Immaginate una comunità di liberi e uguali, piccola quanto basta per rendere inutile la delega di ogni potere, e tanto grande da evitare la divisione del lavoro. Tutti sono dediti alle stesse mansioni, a turno o tutti insieme. All’alba nei campi a zappare, nel pomeriggio carpenteria e pittura. Tutti cucinano e lavano i piatti. Tutti si occupano dei bambini. Alla sera si leggono poesie e si discute di filosofia. La notte, passeggiate lungo il mare.
Il luogo è un paesaggio incantato. Una valle lunga e stretta, monti di fiaba che stringono un ruscello irruente. Sui fianchi terrazzati dei rilievi, a mezza costa, lunghe file di ulivi e viti, e folti frutteti misti a orti disordinati, vezzeggiati dal sole. Più su, boschi di pini e cerri secolari. Ma a prima vista non si distingue chiaramente dove finisce l’opera dell’uomo e dove comincia quella della natura, tanto caotiche sembrano le colture arboree curate dalla comunità. In mezzo a questo splendore di verde e di luce sorge un agglomerato abitativo che sembra uscito da un’illustrazione turistica del Tibet.
Torri alte e strette, addossate le une alle altre come a sorreggersi per sfidare i secoli. Mura di pietra grigia e tetti rossi e neri di coppi e di ardesia. Dalle piccole finestre quadrate sventolano panni stesi al sole di cento colori, come bandiere di libertà. Un posto così esiste. Si chiama Torri Superiore. E sorge ai confini tra l’Italia e la Francia, vicino a Ventimiglia, cinque chilometri dal mare e tre ore di ascesa per il Monte Gran Mondo.
Vi giungo alle due del pomeriggio di una calda giornata di agosto e mi accoglie il sorriso angelico di Cristina. C’ero andato sotto la spinta di una curiosità scientifica. A Torri Superiore, infatti, si è svolto quest’anno il primo corso italiano di permacoltura. Cos’è la permacoltura? Ancora non l’ho capito bene, ma ora vi racconto quello che ho afferrato. Intanto devo subito dire che esistono due scuole di pensiero, quella di Fukuoka e quella di Mollison, e solo la seconda si chiama “permacoltura”. La prima preferisce parlare di “agricoltura naturale”. Di questa vi dirò innanzitutto, se non altro perché Fukuoka è stato il primo a lanciare la sovversiva idea.
– Prima parte –
L’agricoltura naturale
Dice il saggio: “Questo metodo contraddice completamente le moderne tecniche agricole: butta tutte le conoscenze scientifiche e l’agricoltura tradizionale direttamente fuori della finestra. Con questo modo di coltivare che non usa né macchine, né alcun concime preparato e nessun prodotto chimico, è possibile ottenere una produzione uguale o superiore a quella della media azienda moderna”.
Caspita! – mi sono detto, — come è possibile? L’agricoltura precapitalistica usava molta terra, molto lavoro e poco capitale, e produceva poco e male. Poi, l’avvento del capitalismo ha portato un aumento dell’intensità d’uso del capitale (trattori, concimi chimici e antiparassitari micidiali), ottenendo in questo modo un aumento della produttività del lavoro e della terra.
Ecco cosa ci dice la teoria economica: per ridurre l’intensità d’impiego e aumentare la produttività di un fattore produttivo, ad esempio terra o lavoro, bisogna aumentare l’intensità d’impiego di almeno un altro fattore, ad esempio il capitale.
È una norma fisica, prima ancora che economica, e deriva dalla seconda legge della termodinamica. L’entropia fa sì che non si può ottenere il più dal meno. Fukuoka invece pretende proprio questo: meno lavoro, meno capitale, meno terra e, ciononostante, più prodotto. Come è possibile? — continuavo a chiedermi, — sta barando? La risposta che mi sembrava di aver trovato nei libri del guru giapponese era ancora più sorprendente della domanda. Non esistono solo tre fattori produttivi – terra, lavoro e capitale – ma quattro. Così, basta aumentare l’impiego del quarto fattore, per ottenere un aumento della produttività degli altri tre.
