La polvere bianca d’oro degli alchimisti

white powder gold polvere oro
Immagine: summagallicana.it

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, cominciamo col dire cos’è la white powder gold. Si tratta, come appunto risulta chiaro dalla semplice traduzione dall’inglese, di una bianca polvere d’oro.

Essa è stata associata ad un elemento imprescindibile per la vita degli annunaki (abitanti del pianeta Nibiru, da cui deriverebbe la Terra), al pane bianco (o di luce) egizio, alla manna biblica, alla Sacra Arca dell’Alleanza, alla pietra filosofale degli alchimisti, alla panacea di tutti i mali, all’oro monoatomico, ad un superconduttore capace di ripristinare il DNA umano, alla materia capace di rendere invisibili, onniscienti, immortali, e capace di piegare lo spazio-tempo. Roba da niente insomma. Ma andiamo per gradi.

Secondo un’opinione abbastanza diffusa tra gli alchimisti, la polvere bianca d’oro avrebbe origini antichissime.

Si ritiene che le antiche popolazioni della Mesopotamia, in particolare i sumeri, fossero giunti a produrre ed utilizzare il platino o metalli pregiati affini. Negli antichi reperti sumeri (c.d. Old sumerian records), stando a certe interpretazioni e traduzioni della loro scrittura cuneiforme, vi sarebbe menzione di una “highward fire stone of white gold”, da cui si fa desumere che i sumeri avessero nelle loro disponibilità una particolare “pietra di fuoco, d’oro bianco” e avessero sviluppato una avanzata conoscenza della metallurgia.

Gudea, sovrano della città di Lagash, con ampi poteri di fatto in tutta la Mesopotamia centro-meridionale dal 2144 al 2124 a.C., fece costruire il tempio del dio Ningirsu, nel quale ci sono molte iscrizioni, alcune delle quali confermerebbero questa ipotesi:

Il pastore costruisce il tempio con metallo prezioso… Egli costruisce l’Eninnu con pietre preziose…

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Scrittura Cuneiforme – Immagine: Wikipedia

Altre fonti (Reverend James Baikie) riferiscono però, più precisamente, di polvere d’oro procurata presso la montagna di Khakku, e altre ancora (John M. Lundquist) di argento e oro in polvere estratti dalla montagna di Kimash, o di una pietra rossa (“fire stone”) che si trovava a Melluha.

Questa enigmatica polvere bianca sembra fosse in uso anche presso i babilonesi, che la chiamavano “an-na”, cioè “pietra di fuoco”. Quando questa pietra veniva lavorata in pani conici (“shem”) assumeva una forma conica, e quindi il nome di “shem-an-na”.

Anche gli antichi egizi erano a conoscenza di questa polvere mistica. Loro la chiamavano MFKZT. Lo sappiamo grazie alla spedizione dell’egittologo e archeologo inglese Sir William Matthew Flinders Petrie (1853–1942)

white powder goldQuesti, nel 1904, era in esplorazione presso l’altipiano del Sinai, sul monte Horeb, cioè il monte in cui – secondo la Bibbia – Dio diede i dieci comandamenti a Mosè. Oggi il monte è conosciuto col nome di Serabit El Khadim. Fu qui che egli ritrovò i resti di un antico tempio egizio dedicato alla dea Hator, risalente probabilmente al 2.600 a.C. circa.

In alcune zone del tempio (correlate soprattutto alla dodicesima dinastia dei faraoni), e di fronte alla Grotta-Santuario di Hathor appunto, Flinders Petrie trovò una grande quantità (diverse tonnellate) di polvere/cenere bianca purissima, priva di residui di carbone o di brace, che non si riuscì a identificare con certezza.

Un’ipotesi era che si trattasse della suddetta “shem-an-na. Ciò trovava riscontro in alcune incisioni e geroglifici rinvenuti nel tempio stesso: un personaggio alle spalle di Thutmosi IV e la Dea Hator che espone degli oggetti conici descritti come “pane bianco”; il tesoriere Sobekhotep che porge la Shem-an-na di forma conica al faraone Amenhotep III; Thutmosi III e Amenonhotep III che presentano il cono del pane bianco agli Dei. Altre iscrizioni indicavano tale polvere raggruppata in coni indicati come “pane bianco” o “pane di luce”. Facevano riferimento probabilmente proprio a tale sostanza, chiamandola “mfkzt” Alcuni studiosi hanno suggerito, in modo forse fantasioso, che questa parola dovrebbe pronunciarsi “mufkuzt”, ed è possibile che il suono di questa parola ricordi il rumore generato dal metallo nobile quando viene trasformato in polvere.

white powder gold -manna
Popolo d’Israele raccoglie la manna Immagine: Wikipedia

Accanto a un corpo fisico, gli Egizi credevano che gli uomini possedessero un “corpo di luce” (chiamato ka), che si credeva rimanesse in vita nell’ aldilà, ma che doveva anch’esso essere nutrito per svilupparsi e prosperare. Il cibo del ka era la luce, e la sostanza che generava la luce era la “mfkzt”, o polvere bianca ricavata dall’oro.

Queste scritte comunque suggerivano che sul monte Serabit, probabilmente, si produceva questa polvere bianca.

Non è neppure un caso che questo ritrovamento si ebbe sul monte Serabit, dove Dio diede i dieci comandamenti a Mosè. Infatti questa polvere viene nominata proprio nell’Esodo, come cibo del popolo d’Israele, dopo la fuga dall’Egitto: è la “manna” (vocabolo molto simile a “shem-an-na”).

“ […] evaporato lo strato di rugiada, apparì sulla superficie del deserto qualcosa di minuto, di granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal vista i figli d’Israele si chiesero l’un l’altro: «Che cos’è questo?» perché non sapevano che cosa fosse. E Mosè disse loro: «Questo è il pane che il Signore vi ha dato per cibo. Ecco ciò che ha prescritto in proposito il Signore: ne raccolga ognuno secondo le proprie necessità, un omer a testa, altrettanto ciascuno secondo il numero delle persone coabitanti nella tenda stessa così ne prenderete».

