È costituito da due parti, connesse da una struttura analoga all’ippocampo (a forma di spirale). La meta inferiore rappresenta la regione sensoriale, che risponde a informazioni in entrata di tipo automatico, sincronizzate e inviate alla meta superiore. Il livello superiore è costituito da tre importanti cavità interconnesse e riempite di tessuto cerebrale costituito da un network di nanocircuiti cerebrali sopramolecolari. L’inventore è Anirban Bandyopadhyay -Anì per gli amici e nella comunità scientifica, causa l’impronunciabilità del suo cognome – non è un oratore trascinante, anzi, si fa fatica a capirlo, nel suo inglese perfetto ma pronunciato all’indiana. Ha il piglio del primo della classe, con troppe cose da dire e troppo poco tempo per farlo. Non è facile nemmeno comprendere la complessità della sua visione. Però si ha la netta impressione di trovarsi avanti a un genio. Impressione condivisa dalle trecento e più persone che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo la settimana scorsa a Fabriano, durante il Festival Poiesis.
Secondo questo giovane scienziato, 36 anni, che lavora in Giappone, a Tsukuba, presso il Nims, e ha già avuto due ricerche pubblicate su Nature, è inutile accanirsi nel tentare di riprodurre l’attività cerebrale con computers sempre più grandi e sofisticati e attraverso istruzioni sempre più dettagliate e complesse. “L’intelligenza è un pattern – sostiene – non una serie di informazioni binarie. Per questo non concordo con chi sostiene che il cervello è un computer. Il cervello non ha software: è tutto hardware e funziona con soli 24/ 25 watt di energia”.
È da qui che bisogna partire. Anì è radicalmente contrario ai progetti, tipo Connectomy in America e Blue Brain in Europa, che cercano di creare cervelli artificiali utilizzando megacomputers, che consumano 800 / 1.000 megawatts di energia (quella di una grande centrale nucleare) e richiedono trilioni di algoritmi basati sul principio “if.. then..”. “Non arriveranno mai a creare un cervello pensante, capace di imparare e soprattutto di sbagliare – [l’errore è il fondamento del progresso] – . Al massimo, otterranno un robot capace di eseguire compiti complessi. Ma un cervello artificiale di quel tipo non arriverà mai a riconoscere un cane da un gatto, cosa che un bambino di pochi mesi sa fare».
E allora? Allora bisogna partire da qualcosa di completamente diverso. Un cervello artificiale che sia tutto hardware, costituito di materia organica capace di svilupparsi da sola, funzionando con la modalità dei frattali, che si moltiplicano restando uguali a se stessi. Anirban c’è riuscito, utilizzando le nanotecnologie, che erano il suo campo di ricerca finché il padre non ha avuto un ictus «e mi sono chiesto che cosa potevo fare per riparare il suo cervello».
Quattro sono i principi “assolutamente innovativi” su cui lavora il prof. Bandyopadhuyay per costruire un cervello biologico artificiale:
- non è necessario il software. Le istruzioni sono codificate all’interno del materiale organico;
- deve funzionar con bassa energia (24/ 25 Watt) come il cervello reale. «Il futuro è della tecnologia a bassissimo consumo energetico, anche per le apparecchiature che utilizziamo quotidianamente», profetizza;
- deve poter imparare dall’esperienza. Come i bebè, diventa più intelligente crescendo. Il processore deve poter cambiare i suoi circuiti mentre impara, come fa il cervello umano.
- deve possedere i sette livelli di intelligenza, le “seven lands of wonders” codificate già nei Veda (che Anì conosce bene e difatti la sua piattaforma per creare la macchina superintelligente si chiama Brahma). Si tratta di:
- un buon livello di elaborazione delle informazioni;
- l’associazione degli eventi presenti con quelli del passato;
- la correlazione tra eventi diversi;
- la previsione del futuro;
- la ricostruzione indiziaria del passato;
- l’immaginazione di passato e futuro a partire da minimi input sensoriali;
- la coscienza, o livello dell’identità.
Come ottenere tutto ciò?
Bandyopadhyay ha messo a punto una sorta di gelatina, costituita da semplici molecole organiche della famiglia dei chinoni, inserite in un brodo di coltura e che vengono “istruite” attraverso input di luce laser, agenti chimici o campi elettrici che agiscono direttamente sulla materia, cioè sull’hardware, o se si vuole essere precisi sul wetware, fissando particolari parametri di simmetria negli oscillatori. In questo modo il concetto di “programmazione”diventa obsoleto. Le molecole si aggregano in clusters sempre più grandi e con diversi livelli di frequenza, che simulano le aree del cervello e si specializzano in attività diverse ma correlate. Dunque l’intelligenza artificiale non ha più l’aspetto metallico e rigido del robot o del computer; è piuttosto una gelatina apparentemente amorfa, ma composta di molecole organiche complesse, capaci di interagire tra loro creando dei frattali che ripetono in ogni livello la stessa struttura ramificata. Esistono già.
Quali le applicazioni? “Infinite”, spiega il professore, ad esempio robot che imparano dall’ambiente e che possono affrontare situazioni nuove. Più prossima nel tempo la possibilità di costruire entità intelligenti di ogni dimensione, dal nano al mega. “Già esistono i nanobots (capsuline intelligenti) che possono essere iniettati nel corpo umano e distruggere selettivamente le cellule malate”. Quello a cui sto lavorando è la creazione dei nanobrains, una sorta di nanochirurghi in grado di operare il cervello dall’interno, e di rimuovere i grumi di sangue in una emorragia cerebrale. Stiamo già facendo i test nelle cellule umane. E stiamo affrontando in modo assolutamente innovativo l’Alzheimer. I nanobrains potranno rimuovere le placche amiloidi, ma anche lavorare sui microtubuli, le piccole strutture di micro-elaborazione dei segnali all’interno dei neuroni e ripararli evitando la denaturazione di proteine, alla base della malattia”. Quanto tempo ci vorrà? “Ci stiamo lavorando, con due strumenti: le differenti bande di frequenza dei biomateriali e l’azione fisica dei nanobrains. Ci vorrà del tempo, ma non dieci anni”.
Curiosa combinazione di attaccamento alla tradizione e di visione proiettata nel futuro, Anirban nel tempo libero si diletta di pittura tradizionale e di musica classica indiana Raga oltre allo studio del Sanscrito.
Viviana Kasam, per il Domenicale de Il Sole24ore (10/6/2012) (tutti i diritti riservati)