Ma qual era il quarto fattore? E perché l’agricoltura moderna l’ignorava?
Fukuoka era uno scienziato che aveva studiato e sperimentato in laboratori agricoli per agenzie governative giapponesi. Un giorno, stanco e deluso dal mondo, aveva mollato tutto e si era dato al bighellonaggio. Aveva continuato a vagare tra i monti e le campagne del Giappone in cerca di qualcosa che non sapeva cosa fosse. Finché ebbe una sorta d’illuminazione:
“L’umanità non sa assolutamente nulla. Nessuna cosa ha valore in se stessa e ogni azione è inutile, senza senso […] ogni comprensione o sforzo umano è senza importanza” (ivi, p. 33).
Tragica rivelazione, ma quanto liberatrice! Infatti “tutto ciò che mi aveva dominato, tutte le angosce, scomparvero come sogni e illusioni e una cosa che si potrebbe chiamare ‘natura vera’ se ne stette lì davanti rivelata” (ivi, p. 38). Allora decise di tornare al lavoro dei campi. Ma ora, non più dominato dall’hubris tecnologico, bensì alla ricerca di “un modo simpatico e naturale di coltivare che si risolvesse nel rendere il lavoro più facile invece che più duro. ‘E se si provasse a non fare questo? E si provasse a non fare quest’altro?’ […] Alla fine arrivai alla conclusione che non c’era alcun bisogno di arare, alcun bisogno di dare fertilizzanti, alcun bisogno di fare il composto, alcun bisogno di usare insetticidi” (ivi. P. 43).
Proprio così, una rivolta contro dell’entropia! Tornò al campicello del vecchio padre e, lottando contro le sue resistenze, decise di non potare più gli alberi, non concimarli, non trattarli chimicamente, insomma, di lasciar fare la natura. Dopo quattro anni l’agrumeto era morto. E capì che non bastava lasciar fare la natura. Bisognava prima liberarla. Secoli e secoli di agricoltura intensiva, di monocoltura, di distruzione degli insetti e dell’humus naturale del terreno, di produzione per il profitto, di concimazioni chimiche, di selezione artificiale delle specie, avevano alterato l’intima struttura della terra e la vita di ciò che vi brulica e vi vegeta sotto e sopra.
La “natura vera” non esisteva più, era stata distrutta dal capitalismo. Bisognava dunque ricrearla. Si mise all’opera pazientemente. Sperimentò, inventò, seminò, raccolse. Successi e fallimenti si susseguirono senza apparente logica. Ma lui insistette. Ora non sto a farvela troppo lunga. Ma alla fine la vinse. Ottenne quello che voleva. Oggi la sua fattoria è visitata da scienziati e agrimensori di tutto il mondo. Si è sparsa la voce, e una processione di scettici si reca ogni anno a vedere questo miracolo della pratica del Mu.
Fukuoka ha ricreato la ‘natura vera’. Nella sua fattoria alberi e ortaggi crescono rigogliosi e mescolati in disordine come in una foresta. La terra non viene lavorata con l’aratro. Le erbacce crescono insieme ai fagioli e ai cavoli, assistendoli nella lotta contro i parassiti. I ragni contrastano gli insetti nocivi. Le piante si sono autoselezionate e vivono in un ambiente di stabile riproduzione. Molti semi cadono naturalmente in terra e naturalmente si riproducono. L’uomo li assiste seminando durante la raccolta. Il concime viene fornito da anatre e galline che pascolano felicemente sui campi.
Libellule e farfalle, api, talpe e lombrichi, lucertole e rane, si danno tutti da fare, lavorando liberamente, per liberare l’uomo dal lavoro. Il riso, principale prodotto della fattoria, viene coltivato in alternanza con cereali invernali, in modo semplice e rilassante: si getta il seme a spaglio e si sparge la paglia. Si raccoglie usando un falcetto. Nient’altro. “Questo è l’ecosistema del campo di riso in equilibrio. Le popolazioni di piante ed insetti qui mantengono fra loro dei rapporti stabili. Non è raro che qualche malattia delle piante venga a devastare questa regione, lasciando intatti i raccolti dei miei campi” (ivi, p. 57) “Mi ci sono voluti più di trent’anni per arrivare a questa semplicità” (ivi, p. 69).