Così fecero i figli d’Israele e ne raccolsero chi più chi meno. Misurarono poi il recipiente del contenuto di un’omer; ora colui che ne aveva molto non ne ebbe in superfluo e colui che ne aveva raccolto in quantità minima non ne ebbe in penuria; ciascuno insomma aveva raccolto in proporzione delle proprie necessità”

Nel Nuovo Testamento è anche scritto:

A colui che prevarrà, Io darò in cibo la manna segreta. E gli darò una pietra bianca”.

La Bibbia ci dice anche che la manna è contenuta anche nell’Arca dell’Alleanza, che Dio commissionò a Mosè.

white powder gold - arca dell'alleanza
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L’Arca è descritta nell’Esodo (25, 10-21; 37, 1-9) come una cassa di legno di acacia rivestita d’oro , al cui interno erano conservati un vaso d’oro contenente, un omer [unità di misura] di manna, la verga fiorita di Aronne e le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;). Replica of the Ark of the Covenant in the Royal Arch Room of the George Washington Masonic National Memorial. Photo by Ben Schumin on December 27, 2006.

Leggenda vuole che l’Arca fosse in grado di adornarsi di un alone di luce, e che da essa potessero scaturire lampi e fulmini (vedremo più avanti come questo aspetto sarà funzionale ad alcune teorie “moderne”).

Queste testimonianze sono tutte accomunate dal fatto che tale polvere sembra essere commestibile, ed avere proprietà misteriose, forse medicamentose. Forse si trattava di una sorta di elisir di lunga vita. La manna era il cibo del Signore, la shem-an-na e l’mfkzt erano pane bianco, ingerito da antichi popoli mesopotamici e da faraoni.

Tutto ciò ha certamente dei punti di contatto con l’alchimia.

Il termine alchimia deriva dall’arabo, al (articolo) e kimiyà (pietra filosofale). Quest’ultima parola discenderebbe dal termine greco khymeia (fondere, colare insieme) a sua volta derivato da khumatos (lingotto). Un’altra etimologia vuole che questo termini derivi invece dall’egizio Al Kemi (l’arte egizia: gli antichi egizi chiamavano la loro terra Kemi, e nel mondo antico erano considerati potenti maghi). Il vocabolo potrebbe infine derivare dal termine cinese kim-iya (succo per fare l’oro).

Le autentiche origini dell’alchimia sono ancora controverse, ma è opinione comune che si possa distinguere un’alchimia occidentale – derivata dall’antico Egitto, attraverso i greci, gli antichi romani, il mondo islamico e l’Europa – e un’alchimia orientale, connessa al taoismo cinese. La prima, secondo la leggenda, risalirebbe al dio Thot, chiamato Ermes-Thoth o Ermes il “tre volte grande”, meglio noto col nome greco di Ermes Trismegistus. Egli avrebbe scritto i quarantadue libri della conoscenza, che avrebbero coperto tutti i campi dello scibile, fra cui anche l’alchimia. La Tavola di Smeraldo di Ermes Trismegistus è generalmente considerata la base per la pratica e la filosofia alchemica occidentale.

La seconda alchimia (quella orientale) deriva probabilmente dal Ts’an T’ung Ch’i ( 142 a.C.). Si tratta di un commentario al Libro delle Mutazioni, in cui l’autore (Wei Po-Yang) afferma che i contenuti del libro stesso, delle dottrine taoiste e dei procedimenti alchemici, siano variazioni di un’unica materia con nomi diversi.

Va accennato che altri studiosi fanno risalire a periodi e circostanze diverse le origini dell’alchimia, sulla cui discussione non possiamo tuttavia dilungarci in questa sede.

È comunque oggetto di disputa se questi due filoni (occidentale e orientale) abbiano avuto una comune origine, e/o si siano vicendevolmente influenzati.

Mentre l’alchimia occidentale era più incentrata sulla trasmutazione dei metalli (pietra filosofale), quella orientale era maggiormente connessa con la medicina (immortalità – elisir di lunga vita). Questi due filoni, con i relativi interessi, possono comunque essere considerati in un unicum, per cui la pietra filosofale era spesso equiparata all’elisir di lunga vita, e viceversa.

I grandi obiettivi dell’alchimia erano comunque tre: conquistare l’onniscienza; trasmutare i metalli vili in oro; creare la panacea universale.

Il fine ultimo di ogni alchimista era la creazione di una sostanza (che poteva essere una polvere, una pietra, o un liquido) che permetteva la realizzazione dei tre grandi obiettivi alchemici. Questa sostanza è nota con il nome di “pietra filosofale”.

L’alchimia è, secondo una definizione di H. Sheppard: “l’arte di liberare parti del Cosmo dall’esistenza temporale e di raggiungere la perfezione che per i metalli è l’oro, per l’uomo la longevità, poi l’immortalità e infine la redenzione“.

Nel Medioevo l’alchimia sviluppò molteplici aspetti che nella sua tradizione occidentale tuttora la caratterizzano. Essa si strutturò in tre principali settori: l’alchimia metallurgica (basata sulla perfezione dei metalli), l’alchimia farmacologica (basata sul corpo umano e sull’elisir di lunga vita) e l’alchimia spirituale (basata sulla incorruttibilità e sulla salvezza spirituale dell’essere umano). Tutti comunque accomunati dall’idea di perfezione materiale, raggiunta tramite il ritorno allo stato di materia prima.

