Supernovae inaffidabili?

Supernovae inaffidabili?
supernovae
Artist’s impression of how Type Ia supernovae may look like as revealed by spectro-polarimetry observations.

Quando in cielo si accende una supernova significa che una stella è bruscamente giunta al capolinea. Si tratta di un evento estremamente energetico, caratterizzato da un’emissione di radiazione talmente intensa da risultare osservabile anche quando è immerso nelle profondità del cosmo. La prima catalogazione di questi eventi, basata sulle caratteristiche spettrali e sulla variazione della loro luminosità nel corso del tempo, portò a individuare due grandi categorie (tipo I e tipo II). Successivamente, l’osservazione e le analisi teoriche portarono gli astronomi non solo ad affinare le caratteristiche delle differenti tipologie, ma anche a comprendere che alla loro origine vi erano scenari astrofisici ben differenti. Le supernovae più apprezzate dagli astronomi (e soprattutto dai cosmologi) sono quelle appartenenti alla tipologia Ia. Alla loro origine vi è l’esplosione termonucleare di una nana bianca che, accumulando materiale da una stella compagna, supera il cosiddetto limite di Chandrasekhar. Con questo termine viene indicata una massa limite (circa 1,44 masse solari) oltre la quale la struttura stellare non riesce a reggere e, collassando sotto il proprio peso, raggiunge pressioni e temperature così elevate da far innescare la detonazione del carbonio in essa contenuto. L’esplosione è catastrofica e dilania completamente la stella. Questa identica origine comporta che tutte le supernovae di tipo Ia producano un’emissione luminosa pressoché identica, una caratteristica che permette di impiegarle come “candele campione”. Se, infatti, conosciamo la luminosità assoluta di un astro, dalla misurazione della sua luminosità in cielo possiamo risalire alla distanza alla quale si trova. La grande luminosità di queste esplosioni stellari le rende ottimi indicatori di distanze e permette di prendere le misure dell’Universo anche in regioni molto distanti da noi.

Proprio lo studio di queste esplosioni lontane nello spazio e nel tempo ha permesso ai cosmologi di scoprire che l’espansione dell’Universo – una caratteristica nota a partire dalle intuizioni di George Lemaître e di Edwin Hubble negli anni Trenta – non è costante, ma sta accelerando. La fondamentale scoperta valse a Saul Perlmutter (The Supernova Cosmology Project), Brian Schmidt e Adam G. Riess (The High-z Supernova Search Team) il Premio Nobel nel 2011. Studi successivi provenienti dall’analisi delle caratteristiche della radiazione cosmica di fondo hanno portato altre prove a sostegno di questa accelerazione, ma quella delle supernovae di tipo Ia è comunque rimasta una colonna portante di questo fondamentale aspetto dell’evoluzione del nostro Universo.

Questa colonna, però, rischia di essere messa in discussione dai recenti studi compiuti da Peter Milne (University of Arizona) e collaboratori. Il team, infatti, ha scoperto che le supernovae di tipo Ia non sarebbero così uniformi come si è sempre pensato, ma dovrebbero essere distinte in almeno due differenti gruppi.

Una distinzione che metterebbe in discussione la possibilità di impiegare queste esplosioni stellari come affidabili indicatori delle distanze cosmiche. Gli studi di Milne si basano sulle osservazioni delle supernovae raccolte dall’osservatorio spaziale Swift nell’ultravioletto e dal loro raffronto con quelle nel visibile raccolte dal telescopio Hubble. L’analisi di queste osservazioni e le possibili conseguenze che ne derivano sono state pubblicate su The Astrophysical Journal qualche settimana fa (seguendo questo link si può accedere al paper completo). Al cuore della ricerca vi è la scoperta che l’osservazione nella banda ultravioletta di alcune supernovae di tipo Ia metteva in evidenza differenze inattese, con lievi spostamenti degli spettri verso il rosso o verso il blu. Differenze che non erano affatto individuabili nelle osservazioni effettuate nella banda ottica. Nel comunicato stampa dell’Università dell’Arizona, Milne riassume così la scoperta: «ll sospetto che tra le supernovae di tipo Ia vi fossero due gruppi ci era venuto esaminando i dati di Swift e in seguito, valutando altri insiemi di dati, ne abbiamo avuto la conferma. Abbiamo trovato che le differenze non sono casuali e che il gruppo che risulta minoritario a breve distanza da noi diventa predominante a grandi distanze, cioè quando l’Universo era più giovane. Man mano andiamo indietro nel tempo, dunque, osserviamo un cambiamento nella popolazione delle supernovae. Questo cambiamento non lo si coglie quando osserviamo in banda ottica, ma diventa evidente nell’ultravioletto.»