L’agricoltura naturale di Fukuoka è basata su quattro principi fondamentali:
1. nessuna lavorazione del terreno,
2. nessun concime chimico né composto preparato,
3. nessun diserbo né con l’erpice né coi diserbanti
4. nessuna dipendenza da prodotti chimici.
Ma c’è ovviamente molto di più. C’è una filosofia della vita che rifiuta di vedere nel lavoro un mezzo per la massimizzazione dei profitti, e che insiste nel veder nell’unione dell’uomo con la natura un fine valido in sé. Una filosofia della vita per cui la vita non è lotta, non è fatica, non è un mezzo, è un fine. La pratica del Mu è stata sviluppata nello zazen. Un monaco chiese al maestro Chao-Chou (778-897) se i cani avessero la natura buddhica. Lui rispose: “Mu!” Che significa? Nulla, in entrambi i significati. La sillaba viene pronunciata interiormente negli esercizi di respirazione durante la meditazione. La dottrina sottesa viene dal taoismo, ed è una filosofia del “non fare”, del “lasciar fare”.
Recita una poesia dello Zenrin: Sedendo quietamente, senza far nulla, Viene la primavera, e l’erba cresce da sé. Lasciando fare l’essere che è il nulla si scopre che tutto è come deve essere. “In definitiva, il fattore più importante non è la tecnica colturale, ma piuttosto lo stato d’animo di chi coltiva” (ivi, p. 69). Dove – va da sé – non si tratta di coltivare solo la propria terra, ma la propria vita. Eccolo il quarto fattore produttivo. L’”agricoltura” naturale è una tecnica a bassa intensità di terra, di capitale e di lavoro, e ad alta intensità di Mu. Cioè, non è una tecnica, ma un modo di essere. E mi rendo conto che sarà difficile convincere i miei colleghi economisti.
– Seconda parte –
Permacoltura.
Richard è un americano di origine irlandese, un omaccione flemmatico ma entusiasta, occhi blu-mare da sognatore, ricci capelli neri, rughe del sorriso intorno agli occhi e alle labbra e solchi profondi sulla fronte. È un cinquantenne, e si vede subito che deve avere fatto molte rivoluzioni e fronteggiato molte sconfitte. Immagino che sia passato per più di una comune hippy e corso le sue easy riders, nei tempi migliori. E mi sembra naturale che infine si sia placato nella filosofia della falce e rastrello, essendo partito da sogni più audaci.
Oggi lavora, o meglio, vive, in una fattoria sui Pirenei, dove pratica una permacoltura estrema, ultima rivolta anarco-individualista contro un mondo globalizzato dalle schiere poliziesche del buon senso utilitarista. Ines, la sua compagna, è una donna senza età. Potrebbe essere sua figlia o sua sorella. Neri capelli ondulati e luminosi, pettinati a tempesta. Occhi scuri, profondi e penetranti, da strega. Travolgente il corpo flessuoso, scrigno di una sensualità controllata. È una spagnola vivace e dinamica, parla musicalmente, si muove come danzando.
Quando ti guarda diritto negli occhi perdi la concentrazione. Il suo sorriso è una grazia che ti sobilla. Ines e Richard ci istruiranno sulla permacoltura, in questo corso di quindici giorni a Torri Superiore. Corso intensissimo, otto ore al giorno, senza tregua, con brainstorming ed esercitazioni pratiche negli orti della comunità. Si parla in una lingua franca incredibile, un miscuglio di inglese, spagnolo e italiano, e molte gesticolazioni, diapositive e pacche sulle spalle. Tutti si esprimono come meglio credono. Tutti ci capiamo al volo.