La lettura dell’alchimia come arte della trasmutazione di metalli in oro era comprensibilmente oggetto di interesse per le corti e i sovrani, avidamente interessati all’aspetto materiale. Anche la curia papale si interessò di alchimia, per le medesime ragioni veniali ma anche nella misura in cui veicolava l’idea di un prezioso elixir, oro potabile, o quintessenza, capace di donare l’incorruttibilità.

Come ha scritto Serge Hutin:

Il processo alchemico produce la perfezione della materia attraverso una serie di operazioni che mirano alla creazione di un medio capace di unire stabilmente il corpo (cioè la solidità propria della materia) e l’anima (cioè il carattere di incorruttibilità proprio della sostanza spirituale). Il medio, per essere tale, deve unire in sé gli opposti: l’oro opera questa congiunzione a livello dei metalli, ed è dunque il prodotto ricercato da quanti considerano l’alchimia una pratica a livello puramente metallurgico; l’elixir come agente materiale della perfezione di tutte le cose congiunge in sé il carattere immutabile della pietra con quello generativo della vita; la quintessenza appare come la manifestazione del principio unitivo vero e proprio, materia prima da cui tutta la realtà ha origine, ma raffinata e purificata in modo tale da manifestare il suo carattere di spirito; e l’oro potabile costituisce il farmaco sovrano, che unisce l’incorruttibilità del metallo e l’assimilabilità del nutrimento”.

Già Teofilo (monaco del XII secolo) aveva parlato dell’oro spagnolo, ottenibile a partire dal rame, pur senza alcun accenno alla commestibilità di quest’ultimo né a presunti elisir. Per la creazione dell’oro spagnolo necessitavano ingredienti quali rame rosso, sangue umano, aceto, e polvere di basilisco:

“[…] con la polvere macinata dei basilischi, unita a un terzo di sangue essiccato e macinato di uomo dai capelli rossi, e temprata con aceto molto forte in un recipiente pulito si può trasformare il rame in oro. Prese sottili foglie di rame rosso purissimo, si ricoprono del preparato e si mettono sul fuoco, quindi si tolgono quando sono diventate bianche dal calore e dopo averle di nuovo immerse nel composto si lavano e si ripete l’operazione finché il composto non ha “mangiato” tutto il rame. Così si ottiene oro adatto a qualsiasi opera”.

Le virtù medicinali dell’oro erano tramandate da una tradizione antichissima, e sembravano trovare conferma in alcuni scritti del XIII secolo, dove l’oro è di nuovo menzionato come elemento commestibile e dalle proprietà guaritrici.

Avicenna
Immagine: Wikimedia Commons

Ne parlò già verso la metà del 1200 Avicenna, il “principe dei medici”, il cui Canone costituì per decenni un autorevole testo di riferimento per la medicina.

L’idea che oltre ai quattro elementi che compongono la materia (terra, acqua, aria, fuoco) esistesse una quinta sostanza incorruttibile (quintessenza), era già nota nel Medioevo. La quintessenza poteva esprimere in sé tutte le proprietà e le qualità dei quattro elementi della materia, anche se contraddittorie tra loro: ad un tempo bruciare ed essere liquida (fuoco e acqua). E il prodotto della distillazione del vino, che dalla metà del duecento aveva interessato gli ambienti medici occidentali, era proprio acqua ardente.

Così, quando iniziarono a diffondersi i vini medicinali (vino infuso in sostanze medicamentose) si iniziò a proporre anche una nuova ricetta: il vino “aurificato”, nel quale cioè era stato tenuto l’oro in infusione (sotto forma di barretta, lingotto, foglia, limatura ecc).

Ne parlò certamente già Arnaldo da Villanova (ca.1240-1311), medico presso la corte spagnola nonché presso il pontefice Bonifacio VIII. Egli era interessato a rendere più efficace la pratica della medicina (fu autore di opere mediche) e a tale scopo non disdegnava di ricorrere ad un approccio alchemico. Si occupò anche di distillazione.

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In una lettera sull’alchimia scritta al Re di Napoli, ecco come egli si esprimeva:

Sappi, o Re, che i sapienti misero nelle loro opere molte cose e molti modi di procedere, come ad esempio: il dissolvere, il coagulare e molti vasi e pesi; ciò fecero, per accecare gli ignoranti e per dichiarare solo agli intelligenti il loro Opus. E nota, o Re, che i sapienti hanno rivelata l’Opera con poche parole, sebbene ve ne abbiano aggiunte molte altre, affinché fossero compresi se non dai sapienti. Ed i sapienti, in verità, dissero che la pietra è una sola, ed è composta da quattro nature; queste quattro nature sono: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. 

E questa pietra, è simile alla pietra all’apparenza e al tatto, ma non nella sua natura; ed è chiamata pietra, come una cosa composta.

Questo composto, se è condotto per via retta, è ciò che si cerca; in lui non vi è nulla di superfluo o di mancante, anzi: tutto quello che è nella pietra è a lei necessario e non ha bisogno di nient’altro. E detto composto, ovvero pietra, è di una sola natura, ed una sola cosa; la qual cosa, nella decozione del fuco, assume diversi colori prima di diventare il lapis bianco e perfetto. 

E nota, o Re, che più l’anzidetta pietra sta nel fuoco, tanto più aumenta la sua qualità: il che non avviene per tutte le altre cose, le quali, nel fuoco bruciano e perdono l’umidità radicale. La suddetta pietra, tutta sola nel fuoco, sempre migliora e accresce la sua qualità; e il fuoco è il suo nutrimento. Questo, è uno dei segni evidenti per riconoscere il lapis stesso, e ciò intendi bene”.

La ricerca farmacologica passava così attraverso il miglioramento dell’abilità di preparazione dell’oro medicinale. E proprio la distillazione rappresenta il passo successivo in questa ricerca. Fu Giovanni da Rupescissa a scrivere, nel 1351-52, il Liber de consideratione quintae essentiae, nel quale unificava pratica alchemica e tecnica distillatoria del vino.

