Paesaggi mutanti

Ci preoccupiamo di cambiamento globale del clima, scarsità di energia, sovrappopolazione, ondate migratorie, criminalità urbana e di mille altri indesiderati avvenimenti, ma questi sono solo i sintomi del vero problema. Focalizzando l’attenzione su questi sintomi, non guardiamo al problema più grosso e in questo modo non ci attrezziamo alla ricerca di una soluzione.

Ciò che sta in realtà accadendo è che un sistema complesso si sta avvicinando ad un crollo di sistema dovuto a difetti nei criteri fondamentali. Troppi sismografi registrano le prime vibrazioni. Più a lungo insistiamo a non cambiare i nostri criteri di prosperità e crescita economica, a non tenere conto dei costi reali – umani e ambientali – dell’attuale economia neoliberista, più il crollo progredisce. Nel frattempo, ci siamo semplicemente occupati dei sintomi invece di curare la malattia.

I paesaggi del mondo cambiano molto rapidamente. Vogliamo guardare con attenzione queste mutazioni e riconoscere i volti, le paure, i desideri e le possibilità reali degli sciami di esseri viventi che popolano questi nuovi paesaggi mutanti. Senza dimenticarci che le periferie si stanno trasformando in ghetti sempre più violenti – 45.588 auto bruciate nelle banlieues francesi nel solo 2005 – e che il mercato non si autoregola nemmeno di fronte ai disastri umanitari, come nella ricostruzione di New Orleans dopo il passaggio di Katrina, o in Sri Lanka dove dopo lo tsunami sono arrivati i palazzinari e le infrastrutture e le abitazioni ricostruite sono peggiori di quelle, fatiscenti, di prima.

Ci chiediamo anche se l’ambiente costruito non è troppo costruito, non consuma e inquina troppo, se forse non occorre costruire meno e meglio, quando un quarto del totale delle emissioni di gas serra proviene dal settore residenziale e il calore supera la soglia di sopportabilità nelle bolle che si formano sulle metropoli. Ci chiediamo quanti sono gli esclusi dal banchetto del marketing urbano, e quanti i dannati delle città a cui è preclusa la fuga quando le metropoli affondano nel fango, nell’immondizia, nelle guerre verticali, scala per scala, condominio per condominio, quartiere per quartiere.

Le città del futuro, che architetti e urbanisti prevedono immateriali e tecnologiche, “saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero”. Decrescere diventa, nel breve tempo e anche nel nord del mondo, una alternativa obbligata ad una crescita armata a difesa di privilegi insostenibili. Forse esiste una alternativa al disastro. Al pedagogismo della catastrofe, si deve preferire una libera scelta di tempi e di modi, che ci risparmi la visione di crolli improvvisi e di paesaggi insostenibilmente degradati, e popolati di troppe vittime.

La tecnologia adottata dall’economia produttivista ci ha condotti all’emergenza del cambiamento climatico, e noi ora ci affidiamo a questa tecnologia per uscirne fuori. Auto ibride, turbine a vento, biocarburanti, concentratori solari, treni superveloci, queste le soluzioni tecnologiche che imprenditori e politici cercano per “decarbonizzare” le nostre vite.
Ma il problema più grosso che abbiamo è forse quello di come e dove viviamo la nostra vita.

I superluoghi sono diventati le nuove centralità metropolitane. All’interno di scatoloni edilizi gonfi di retorica architettonica trovano posto multisale, outlet, centri commerciali, arene sportive. Superluoghi dove regnano banalità e opportunismo, abilmente ambientati in elaborate scenografie immaginate dai fautori della architettura emozionale, sotto la regia forte dell’intervento pubblico governativo. La forza monumentale del tessuto storico, la dove le città lo posseggono, non è più in grado di arginare queste politiche globali di gestione del territorio dove il junkspace, lo spazio spazzatura, diventa discarica a cielo aperto di vera monnezza. La stessa eredità monumentale e identitaria diventa opportunità di marketing e il territorio è ridotto ad un immenso outlet, trionfo di una nuova wave di cinismo edonista.

Il modello di sviluppo dominante – mega immobili, periferie autodipendenti, città diffusa – richiede un consistente apporto di carburanti fossili e comporta una consistente produzione di anidride carbonica e di ogni altra sorta di rifiuto. L’adozione di tecnologie più pulite di produzione e smaltimento potrà risolvere una parte del problema, ma ciò di cui abbiamo veramente bisogno è cambiare il nostro habitat, non solo per i benefici ambientali, ma per il nostro benessere, la nostra socialità e la nostra felicità. Occorre considerare la diffusione urbana – sprawling – come l’evidente patologia di un uso dello spazio, nelle aree metropolitane esterne e rurali, molto poco efficiente e non limitarci a contrastare i sintomi puntuali del degrado urbano e del collasso della mobilità. Per attenuare lo sprawl, si rende necessaria una azione di governo del territorio che proponga incentivi per evitare l’edificazione delle aree rurali e imporre la modificazione delle norme di zoning e lottizzazione adottate dalla amministrazioni locali. Impedire l’edificazione di terreni agricoli richiede che i proprietari ne comprendano il valore in quanto non costruite e per far ciò occorre il sostegno dello stato all’agricoltura locale, per contribuire a che i proprietari riescano a vedere un aumento di valore capitale nel mantenere i terreni liberi.

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