Mettono subito in chiaro, i due attardati figli dei fiori, che loro appartengono alla scuola di Bill Mollison. Bene, proprio quello che cercavo. La risposta ai miei dubbi scientifici che avevo trovato nei libri di Fukuoka mi aveva affascinato, ma non convinto del tutto: come potevo tradurla in una funzione di produzione? come formalizzare il fattore Mu? come definire le derivate prime dello stato d’animo, la loro produttività marginale? Troppo lontana dalla nostra mentalità occidentale è la filosofia del “non fare”. E la risposta me la danno subito, Ines e Richard, senza che io debba neanche porre la domanda, già dalla prima lezione:
Permacoltura è design. – What? – Progettazione.
Bene. Mi piace. Comincio a capire. Mentre Fukuoka si concentra sull’essere, su come rapportarsi alla natura dopo che questa è stata ricostituita e liberata dalle devastazioni dell’agricoltura hi-tech, Mollison si concentra sul fare, sul come liberare la terra, su come ricreare un ambiente autosufficiente e capace di autoriproduzione. Permacoltura significa permanent culture. E’ un metodo di conduzione agricola che mira a creare nel podere un ecosistema capace di equilibrio stabile e duraturo, che possa riprodursi senza bisogno dell’intrusione umana. Non che l’uomo non debba intervenire, ma deve farlo sapendo che tutto influenza tutto e quindi deve operare con umiltà, lavorando con la natura, non contro, amandola, non violentandola.
Deve rapportarsi alla terra come la parte al tutto, non come il padrone al servo. Le colture devono essere permanenti anche nel senso che devono puntare soprattutto su piante perenni e arboree di molte qualità diverse, mescolate tra loro in modo da aiutarsi nella difesa dai parassiti. L’orto si fa nel frutteto. Le piante annuali vengono in parte mandate in fiore in modo che possano riprodursi spontaneamente. Le erbacce vanno tenute sotto controllo, ma solo con la pacciamatura, e solo all’epoca della semina degli ortaggi.
Quando questi saranno cresciuti, allora non avranno più competizione dalle erbacce, le quali anzi si renderanno utili, non solo perché mantengono umida la terra, ma anche per la loro capacità di disorientare e disperdere i parassiti, e attrarre gli insetti che uccidono quelli più tenaci. Inoltre, col loro ciclo di vita e di morte, servono a formare parte dell’humus che concima naturalmente. Va da sé che l’aratro è proibito, così come lo è ogni prodotto chimico. Parte del concime può essere fornito dagli animali, che devono essere usati secondo precisi tipi e quantità definiti in proporzione all’estensione del terreno.
Tutto viene riciclato, anche le acque scure, che verranno rese riutilizzabili per l’annaffiatura; anche il calore del sole, per scaldare l’acqua e alimentare il forno solare; anche il vento, per produrre elettricità; e anche la merda, con cui si può produrre metano e concime. La progettazione dunque mira ad aiutare la natura a ritrovare sé stessa.
Ed è basata su sei principi fondamentali:
1. pianificare in altitudine, cioè tenere conto delle caratteristiche degli eventuali dislivelli del terreno, in funzione dell’uso delle acque, del riciclo delle risorse, degli accessi alle zone, dei fattori climatici;
2. rispettare le strutture, tutto in natura essendo regolato da pattern, rispetto ai quali dobbiamo adeguarci, usandoli senza contrastarli;
3. lavorare con elementi multipli, ovvero attivare molti elementi per svolgere ogni singola funzione (dopo vi spiego meglio di che si tratta);
4. individuare i settori, che sono coni di superficie del podere definiti da particolari caratteristiche climatiche (provenienza del vento, irradiamento solare etc.);
5. definire le zone, le quali sono aree concentriche del podere che regolano il raggio dell’azione umana (c’è la zona in cui si vive, intorno alla casa, quella in cui si lavora, quella dedicata al pascolo, quella della silvicoltura e infine, se possibile, quella in cui predomina la natura selvaggia).