Liber de consideratione quintae essentiae
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Attraverso il surriscaldamento dell’oro (o la calcinazione della sua polvere), la sua infusione nel vino, e successive distillazioni, si otteneva la quintessenza, il principio occulto nei corpi materiali, l’unitarietà che si cela dietro l’apparente dualismo spirito-materia. Di fatto una panacea, una medicina universale, un elisir di eterna giovinezza. Il c.d. “oro potabile”, qualcosa di simile al farmaco taoista che avrebbe garantito l’immortalità.

Si affermava sostanzialmente l’idea di una quintessenza dell’oro.

Prima ancora era stato Ruggero Bacone (1214 circa –1294) a parlare dell’oro alchemico come inesauribile fonte di ricchezza per la cristianità, ma anche come medicinale capace di prolungare la vita.

Il filosofo e missionario catalano Raimondo Lullo (1235 – 1316) si dice che abbia invece trasmutato oro e argento in rame e ferro, praticando cioè una trasmutazione inversa, salvo poi praticare quella “giusta”, più redditizia, per il re Edoardo III d’Inghilterra. Si racconta che Edoardo avesse predisposto per Lullo un laboratorio all’interno della torre di Londra. Grazie alle sue trasmutazioni vennero così forgiate delle monete d’oro soprannominate “raimondini”: i “Rose Nobles”.

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Pare che Edoardo III si fosse impegnato a non usare le monete d’oro contro i cristiani, bensì soltanto per la preparazione di una crociata contro i Turchi. Invece si servì di quest’oro per invadere la Francia nel 1337. Raimondo Lullo si sarebbe allora rifiutato di compiere altre trasmutazioni, e per questo venne rinchiuso prigioniero nella stessa torre, dalla quale riuscì comunque ad evadere per tornare a Maiorca.

Elias Ashmole, nel suo Theatrum Chemicum Britannicum, scrisse che:

Secondo una verità non scritta, dell’oro sarebbe stato fatto per proiezione o moltiplicazione alchemica da Raimondo Lullo, nella torre di Londra. Questi pezzi d’oro, secondo questa tradizione, ne recano la prova scritta. Sul diritto vi si vede incisa l’immagine di un re su una nave, per indicare che era il signore dei mari, ed al rovescio si vede una croce fiorita con leoncelli su cui sta scritto: Iesus autem transiens per medium eorum ibat. Ovvero: così come Gesù passava invisibile e nel modo più segreto in mezzo ai Farisei, così quest’oro è stato fatto per mezzo di un’arte segreta ed invisibile in mezzo agli ignoranti”.

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Michael Maier (1568 – 1622) medico e alchimista che fu alla corte di Rodolfo II, avrebbe confermato questa tesi nel suo Symbola aureae mensae, nel quale c’è un passo dove è scritto che Raimondo, nella Torre [di Londra], ha fatto dell’oro puro, successivamente chiamato “i nobles di Raimondo”, di cui Maier stesso avrebbe visto alcuni esemplari.

Spostiamoci ora al XV secolo, durante il quale visse un noto alchimista francese dal nome di Nicolas Flamel.

Egli stesso disse che, nel XIV secolo, venne in possesso del “Libro di Abramo l’Ebreo”, che lo avrebbe ispirato ad intraprendere la sua ricerca sui segreti dell’alchimia. Grazie all’aiuto di tal Maestro Chances, di Lione (morto poco dopo), egli sarebbe presto giunto a comprendere i segreti di quel libro. La legenda vuole che Flamel riuscì nella trasmutazione del piombo in argento nel gennaio del 1382, e poco dopo in quella del piombo in oro. Analoga trasmutazione sarebbe poi riuscito a compierla con la sua anima. Non si conosce con certezza la data né la circostanza della morte di Flamel, e si crede infatti che egli avesse per primo raggiunto il massimo obiettivo dell’alchimia: creare la pietra filosofale, che dona l’immortalità.

Amans-Alexis Monteil (1769 – 1850), storico francese, scrisse che Flamel era stato visto, vivo e vegeto insieme a sua moglie Perenelle, circa quattrocento anni dopo la sua morte. È un fatto che la sua tomba venne ritrovata vuota.

Nicolas Flamel
Nicolas Flamel, immagine Wikipedia

L’archeologo Paul Lucas, testimoniò nel libro Voyage dans la Turquie (1719), che durante una spedizione a Bursa per conto del re Luigi XIV aveva avuto notizie di Flamel da un filosofo appartenente ad un gruppo di Sette Saggi. Uno dei sette era Flamel, e possedeva la Pietra Filosofale. Il saggio gli rivelò che Flamel e Perenelle erano vivi, e si trovavano in India.

In quello che si ritiene essere il testamento di Flamel, scritto in linguaggio criptato per su nipote, egli spiega diverse procedure alchemiche e vi si legge che: “quando il più nobile metallo [oro] era essiccato e fissato, dava come risultato una polvere fine [polvere d’oro], e questa polvere era la Pietra Filosofale”.

Anche l’alchimista Eirenaeus Philalethes si era riferito alla pietra filosofale sotto forma di polvere d’oro. Scriveva nel suo Introitus apertus ad occlusum regis palatium (Amsterdam, 1667) che:

La nostra pietra non è altro che oro assimilato al più alto grado di purezza e sottile fissazione […] Il nostro oro, non più volgare, è lo scopo ultimo della Natura”. Oro purissimo dunque, che però è polvere [sottile] e si chiama pietra in quanto è fissa, stabile, capace di resistere all’azione del fuoco.

Rodolfo II
John Dee. Imm. Wikimedia

Presso la corte dell’imperatore Rodolfo II, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1576 al 1612, il geniale John Dee (1527–1608) si narra che compì una trasmutazione del piombo in oro, davanti a testimoni.