La scoperta di Milne e collaboratori ha immediatamente messo in allarme i cosmologi. Non si tratta, infatti, di un banale problema di classificazione, ma può portare a conseguenze ben più importanti. L’impiego delle supernovae di tipo Ia quali candele campione si fonda sul fatto che l’energia da esse liberata (dunque la loro luminosità) sia costante, non importa in quale angolo di Universo o in quale momento della sua evoluzione siano avvenute. Scoprire ora che questa caratteristica debba essere rivista impone di rivalutare con attenzione le misurazioni effettuate finora e le conseguenze che da tali misurazioni sono state tratte. Prima fra tutte proprio l’accelerazione nell’espansione dell’Universo. Non viene certamente messo in dubbio il fatto che tale accelerazione esista, ma è possibile che si debba rivedere – probabilmente al ribasso – la sua entità. Inevitabilmente, poi, quest’opera di revisione interesserebbe anche la quantità di energia oscura presente nell’Universo. Due aggiustamenti tutt’altro che secondari nel modello che attualmente viene considerato la descrizione più attendibile del nostro Universo. Pienamente comprensibile, insomma, l’agitazione dei cosmologi. Senza contare che questo quadro già fosco verrebbe reso ancora più cupo dal rischio di dover rinunciare all’impiego delle supernovae quale strumento efficace e affidabile per studiare le più remote profondità dell’Universo. A meno che la caparbietà degli astronomi non riesca, studiando a fondo le caratteristiche appena scoperte, a rigirare questo handicap in vantaggio, rendendo le supernovae di tipo Ia strumenti ancora più affidabili.

Per approfondire questo delicato tema, abbiamo chiesto aiuto a Enrico Cappellaro, ricercatore astronomo presso Osservatorio di Padova, dove si occupa proprio dello studio delle supernovae. Un interlocutore ideale, dunque, per toglierci qualche dubbio.

Prima di entrare nel vivo delle possibili conseguenze indotte dallo studio pubblicato dal team di Peter Milne, vorremmo capire le caratteristiche di questa nuova tipologia di supernovae. In cosa si differenziano dalle altre? Alla loro origine vi sono meccanismi differenti oppure tutto dipende dalle condizioni iniziali della stella destinata a esplodere come supernova? E’ già possibile una stima statistica dell’abbondanza di queste esplosioni che, rispetto agli standard usati finora, potremmo catalogare come “anomale”?

In effetti, il punto cruciale è che non si tratta veramente di una nuova tipologia di supernovae. Il team di Milne avrebbe trovato che le supernovae di tipo Ia che fino a oggi pensavamo appartenere tutte a una stessa famiglia, in realtà fanno parte di due gruppi distinti. La differenza si vede analizzando con attenzione l’emissione ultravioletta delle supernovae. Per le supernove più vicine questa emissione è invisibile dalla Terra a causa dello schermo dell’atmosfera e si è potuta riconoscere solo grazie alla disponibilità di telescopi spaziali come Swift. Non sappiamo quale sia la ragione fisica di questa differenza: una delle ipotesi è che possa aver a che fare con l’ambiente in cui si è formata la stella che poi finisce per esplodere come supernova, in particolare con l’abbondanza di metalli. Secondo Milne e collaboratori le frazioni di eventi nelle due classi cambiano drasticamente in funzione del redshift e quelle che sono più abbondanti nella nostra zona di Universo sono invece rare nell’Universo lontano.

