occidentale va in crisi.

Un quarto aspetto problematico del rapporto tra medicina tradizionale e Occidente è il sistema di gestione del potere basato sull’accesso alla relazione con la componente spirituale dell’esistenza degli esseri nel mondo.

C’è un detto Dogon, una popolazione africana che conserva ancora un grande sapere, che recita: “se proprio non riesci a salire in cima all’albero su cui si è arrampicato tuo padre, appoggia almeno la mano sul suo tronco”. La relazione basata sul tributo all’anzianità, nella società tradizionale non si mette in discussione, del resto come potrebbe essere diverso in ambienti naturali in cui per sopravvivere bisogna conoscerli fin nelle loro pieghe più recondite; saperne decifrare i segni, decodificarne le insidie e le forze che possono migliorare o, al contrario, mettere in pericolo la vita degli uomini. L’esperienza, la memoria e la capacità di decodificarle sono gli elementi essenziali dell’esistenza in questi posti.

Ma l’impatto con la modernità sta producendo non pochi traumi. I padri non hanno più la stessa presa autorevole sui figli e spesso non rimane loro che l’esercizio dell’autorità. Le conoscenze tradizionali rischiano di essere sepolte sotto le macerie del terremoto provocato dai nuovi bisogni introdottisi nelle culture tradizionali attraverso il sistema scolastico, che contrappone loro il nuovo sapere in grado di dialogare con il resto del mondo, e la penetrazioni delle merci, che aumenta lo iato tra i padri, detentori della conoscenza, e i figli, soli in grado di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci sono anche le nuove religioni che penetrano nel tessuto sociale facendo proseliti e cambiando lo spirito delle persone, prima ancora che la geografia del territorio.

Le ideologie religiose, in maniera più o meno consapevole e voluta, fanno guerra all’animismo. Sebbene nessuno di questi sistemi di culto potrebbe ragionevolmente mettere in discussione il sapere e l’opera nel campo della salute dei guaritori tradizionali, pochi accettano fino in fondo i suoi presupposti e la sua componente spirituale. Quello che passa senza traumi è la parte meccanica del sapere. Ma che ne è della sua forza legata all’invisibile?

Diverso approccio al tema invece pare avere il senso comune e il sapere popolare occidentale che ponendosi meno problemi di credibilità scientifica delle proposte di “medicine alternative” non esitano a farne ampio ricorso. Assistiamo oggi ad un aumento della richiesta di pratiche alternative di cura da parte delle persone che, pur continuando a frequentare i luoghi delle terapie convenzionali si rivolgono, con sempre maggiore frequenza, alle numerose e diversificate proposte esistenti sul mercato. Massaggi, chiropratica, agopuntura, riflessologia, meditazione, yoga, bioenergetica, training autogeno e magia, solo per citarne alcune.

Un approfondimento, realizzato da alcuni ricercatori inglesi, circa le motivazioni addotte da un gruppo sperimentale di più di 200 pazienti che ricorrono alla medicina alternativa, ha evidenziato in generale una forte preoccupazione per gli effetti collaterali e le conseguenze a lungo termine legate all’uso protratto di terapie farmacologiche chimiche.

Inoltre gli intervistati lamentano che la medicina ortodossa è troppo organizzata intorno al trattamento dei sintomi piuttosto che alla ricerca delle cause del disturbo. Le medicine alternative sono più apprezzate per la maggiore attenzione che danno al paziente, alla sua personalità e al suo stile e ambiente di vita, piuttosto che ai suoi sintomi. Il dato comunque interessante è che il ricorso alle pratiche di medicina alternativa non fa diminuire la domanda di consultazioni della medicina convenzionale. Ciò suggerisce che i trattamenti di medicina alternativa possano essere più propriamente considerati come complementari.

Sembra quindi che il modello medico convenzionale, seppure utile e difficilmente sostituibile, presenti per i pazienti alcuni limiti importanti i quali emergono proprio su quel terreno che la medicina occidentale ha cercato di tenere sgombero da pregiudizi soggettivi e dalle variabili considerate “incontrollabili”, come gli aspetti spirituali e di relazione con l’ambiente di vita, inteso nell’accezione più ampia del termine.

Muoversi nella moltitudine di sistemi di cura alternativi oggi coesistenti, se da una parte appare semplice ed alla portata di tutti, dall’altra può comportare alcuni rischi. Infatti, le possibilità di incappare in “terapeuti” sommariamente competenti e preparati, se non addirittura in fraudolenti ciarlatani, “trapianto”, si rischia di prendere la parte per il tutto, perdendo così l’essenza delle esperienze. Se in più si aggiunge il fatto che il ricorso a tali pratiche non è, in maniera generale, sostenuto da una conoscenza approfondita delle stesse da parte degli utenti, è facile immaginare come tutto ciò possa portare anche ad una idealizzazione ingiustificata che aumenta false speranze e aspettative di soluzione magiche di problemi che, non potendo trovare risposta, procurano delusioni, amarezze e risentimenti, che alimentano la diffidenza.