Il fisico tedesco Johann Frederick Schweitzer (1625-1709) detto Helvetius (forse già medico del principe D’Orange), racconta nel suo libro The Golden Calf, che nel 1666 ebbe un incontro fatidico con uno sconosciuto alchimista che gli avrebbe lasciato in dono una polvere metallica custodita in una scatola d’avorio, con la quale – gli disse – avrebbe potuto tramutare in oro un’oncia e mezzo di piombo.

Johann Helvetius tentò l’esperimento davanti alla moglie e ai figli, seguendo le istruzioni dello sconosciuto alchimista. Riuscì a produrre oro autentico. L’ispettore della zecca olandese Porelius fece valutare l’oro dal gioielliere Brechtel, il quale dichiarò che l’oro in questione aveva una caratura perfino maggiore dell’oro naturale.

Recentemente poi, la stessa sorte di Flamel sembra essere toccata a Fulcanelli, pseudonimo di un autore di libri di alchimia del XX secolo, la cui identità non è nota. Menzionato anche ne L’alchimista di Paulo Coelho, Frank Zappa gli ha dedicato una canzone intitolata But who was Fulcanelli?

Johann Helvetius
Johann Helvetius. Imm. Wikimedia

Le sue opere furono pubblicate in Francia dal suo fedele discepolo Eugene Canseliet, che ne preserverà l’anonimato, tanto da venire sospettato di essere lui il vero Fulcanelli. Anche Julien Champagne , il suo illustratore morto nel 1932, non rivelò mai l’identità di Fulcanelli, così anch’egli fu sospettato insieme a Canseliet. Da dichiarazioni di quest’ultimo sappiamo che Fulcanelli aveva “completato l’Opera” (probabilmente nel 1926), aveva cioè ottenuto la pietra filosofale, e si era reso irreperibile, forse invisibile. Canseliet lo avrebbe rincontrato nel 1952 a Siviglia, in un castello. Secondo le sue parole, Fulcanelli aveva 113 anni ma ne dimostrava quanti lui (cioè 53).

Secondo un’altra leggenda Fulcanelli sarebbe l’attuale nome assunto da Flamel stesso, evidentemente ancora vivo.

Il vero merito di Fulcanelli è comunque quello di essere stato un autentico alchimista dei tempi moderni, anzi l’ultimo alchimista. Come scrisse Paolo Lucarelli, egli fu:

alchimista operativo nel senso più antico del termine ricostruiva, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi sperimentale con un dettaglio e una precisione mai visti prima“.

E Fulcanelli nei suo scritti accenna all’oro potabile come anima del mondo, spirito universale, sperma della natura e principio di fertilità, moltiplicazione e prosperità di tutto il mondo.

Un suo terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae Mundi, sarebbe un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune inquietanti scoperte che legano il mondo degli antichi alchimisti a quello dei fisici nucleari.

E con la fisica nucleare moderna – come vedremo più avanti – la nostra polvere d’oro sembra avere un qualche legame.

La questione dell’oro in polvere torna prepotentemente alla ribalta nel 1995 quando, al Forum on New Science a Fort Collins (Colorado), si parla di Orbitally Rearranged Monoatomic Elements (ORMEs), ovvero di oro monoatomico, e delle sue immense potenzialità. Qualche mese dopo (già 1996) “Nexus Magazine” pubblicava un articolo in cui si raccontava come David Radius Hudson aveva fortunosamente scoperto questa polvere nel suo appezzamento di terra. Si trattava di un super-conduttore capace di interagire con il DNA umano, migliorandolo.

Vi si legge: “questa sostanza elusiva [sfuggente, inafferrabile] non solo ha proprietà di super-conduttore che trascendono il tempo e lo spazio, ma è in grado di elevare la coscienza umana e ripristinare un perfetto stato di salute”.

Nel 2002 venne ritrovata una sostanza polverosa bianca all’interno di un cerchio nel grano, a Sompting, che fece molto scalpore. Alcuni ritennero che si potesse trattare della polvere d’oro alchemica. Si determinò poi che quella polvere conteneva biossido di silicio, e quell’episodio venne collegato allora con il cerchio nel grano di Chilbolton (2001), che si riteneva fosse una risposta aliena ad un messaggio invitato nello spazio dal SETI. Conteneva infatti, stilizzate nel grano, le stesse informazioni di quel messaggio, con l’aggiunta dell’indicazione del silicio nel DNA umano.

Nel 2004 accadono due eventi che portano nuovamente alla ribalta questa tematica.

1) Laurence Gardner (1943 – 2010), saggista e docente di revisionismo storico britannico, da alle stampe uno dei suoi tanti libri controversi: “Le misteriose origini dei Re del Graal”.

In questo libro si parla, tra le altre cose, della nostra white powder gold, ripercorrendone le presunte origini e magnificandone le proprietà, accennando anche a possibili futuri utilizzi in campo medico e ingegneristico.

2) Il 9 maggio a Torino si tiene un molto pubblicizzato seminario di Alchimia e Spagyria, in gran parte incentrato proprio sull’oro monoatomico e sulle sue incredibili proprietà.

In breve, tra il 1996 e il 2004 si diffonde l’idea che questa misteriosa polvere magica abbia le seguenti proprietà: antigravitazionalità, cura del cancro, superconduttività, capacità di piegatura dello spazio-tempo, capacità di trasformazione dei fenomeni biologici, fisiologici e psicologici verso “livelli vibrazionali” più alti.

Gardner sosterrà poi che l’Arca di Mosè (nella quale come abbiamo detto è contenuto 1 omer di manna) si trova ancora nel luogo in cui venne nascosta originariamente nel 1307, cioè sospesa sopra il labirinto di Chartres. Ma grazie a questa polvere d’oro è invisibile, perché proiettata in una dimensione parallela.