L’importanza cruciale delle supernovae di tipo Ia è sempre stata quella di poterle usare come indicatori in ambito cosmologico. Sempre ammettendo, ovviamente, che la nuova tipologia di supernovae venga confermata, cosa potrebbe comportare la scoperta di Milne e collaboratori? Dovremmo inesorabilmente rinunciare a impiegare le supernovae di tipo Ia come candele campione?

Proprio il fatto che la “miscela” di supernovae che osserviamo sia differente in funzione dell’età e distanza della zona di Universo che osserviamo è l’aspetto più preoccupante. L’uso delle supernovae come indicatori di distanza si basa sull’ipotesi, fino ad ora mai smentita, che le supernove di tipo Ia vicine e lontane siano parte di una stessa famiglia. Se invece ci sono più famiglie e, peggio ancora, l’abbondanza di due famiglie cambia col tempo cosmico, non siamo più sicuri delle distanze che abbiamo ricavato dal confronto di SN Ia vicine e lontane. Questo non vuol dire che per il futuro abbiamo perso la possibilità di usare le supernovae Ia come indicatori di distanza. Una volta che abbiamo un modo per distinguere le due classi possiamo confrontarle in modo omogeneo (come dire, confrontare mele con mele e pere con pere ….) oppure possiamo effettuare il confronto in luce infrarossa invece che ultravioletta dove sembra che la differenza fra le due classi sia trascurabile.

Una ricaduta forse meno percettibile, ma certamente più rilevante, coinvolge gli aspetti cosmologici. L’attuale modello di Universo contempla un’accelerazione della sua espansione: una scoperta strettamente legata alle osservazioni delle supernovae di tipo Ia. Cosa potrebbe comportare questa “inaffidabilità” delle supernovae? Ci attende, dietro l’angolo, una revisione dell’entità di questa accelerazione? Se è così, dobbiamo allora attenderci anche una revisione – al ribasso – della frazione di quella misteriosa energia oscura che, nelle ricette attuali dell’Universo, occupa un ingombrante 70%?

E’ difficile prevedere quale possano essere le conseguenze sulle attuali stime di energia oscura. Milne e collaboratori hanno provato a immaginarlo, suggerendo che in effetti la stima dell’energia oscura dovrebbe diminuire. Non è così sicuro perché in realtà nei diversi esperimenti la calibrazione delle supernovae di tipo Ia è stata fatta in modo diverso e non sempre le differenze sull’emissione ultravioletta hanno avuto un ruolo determinante. Per paradosso, se alle differenze di colore delle supernove evidenziate da Milne e collaboratori si accompagnano differenze di luminosità assoluta, potrebbe addirittura essere vero l’opposto e la stima di energia oscura aumentare. Tra l’altro, anche se è vero che le supernove per prime hanno portato a riconoscere che l’Universo sta accelerando, ci sono diversi altri indicatori indipendenti che puntano sulla presenza dominante dell’energia oscura (per esempio le misure del fondo cosmico di radiazione). Quello che è innegabile è che Milne e il suo team hanno suonato un campanello d’allarme che non può essere ignorato e che ci dice che i nostri errori di misura per quanto riguarda la frazione di energia oscura sono più grandi di quello che pensavamo.

Direi che a questo punto c’è da lavorare in due direzioni: da una parte procedere a una verifica puntuale del risultato di Milne e soprattutto del possibile impatto sui campioni di supernovae analizzate finora, dall’altro continuare negli sforzi in corso per migliorare la precisione di altri indicatori indipendenti della presenza dell’energia oscura. Questo è lo scopo primario della missione EUCLID dell’Agenzia Spaziale Europea che si sta preparando proprio in questi anni.

Claudio Elidoro

Scienze dello spazio

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