Sono questi alcuni aspetti che contribuiscono ad aumentare la confusione e ad irrigidire i pregiudizi sulle pratiche delle medicine tradizionali falsandone l’immagine e rendendo facile il lavoro a chi si oppone, per altri motivi, al dialogo e alla ricerca.

Ma quale può essere l’interesse specifico, per noi occidentali, di lavorare in cooperazione con il Sud del Mondo sulle tematiche della medicina tradizionale?

In questo campo è forse più proficuo considerare l’Occidente come sottosviluppato. Infatti, se originariamente anche da noi esisteva un sapere di medicina tradizionale, da svariati secoli esso è stato indebolito se non completamente annientato. E questo elemento distruttivo l’Occidente ha tra l’altro portato con sé in ogni posto che ha colonizzato, soprattutto nei riguardi delle pratiche più spirituali legate al modo di concepire il mondo nelle società tradizionali.

Un approccio alquanto intransigente da parte della chiesa cattolica prima e di nuove religioni oggi, come ad esempio quella islamica e di alcuni culti protestanti, sta riproponendosi con pari intensità, in tempi più recenti, sia in America Latina che in Africa, mettendo in serie difficoltà i sistemi delle medicine tradizionali.

Ciò nonostante, non si deve pensare che questi ultimi siano definitivamente chiusi su posizioni difensive. Infatti la tendenza di certa parte dei ricercatori occidentali, proprio in risposta al sentimento inevitabile di perdita, a voler preservare intatti a tutti i costi i dispositivi di cura tradizionali ancora esistenti, oltre ad essere anacronistica va contro le richieste stesse che provengono dal mondo tradizionale.

La tendenza è di dare per scontato che la medicina convenzionale abbia un potere di distruzione sulla medicina tradizionale molto più forte di quello che ha in realtà.

Seppure in parte l’impatto tra i due sistemi provochi reali alterazioni del secondo, in quanto, se oggi si va in giro per il mondo, è sempre più difficile trovare apertamente esperienze di medicine tradizionali autentiche e pure, è altrettanto vero che il mondo evolve, e anche le culture che originariamente si servivano quasi esclusivamente delle forme tradizionali di cura e dell’automedicazione, oggi hanno bisogno in alcuni casi della medicina convenzionale, ed è bene che possano averne accesso e sceglierla se pare loro il caso.

Di questi tempi non è raro incontrare, nelle iniziative di cooperazione medica, che esplorano modelli di articolazione tra i due sistemi, la volontà espressa da parte dei guaritori tradizionali di misurarsi con il sapere medico convenzionale. Per loro il problema non è il confronto, bensì il riconoscimento e il rispetto delle proprie pratiche e conoscenze.

Sul versante della validazione dei sistemi di cura tradizionali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’agenzia delle Nazioni Unite che ha come campo d’azione la salute planetaria, da ormai più di vent’anni sta promovendo iniziative importante che hanno contribuito e contribuiscono a cambiare la loro percezione da parte della comunità scientifica internazionale.

Le Medicine Tradizionali, costituiscono uno dei pochi strumenti che le popolazioni del Sud del mondo, soprattutto quelle rurali che incontrano difficile accesso al sistema medico convenzionale spesso inesistente o troppo costoso, oltre che inefficace per alcune patologie, hanno a disposizione per “vivere bene”. Ma al di là del servizio di cura offerto dai guaritori una delle funzioni che essi assolvono, forse la meno riconosciuta ma probabilmente tra le più importanti, è la salvaguardia dello stato di salute dei membri della comunità attraverso il lavoro sulla costruzione dell’identità e, quindi, sull’appartenenza delle persone ad un gruppo e ad un luogo, che è ormai appurato essere un importante fattore di protezione e di preservazione dello stato di salute di una comunità.

Per cogliere meglio la portata di questa affermazione basta prendere in considerazione alcuni dati che riguardano il mondo in via di inurbamento e di occidentalizzazione, dove i legami sociali tendono ad essere lassi e le identità multiple, e ci si rende subito conto che i problemi sono enormi e con la tendenza ad una deriva pericolosa. Ad esempio, i numeri ufficiali dell’OMS sull’entità del problema della salute mentale planetaria parlano chiaro: sono 400 milioni le persone che nel mondo risultano affette da disturbi mentali, neurologici, e da problemi psicosociali come quelli legati all’abuso di alcool e di droghe; e questo dato è drammaticamente in crescita nel mondo.

I dati epidemiologici fanno emergere che i problemi di salute mentale sono una delle principali fonti di appesantimento del carico globale di disabilità e disturbi. 5 delle 10 cause di base di questi ultimi sarebbero imputabili a disordini mentali: depressione maggiore unipolare, dipendenza alcoolica, depressione bipolare, schizofrenia e disturbo ossessivo-compulsivo. E c’è di più: oltre alle persone che sono affette da disordine mentale, esistono numerosi gruppi di persone cosiddetti a rischio, a causa delle condizioni di vita in difficoltà estrema, come ad esempio i bambini e gli adolescenti che sperimentano contesti di crescita distrutti e abbandoni precoci, le donne abusate, le persone traumatizzate dalla guerra e, più in generale, dalla violenza; rifugiati e persone deportate; numerosi popoli indigeni e, ovviamente, la gente in condizione di estrema povertà.