Sitchin, imm. Wikimedia

Infine è opportuno un accenno alla teoria di Zecharia Sitchin (1922 – 2010), scrittore contemporaneo atzero con passaporto statunitense, che ci riporta all’inizio del nostro articolo, cioè ai Sumeri. A lui fa capo infatti la c.d. “teoria dell’antico astronauta”, secondo la quale la creazione dell’antica cultura sumera è dovuta alla razza aliena dei Nephilim (in ebraico) o Annunaki (in sumero), proveniente dal pianeta Nibiru, un pianeta del sistema solare non più esistente, ma già presente nella mitologia babilonese.

Secondo Sitchin la Terra si sarebbe originata da un catastrofico impatto tra Nibiru ed un altro pianeta che si trovava tra Marte e Giove: Tiamat. Nibiru sarebbe stata popolata da una razza tecnologicamente avanzata e simile a quella umana, gli Anunnaki (che compaiono nella Bibbia col nome di Nephilim ed Elohim).

Secondo Sitchin gli Annunaki sarebbero arrivati sulla terra circa 450mila anni fa, alla ricerca di minerali e in particolare d’oro, il quale era necessario per riparare la loro atmosfera rarefatta. Sitchin ha congetturato infatti che su Niburu fossero presenti finissime polveri d’oro, capaci di stabilizzarne l’atmosfera. Successive speculazioni hanno voluto vedere nel fenomeno delle scie chimiche un piano di modificazione della biosfera terrestre, allo scopo di renderla adatta ad esseri con un metabolismo ed un genotipo diversi da quello umano: gli Annunaki appunto.

Oggi la white powder gold si vende in pastiglie, polvere e fialette, anche su vari siti internet.

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Immagini da vari siti internet

Se state però pensando di acquistarla, vi consigliamo prima di ultimare la lettura di questo articolo.


La fantastica e affascinante storia fin qui esposta potrebbe essere raccontata da un differente punto di vista, se solo ci proponessimo di mettere sotto la lente di ingrandimento ciò che sembra non quadrare.

Ufficialmente la scoperta del platino è datata ai primi anni del 1800. L’ipotesi secondo cui gli antichi sumeri fossero già in grado di produrlo, o di farne uso, si fonda su basi precarie e sembra azzardata. Ciò che sappiamo con certezza è che i sumeri per costruire e adornarne utilizzavano vari materiali, tra cui – nonostante la mancanza di pietre della regione mesopotamica – alcune pietre come la diorite (di grande uso anche presso gli egizi). Assunto che il concetto di “prezioso” è relativo al tempo e al contesto nel quale viene utilizzato, non c’è ragione per ritenere che le “pietre preziose” dei popoli mesopotamici debbano riferirsi proprio al platino.

La “Sham-an-na” dei babilonesi e degli egizi sembra invece essere più un contenitore (una pietra focale di forma conica) che non un contenuto, a meno che non si voglia applicare un processo interpretativo secondo il quale la riduzione in polvere di questa pietra focale costituisca la shem-an-na stessa, e che questa sia proprio la polvere bianca qui presa in esame.

E cos’era veramente la polvere ritrovata nel 1904 dalla spedizione di Petrie?

Molti ritengono si trattasse di turchese polverizzato (la zona era infatti ricca di miniere per l’estrazione del turchese, già utilizzate con certezza durante l’epoca faraonica). Ma il turchese è verde. Quindi altri ritengono si trattasse di residui di fusione del rame, che però producono un materiale scuro. Improbabile sembrò anche l’ipotesi che potesse trattarsi di scorie dell’estrazione del manganese delle adiacenti miniere di Umm Bughma, o di residui di combustioni di ossa (per assenza di residui biologici all’interno di queste ceneri bianche) come pure di vegetali o di alcali. Poteva forse trattarsi di ceneri derivate dall’uso di fuochi a scopo religioso, ma le fumigazioni erano una pratica più diffusa tra i semiti che non tra gli egizi.

Allora cosa?

Si tratta del contenuto della pietra focale conica? Si tratta di un altro nome per indicare la stessa cosa (la “Shem-an-na”)? O di altro ancora? Difficile dirlo. Forse per nostra ignoranza, ma non siamo a conoscenza di analisi chimiche e scientifiche svolte su questa polvere, che certamente potrebbero diramare molti dubbi.

Tuttavia è bene sapere che durante l’ottava dinastia la regina Hat-Shep-Sut restaurò il tempio di Hathor e fece costruire nelle immediate vicinanze un santuario per il Dio “Sopdu”. Questa divinità, tra le principali adorate nella zona di Serabit, è conosciuta anche con il nome di Horus di Shesmet, il cui nome compare infatti negli antichissimi testi delle piramidi. Negli stessi testi compare anche il nome della “Dea Shesmet.t”, variante rituale della Dea Hathor, e compagna di Horus. Il fatto interessante è però che lo “Shesmet” è anche un minerale (la formula 1784-1785 di Faulkner così recita: “Il Faraone è legato a questo suo seggio fatto di Shesmet”) che si estraeva, molto probabilmente, proprio nella zona Serabit e che dava il nome ad una sorta di cintura (“shesmet-girdle”) che il Dio “Sopdu” indossava abitualmente. Egli era infatti ritenuto un guerriero asiatico, raffigurato con una cintura e una lunga ascia, e si ritiene fosse considerato anche il protettore delle miniere della zona del Sinai.

Questo minerale riporta quindi abbastanza esplicitamente alla strana polvere bianca ritrovata nella spedizione di Petrie.

Cosa dire della “manna” citata nell’Esodo?

Dio SopduChe è citata come pane del Signore. Non come polvere d’oro. Del resto nella Torah, la manna è paragonata ad una pietra di cristallo, e in altri casi al Coriandrum sativum, pianta dai fiori bianchi con frutti aromatici che in antichità trovò impiego come pianta medicinale, ed è stata anche raffigurata in alcune tombe egizie come offerta rituale.

