Scoperti 83 quasar primordiali

Luce proveniente da uno dei quasar più lontani conosciuti, alimentato da un buco nero supermassiccio che si trova a 13.05 miliardi di anni luce dalla Terra. L’immagine è stata ottenuta dalla Hyper Suprime-Cam montata sul Subaru Telescope. Gli altri oggetti nel campo sono per lo più stelle nella nostra Via Lattea e galassie viste lungo la linea di vista. Crediti: Naoj

Alimentati da buchi neri supermassicci, gli 83 nuovi arrivati si aggiungono ai 17 quasar scoperti precedentemente sempre dal Subaru Telescope. Ciò conduce a stimare che ci sia un buco nero supermassiccio in ogni cubo di un miliardo di anni luce di lato: tanti, ma non abbastanza per spiegare la reionizzazione. È stato inoltre scoperto il primo quasar a bassa luminosità a z > 7. Tutti i dettagli su ApJ Letters.

Un gruppo di astronomi ha scoperto 83 quasar lontanissimi, alimentati da buchi neri supermassicci (Smbh, acronimo di super massive black hole), in un’epoca nella quale l’universo aveva meno del 10 per cento della sua età attuale. Questo risultato è stato ottenuto utilizzando Hsc (Hyper Suprime-Cam), la camera ad ampio campo di vista montata sul Subaru Telescope. La scoperta ha portato a un aumento considerevole del numero di buchi neri conosciuti in quell’epoca e rivela, per la prima volta, quanto i Smbh siano comuni all’inizio della storia dell’universo. Inoltre, fornisce nuove informazioni sull’effetto dei buchi neri sullo stato fisico del gas nell’universo primordiale, nei suoi primi miliardi di anni.

I buchi neri supermassicci si trovano nei centri delle galassie e hanno una massa milioni o anche miliardi di volte quella del nostro Sole. Risultano essere prevalenti nell’universo attuale, ma non è ancora chiaro quando si siano formati per la prima volta e quanti ne esistano nell’universo primordiale. Mentre i Smbh distanti sono identificati come quasar, che brillano mentre accrescono su di loro il gas circostante, precedenti studi si sono dimostrati sensibili solo ai rarissimi quasar più luminosi, e quindi ai buchi neri più grandi. La nuova scoperta sonda la popolazione di buchi neri supermassicci con masse caratteristiche dell’ordine di quelle dei buchi neri più comuni visti nell’universo attuale, facendo così luce sulla loro origine.

I 100 quasar identificati dai dati di Hsc. Le prime sette righe rappresentano le 83 nuove scoperte, mentre le ultime due righe rappresentano 17 quasar precedentemente noti nell’area di rilevamento. Appaiono estremamente rossi a causa dell’espansione cosmica e dell’assorbimento della luce nello spazio intergalattico. Tutte le immagini sono state ottenute da Hsc. Crediti: Naoj

Il gruppo di ricercatori, guidato da Yoshiki Matsuoka (Ehime University), ha utilizzato i dati acquisiti con Hsc, uno strumento d’avanguardia montato sul Subaru Telescope dell’Osservatorio astronomico nazionale del Giappone (Naoj), posto sulla vetta del monte Maunakea alle isole Hawai. Hsc è particolarmente potente poiché ha un grandissimo campo di vista, pari a 1.77 gradi quadrati (sette volte l’area della Luna piena), montato su uno dei più grandi telescopi al mondo. Il team di Hsc sta effettuando una survey utilizzando 300 notti di tempo al telescopio, distribuite in cinque anni. Dopo aver selezionato i candidati quasar distanti da questa survey, il team ha condotto un’intensa campagna di osservazione per ottenere gli spettri di quei candidati, utilizzando il Subaru Telescope, il Gran Telescopio Canarias e i telescopi Gemini. L’indagine ha rivelato 83 quasar remoti precedentemente sconosciuti: oltre ai 17 quasar già noti nella regione di indagine, Matsuoka e collaboratori hanno scoperto che c’è un buco nero supermassiccio approssimativamente in ogni cubo di un miliardo di anni luce di lato. La figura accanto mostra le immagini dei 100 quasar identificati dai dati Hsc.

I quasar scoperti distano circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra. In altre parole, li stiamo vedendo come erano 13 miliardi di anni fa. Il tempo trascorso dal Big Bang a quell’epoca cosmica è solo il 5 per cento dell’età attuale dell’universo (pari a circa 13,8 miliardi di anni) ed è veramente notevole che oggetti così densi siano stati in grado di formarsi così presto dopo il Big Bang. Il quasar più lontano scoperto dal team è distante 13.05 miliardi di anni luce e sembra essere legato al secondo Smbh più distante mai scoperto.

Impressione artistica di un quasar. Al centro si trova un buco nero supermassiccio e l’energia gravitazionale del materiale che si accumula sul Smbh viene rilasciata come luce. Crediti: Yoshiki Matsuoka

È ampiamente accettato dalla comunità astronomica che l’idrogeno nell’universo una volta fosse neutro, e che sia stato “reionizzato” (cioè diviso nei suoi componenti protoni ed elettroni) intorno all’epoca nella quale nacque la prima generazione di stelle, galassie e Smbh, poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Questo periodo rappresenta una pietra miliare della storia cosmica, ma non è ancora chiaro cosa abbia fornito l’incredibile quantità di energia richiesta per causare tale reionizzazione. Un’ipotesi ritenuta finora convincente suggeriva che nell’universo primordiale ci fossero molti più quasar rispetto a quelli rilevati dagli studi precedenti, e che sia stata la loro radiazione integrata a reionizzare l’universo. Tuttavia, la densità numerica misurata dal team Hsc indica chiaramente che non può essere andata così, in quanto il numero di quasar trovati è significativamente inferiore al numero necessario in grado di spiegare la reionizzazione. Pertanto, bisogna desumere che la reionizzazione sia stata causata da un’altra fonte di energia, molto probabilmente dalle numerose galassie che iniziarono a formarsi a quell’epoca.

Questo studio è stato reso possibile dalle notevoli capacità di indagine del Subaru Telescope, accoppiato a Hsc. Anche le intense osservazioni di follow-up effettuate dal Subaru Telescope, dal Gran Telescopio Canarias e dai telescopi Gemini sono state un’altra chiave del successo del lavoro. «I quasar che abbiamo scoperto saranno un argomento interessante per ulteriori osservazioni di follow-up con le strutture attuali e quelle future», conclude Matsuoka. «Impareremo anche a conoscere la formazione e l’evoluzione primordiale dei Smbh, confrontando la densità del numero misurato e la distribuzione di luminosità con le previsioni dei modelli teorici». Sulla base dei risultati raggiunti finora, il team sta guardando avanti per cercare Smbh ancora più distanti e per rivelare l’epoca in cui il primo Smbh apparve nell’Universo.

Maura Sandri

media.inaf.it