“Molte di queste persone soffrono in solitudine” afferma la Signora Gro Harlem Brundtland, Direttore Generale dell’OMS, “al di là della sofferenza e della mancanza di assistenza, ci sono le frontiere dello stigma, della vergogna, dell’esclusione e, più spesso di quanto ci preoccupiamo di sapere, della morte.”

L’OMS, seppure in maniera ambigua e a volte controversa, da anni riconosce un ruolo fondamentale ai dispositivi di cura tradizionali nel contribuire a garantire lo stato di salute migliore possibile per l’umanità, e ciò non sulla base di nulla. Ad esempio, il celebre Studio Pilota Internazionale sulla Schizofrenia, promosso alla fine degli anni 60 e che ebbe una durata più che ventennale, venne lanciato con lo scopo di appurare l’universalità della schizofrenia e seppure si trovò a confermare l’ipotesi sorprese altresì la comunità scientifica rilevando, attraverso il monitoraggio dei casi registrati, che decorso e esito della malattia erano diversi a seconda dei Paesi e indubbiamente migliori dove non esisteva un sistema psichiatrico.

Nonostante l’agenzia multilaterale non abbia mai apertamente dichiarato che questo volesse dire una migliore efficacia delle medicine tradizionali, il risultato spinse molti ricercatori a lavorare sull’ipotesi che esistessero forme differenti di schizofrenia di cui alcune, e cioè quelle più frequenti nei Paesi in Via di Sviluppo, avessero decorso più benigno, e in definitiva sull’ipotesi che molte emergenze psicotiche diventassero croniche, manifestando la tipica evoluzione che ne faceva delle schizofrenie conclamate, per l’intervento alienante della psichiatria. Detto altrimenti: sarebbero la psichiatria e la cultura di cui è espressione a produrre schizofrenia, mentre i sistemi tradizionali sembrano maggiormente in grado di preservare e ristabilire lo stato di salute dei propri membri.

Malattie mentali, disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia, suicidi giovanili nonché dipendenza da droghe o psico-farmaci, sono quindi problemi che la modernità sta portando con sé e che la medicina convenzionale non riesce a spiegare, se non forse facendo riferimento ad una specifica deriva culturale, né tanto meno a trattare efficacemente. Le nuove frontiere dell’antropologia tendono a proporre una lettura singolare di questi fenomeni, guardando ad essi come a malattie etniche, ossia comportamenti disfunzionali prodotti dalla cultura occidentale.

Se così è, bisogna iniziare a prendere atto che esistono delle emergenze in Occidente che nella medicina convenzionale non trovano risposta e che un intervento ad un altro livello potrebbe essere, è il caso di dirlo, salutare. Le medicine tradizionali possono apportare molto in termini di conoscenze, di prassi e di ripensamento del rapporto dell’uomo con il suo ambiente, inteso nella accezione più ampia del termine. Nelle società tradizionali il fattore di protezione contro questo tipo di fenomeni è il radicamento della persona alla comunità e al suo territorio.

L’appartenenza si fonda sulla possibilità di ricostruire la presenza della comunità nel suo luogo di vita risalendo nel tempo fino al mito dell’origine. Fra alcuni sottogruppi sereer del Senegal, ad esempio, i guaritori e i responsabili della tradizione, sono in grado di arrivare alla fondazione delle famiglie claniche, recitandone i nomi dei capi famiglia e cantandone le imprese degne di nota, risalendo fino a più di 1000 anni indietro nel tempo. E’ un modo completamente diverso di pensare l’uomo e di pensarlo qui sulla Terra. E’ quindi difficile ragionare sulle realtà tradizionali, valutarle o cercare di entrare in relazione con esse, attraverso le categorie del pensiero scientifico. E questa è per noi occidentali, la vera sfida e la parte in assoluto più complicata di ciò che emerge dall’incontro e dallo scambio con il pensiero proposto dalle medicine tradizionali.

Infatti per poterla affrontare si deve accettare di “decostruire” il nostro pregiudizio al fine di aprirsi a sentire, prima ancora che capire, veramente cosa abbiamo di fronte, evitando di applicare indiscriminatamente le nostre categorie di pensiero, e quindi di giudizio e di valutazione.

Tuttavia questo processo comporta un rischio, ed anche molto serio. Più ci decostruiamo per arrivare a capire cosa abbiamo incontrato, o rincontrato, e più entriamo in crisi, perdendo tutti i nostri punti di riferimento, senza sapere se avremo la fortuna o la forza di trovarne di nuovi o di ritrovare quelli perduti nel tempo.

Iside Baldini