6. massimizzare l’effetto confine, in altri termini, dal momento che le linee di margine tra due zone diverse tendono a produrre caratteristiche proprie che sfruttano il meglio delle zone stesse, bisogna costruire molti margini;
Non sperate che vi spieghi tutto. Bill Mollison ci ha scritto tre libri, per diverse centinaia di pagine. Io miro solo a stuzzicarvi la curiosità. Il quarto principio però mi ha colpito particolarmente, e voglio cercare di spiegarvi, e spiegarmi, perché.
Lavorare con elementi multipli vuol dire che se vuoi raggiungere uno scopo, non devi usare solo un mezzo, ma diversi. Proprio il contrario di quanto prescrive l’economia ortodossa, che vuole farti massimizzare i profitti minimizzando i costi. Perché questo apparente spreco di risorse? Perché tu non massimizzi niente. Non fai niente.
La terra fa tutto, tu devi solo cercare di non ostacolarla, e quando vuoi farla servire ai tuoi scopi devi cercare di aiutarla. E siccome non sai molto, procedi sempre a tentoni. E devi dare molto per ottenere poco. Dice il sessantottino: l’80% delle tue aspirazioni è facile da ottenere, il 20% è molto costoso. Beato lui. Si vede che è americano. Comunque, a quel 20% conviene rinunciare. Perché? E qui mi sorprende con una citazione da Pavese: – Perché lavorare stanca. – Il permacoltore non massimizza, si accontenta. – Tutto qua? — No, c’è dell’altro.
Le regole di condotta
Ci sono tre regole di condotta che costituiscono, per così dire, i fondamenti etici e politici della permacoltura.
E sono:
a) prendersi cura della terra,
b) prendersi cura della gente,
c) condividere le risorse.
La permacoltura è basata su un’etica della responsabilità, verso la natura e verso gli altri. E le tre regole si sostengono a vicenda, l’una implicando l’altra. La gente è sostenuta dalla terra, e non può vivere bene se non se ne prende cura. E la terra è coltivata dalla gente. Non puoi coltivarla bene se la gente è costretta al lavoro salariato, cioè è ridotta a mezzo per raggiungere un fine quale che sia. E se gli esseri umani non sono un mezzo, ma un fine, allora devi condividere le risorse. Non più padroni e operai, ma uomini liberi. Non competizione, ma cooperazione.
La permacoltura è refrattaria al capitalismo. Puoi fare profitti con l’agricoltura biologica (specialmente ora che va molto di moda), con quella sinergica, con quella biodinamica, ma non con quella basata sul principio del “non fare”. Il punto è che tra gli output della produzione rientra il godersi la vita. Lavorare poco, lavorare bene, lavorare con gusto. Dunque non c’è solo un altro fattore produttivo, accanto al capitale, alla terra e al lavoro. C’è anche un secondo output, accanto al prodotto lordo: la qualità della vita. E infine scopri che l’input, quel nuovo input, lo stato d’animo, coincide con questo output. Potrebbe sembrare strano che l’agricoltura naturale di Fukuoka venga assimilata alla permacoltura di Mollison.
Che rapporto ci può mai essere tra la pratica del Mu e quella del design? Il Mu porta al “non fare”, il design a creare. Cosa ci può essere di più contrastante? Il primo è il prodotto di una “religione” immanentista che vede nel lavoro dei campi una forma di meditazione predisponente all’abbandono dell’uomo verso un essere che si confonde col nulla. Il secondo sembra piuttosto una manifestazione di quell’orgoglio prometeico che spinge l’azione umana a riprodurre l’atto di creazione divina. Il permacoltore non si contenta di liberare e ricostruire la terra, vuole addirittura ricostruire le relazioni sociali, riformare l’uomo. Eppure, se facciamo lo sconto all’ideologia, ci accorgiamo che entrambi i metodi mirano allo stesso scopo: la ricreazione del mondo. Sì, è l’ora della ricreazione.
Ernesto Screpanti
permacultura.it