Mio nonno Gandhi e la matita…

Il Giornale Online di Elisabetta Giudrinetti

«Un giorno tornavo da scuola ed avevo un piccolo mozzicone di matita dove scrivevo ed un notes. Pensavo di meritare una matita nuova, più lunga, e quindi senza pensarci buttai il mozzicone nei cespugli e poi quando vidi mio nonno gli dissi che avevo bisogno di una matita nuova. Invece di darmene un’altra mio nonno cominciò a farmi delle domande: perchè la matita era diventata piccola, perchè l’avevo buttata via…. Io non riuscivo a capire perchè facesse un problema così grande di una piccola matita, fino a quando non mi disse di uscire a cercarla ed io risposi: «È impossibile, sta diventando buio, come faccio a cercarla se c’è buio?». E lui, allora: «Non preoccuparti, ecco una torcia, vai e cerca la matita». Ed io passai quasi due ore a cercare la matita nei cespugli, poi finalmente la trovai e quando la riportai a mio nonno pensai che sarebbe stato d’accordo sul fatto che era troppo piccola. Invece mi disse di sedermi, perchè mi avrebbe insegnato due cose da ricordarmi per tutta la vita. La prima cosa era che anche per fare una piccola matita usiamo delle risorse naturali e quando la buttiamo via, buttiamo insieme anche le risorse del mondo, e questo vuol dire fare violenza contro la natura. La seconda lezione era che nella nostra società compriamo tutto in grande quantità, consumando molte risorse, e questo vuol dire che qualcun altro nel mondo vive in povertà, mentre altre persone vivono nella ricchezza e nel benessere, e questo vuol dire violenza contro l’umanità».

Aveva sei/sette anni allora il piccolo Arun (nato nel 1934 in Sudafrica), figlio di Manilal, secondogenito di Mohandas K. Gandhi (nella foto), padre spirituale dell’India, quando trascorse un primo anno con il nonno. Seguì un secondo periodo, di quasi due anni (1946-47), in cui apprese la filosofia della non violenza. «Sono nato ed ho vissuto a lungo in Sudafrica dove ho dovuto subire molte umiliazioni per il razzismo, causato dal colore della mia pelle. Sono stato picchiato molte volte ed ho covato tanta rabbia per l’umiliazione che dovevo subire. Era diventata un’ossessione: mi esercitavo, ogni giorno, per farmi aumentare la potenza dei muscoli fino a che i miei genitori mi portarono in India e lì ebbi l’opportunità di vivere con mio nonno».

Arun, oggi settantaquattrenne, è stato invitato a Rondine (Arezzo) a condividere con tutti, ma soprattutto con i giovani che frequentano lo studentato della «Cittadella della pace», la sua esperienza sintetizzata nel titolo dell’incontro Quello che ho imparato da mio nonno, avvenuto non a caso lo scorso 2 ottobre, «Giornata mondiale della non violenza» dichiarata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la ricorrenza della nascita del Mahatma, avvenuta nel 1869.

«Sono stato un giovane pieno di rabbia – spiega Arun – e una delle prime cose che mi insegnò fu quella di trattare la rabbia. Mi disse di scrivere un diario della rabbia e mi disse che ogni volta che sentivo montare in me la rabbia non avrei dovuto rivolgerla verso qualcuno ma scriverla nel diario con l’intenzione di trovare una soluzione e che avrei dovuto impegnarmi a trovarla. Mi insegnò, quindi, a canalizzare tutta quella rabbia in un’azione positiva. Oggi, invece, di dare un senso positivo alla rabbia la facciamo sfociare nella violenza, nel picchiare la gente, nel fare la guerra. La pace dipende da noi, da ciascuno di noi, da quanto ci crediamo fino in fondo».

«Fino a quel momento non avevo capito che la violenza poteva presentarsi in modi diversi. Mio nonno, per spiegarmi bene, mi fece disegnare un albero genealogico della violenza e mi disse: tu devi capire te stesso e vedere quanta violenza sei capace di fare e l’unico modo per capirlo è disegnare questo albero, proprio come si fa un albero genealogico dove la violenza è il nonno con due figli, uno fisico e l’altro passivo. La violenza fisica è ogni qualvolta usiamo la forza, quindi nelle guerre, negli omicidi, negli stupri, nei pestaggi. La violenza passiva è quella che non usa la forza fisica e, quindi, la troviamo nella discriminazione, nell’odio, nel pregiudizio… Noi pratichiamo la violenza passiva l’uno contro l’altro tutti i giorni, sia consciamente che inconsciamente – ha sottolineato a gran voce Arun Gandhi, oggi giornalista e dal 1991 fondatore del M.K. Gandhi Institute for Nonviolence a Memphis (Tennessee) – e questo genera rabbia e la vittima di questa violenza passiva diventa fisicamente violenta e, quindi, diciamo che la violenza passiva causa il fuoco della violenza fisica. Se noi vogliamo spegnere questo fuoco, dobbiamo allora eliminare la violenza passiva».

Fonte : http://www.toscanaoggi.it/notizia_3.php?IDCategoria=206&IDNotizia=10296