Se poi la Bibbia dice che la manna era contenuta nell’Arca della Sacra Alleanza, è pur vero che al momento dell’inaugurazione del Tempio di Salomone essa conteneva soltanto le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2 Cronache 5, 2-10).

Anche qui l’interpretazione “mistico-alchemica” che se ne vuole dare sembra unidirezionale e forzata, come pure precario appare il nesso di diretta derivazione con i precedenti sumeri, mesopotamici o egizi.

Veniamo a Teofilo, di cui desta sorpresa l’inaspettata concessione al mondo della superstizione, del folclore e della magia, allorché egli descrive la sua ricetta su come creare l’oro spagnolo. Ma si trattava di una ricetta per ottenere oro “adatto a qualsiasi opera”, non essendoci alcun riferimento alla commestibilità, né ad elisir di lunga vita, o a particolari proprietà mistiche.

Come è scritto su Wikipedia:

Non è possibile dare una spiegazione razionale secondo la nostra mentalità a questa ricetta, ma in fondo non è neanche necessario volerla ridurre ai nostri schemi mentali, piuttosto è più interessante valutare quali conoscenze e quale humus culturale avevano portato a rendere plausibile una credenza del genere ai tempi di Teofilo

 […]

In definitiva quindi Teofilo in questa ricetta avrebbe incorporato inconsapevolmente un brano alchemico alla deriva nel sapere europeo medievale, e lo avrebbe collocato in un contesto completamente estraneo all’alchimia, arricchito però da rimandi a una fitta rete di suggestioni del sapere tradizionale di stampo orale”.

Inoltre Teofilo descrive un processo di trasformazione, non di trasmutazione (che è invece un processo tipicamente alchemico). La differenza è sostanziale perché quest’ultima implica un totale e perfetto mutamento della sostanza, attraverso l’operato di un alchimista che, in primis, riporti il metallo vile allo stato liquido per poi riequilibrarlo con esalazioni di zolfo e mercurio, per poi ri-solidificarlo in oro (l’alchimista”solve et coagula”). Evidente che questo non sia il caso di Teofilo.

Non ci sembra partecipe di questa storia neppure Avicenna. Personaggio controverso e indubbiamente geniale, filosofo, medico, matematico di grande valore. Autore del “Canone della medicina”, un testo che sarà di riferimento per tutta la medicina fino al 1700. Ciò che lo rese invece una autorità tra gli alchimisti fu il “De anima in arte alchemiae”, che tuttavia è da ritenersi quasi certamente apocrifo. Egli era anche sperimentatore, ma sembra certo che fosse un nemico dell’alchimia, e che la osteggiasse apertamente. Nel suo “De congelatione et conglutinatione lapidum” era contenuta una critica radicale alla possibilità della trasmutazione. Se anche avesse mostrato interesse per l’alchimia, o se avesse parlato di un elisir di lunga vita, non per questo egli ci sembra parte in causa della storia che qui stiamo raccontando.

Diverso forse il caso di Arnaldo da Villanova, sicuramente molto addentrato nel mondo alchemico, e i cui testi sembrano avere un richiamo più esplicito alla polvere bianca di cui stiamo qui discorrendo. Tuttavia il “Lapis” di cui egli parla nella lettera al Re di Napoli, è verosimilmente da intendersi più su un piano allegorico – metaforico che non concreto: la pietra è la nostra natura (di zolfo,mercurio e sale) e l’iniziatico è come una pietra grezza e nera (alla stregua del piombo di Saturno). Questa pietra va estratta dalla miniera (l’uomo sociale, collettivo) e separato dal mercurio (isolato dalle influenze esterne, finché soffrendo non liberi il suo spirito). Al termine di questo processo si ottiene il lapis (la pietra, la natura umana) bianco, puro, purificato…

Ma quand’anche non volessimo convenire su una interpretazione allegorica, sarà bene tenere nella dovuta considerazione il fatto che l’alchimia – oggi considerata più come una sorta di proto-chimica e di proto-medicina – nel Medioevo era ritenuta una vera e propria scienza, ed era largamente praticata. In essa la componente scientifica era fortemente mescolata a quella “magica”.

Citando Enrico Galavotti:

“Nel medioevo fu molto sviluppata l’alchimia, perché si credeva, a torto, di poter ottenere l’oro fondendo lo zolfo col mercurio”.

Così, non è difficile trovare alchimisti che discorrevano (non necessariamente con riscontri pratici o efficaci) su tematiche come la conversione del metallo in oro, o la quintessenza, o la panacea, piuttosto che l’onniscienza. Diverso (e ben più complesso ed aleatorio) è unificare tutte queste voci in un’unica nomenclatura (“white powder gold”), da intendersi come elemento presente in modo inequivocabile e costante dai sumeri ai nostri giorni, e come sostanza dalle proprietà onnicomprensive.

Chiarito questo equivoco, occupiamoci brevemente anche di Raimondo Lullo.

A Lullo furono attribuite dai suoi seguaci (ad esempio Tommaso de Myésier, nel testo Electorium Remundi) numerose opere a carattere alchemico, ma i più illustri esperti sono d’accordo nel ritenerle quasi certamente tutte apocrife. Ad esempio il libro De Secretis Naturae, pubblicato nel 1541 a nome di “R. Lullo”, era probabilmente la copia del De Secretis Naturae fatto bruciare da papa Gregorio XI nel 1372. L’autore era tal Raimundo de Terraga, un ebreo convertito dedito alle scienze occulte, che visse “por los anos 1370, esto es en siglo en que muriò Ramon Lull”. Chi volesse approfondire questi aspetti troverà abbondante materiale negli scritti dello storico spagnolo J.R. de Luanco, e nel “Biblioteca Chimica”, di J. Ferguson.

Su Lullo non c’è comunque alcun riferimento esplicito a nulla che possa somigliare alla polvere d’oro bianca, mentre numerosi sono i nessi con il tema della semplice trasmutazione di metallo vile in oro. Ai nostri fini quindi, ci interessa marginalmente.

Le monete d’oro di cui si narra egli fosse l’artefice (le “Rose Noble”) furono in commercio per molto poco tempo, poiché venivano esportate in Europa (dove valevano di più) a scopo di lucro. Questo poco tempo corrisponde a pochissimi anni durante il regno di Edoardo IV, tra il 1464 e il 1470. All’epoca Lullo era morto da tempo.

Si è ritenuto allora che le monete furono sì coniate sotto Edoardo IV, ma con l’oro che Lullo aveva trasmutato durante il regno di Edoardo III. Si ritiene, come detto, che Lullo smise poi di trasmutare oro per Edoardo III quando questi ne fece uso per attaccare la Francia. Allora Lullo fuggì dall’Inghilterra – dove il Re lo aveva fatto imprigionare perché egli si rifiutava di trasmutare altro oro. La dimostrazione di ciò sarebbe la frase incisa sul retro delle “Rose Noble”:

Iesus autem transiens per medium eorum ibat.

Rose Noble
Immagine: Wikipedia

Cioè: ma Gesù passando in mezzo a loro se ne andò.

Questa frase secondo alcuni doveva riferirsi a Lullo, che come Gesù in mezzo ai farisei, lasciò l’Inghilterra in mezzo agli inglesi, senza essere notato. O secondo altri doveva significare che quella moneta era stata creata tramite un’arte invisibile in mezzo agli ignoranti come invisibile fu Gesù in mezzo ai farisei.

Interpretazioni legittime ma opinabili, che non costituiscono affatto prova. Leggende più che altro. Come quella secondo la quale l’oro di queste monete dovesse essere necessariamente trasmutato.

Giovanni da Rupescissa fu invece, tra le altre cose, autentico alchimista, e come tale interessato a trasmutare i metalli in oro (tema affrontato nel suo Liber Lucis) e a creare la panacea universale (tema affrontato nel suo De quinta essentia). Non sembra tuttavia che questi due interessi (comuni del resto a tutti gli alchimisti) trovino una sintesi in nulla che somigli ad una commestibile polvere d’oro. Nel primo caso, la trasformazione dei metalli in oro, rappresenta per Rupescissa una risorsa materiale per soccorrere i poveri. Nel secondo caso, alla quintessenza “che possa conservare dalla putrefazione il corpo umano, soggetto a corruzione”, si giungerebbe attraverso la teoria umorale (di Ippocrate di Coo), medicamenti a base di alcool, e ripetute distillazioni di sostanze organiche.

Nulla di strano se – citando Paravicini Bagliani – l’oro potabile era uno strumento alchimistico “destinato a radicarsi con forza nella coscienza culturale europea fino a diventare l’ elixir per eccellenza, il principale veicolo sul quale si concentrarono per secoli e fino al XVIII sec. le aspirazioni occidentali ad un’estensione della propria vita e ad un ringiovanimento del corpo”.

In termini sintetici e brutali: la presenza dell’oro tra i materiali con cui ottenere la quintessenza, faceva di Rupescissa un alchimista, in un’epoca in cui si andava affermando tra gli alchimisti l’idea di una quintessenza dell’oro. Sic et simpliciter.

Semmai proprio queste presunte (e mai realizzate) proprietà dell’oro, e la convinzione che questo si potesse ottenere in via alchemica, spiegano perché i regni barbarici europei del basso medioevo furono – a differenza di altre civiltà incentrate sulle attività mercantili – pessimi ricercatori ed estrattori d’oro (ad eccezione di quello prelevato nei saccheggi o nelle crociate).

Nicolas Flamel invece, trascorse verosimilmente l’ultimo periodo della sua vita scrivendo libri di alchimia, e predisponendo la sua inumazione, che avvenne – per suo stesso volere – nella navata di Saint Jacques la Boucherie. La chiesa fu abbattuta durante la Rivoluzione, e adibita a deposito di armi e munizioni. Della originaria chiesa rimase ben poco, e così pure della tomba di Flamel, che del resto era stata probabilmente già depredata in precedenza dalle guardie francesi inviate da Luigi XIII e da Richeliueu. La “scomparsa” di Flamel è così divenuta leggenda, e come tale non ci sono testimonianze “storiche” (leggasi attendibili) né elementi concreti – evidentemente! – a sostengo dell’ipotesi di una sua immortalità. Tra l’altro il libro da cui Flamel disse di aver estrapolato i saperi per creare la pietra filosofale, sarebbe – a suo stesso dire – imputabile ad “Abramo l’ebreo”. La ricostruzione più verosimile che possa dirci chi fosse quest’uomo (che sembra abbia influenzato in qualche modo anche Aleister Crowley) ne data la nascita al 1362. Alquanto curioso se, come vuole la leggenda, Flamel aveva già per le mani il libro nel 1357. Di questo libro infine, non c’è alcuna traccia, se non alcune copie verosimilmente non autentiche (l’unico presunto autentico è il manoscritto Figures Hieroglyphiques d’Abrahm Juif, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ma differisce in molte parti dal testo raccontato da Flamel). Non è da escludere che l’intera vicenda del libro, altro non sia che una mera metafora del percorso iniziatico di Flamel.

Anche il suo testamento, stampato a Londra nel 1806 da J. e E. Hodson, è probabilmente un’invenzione successiva, scritta sul finire del 1700 in Francia in seguito ad un risorgere dell’interesse verso Flamel. Dell’autentico testamento, menzionato da Borel tra i testi alchemici, non v‘è traccia.

Nulla sappiamo invece su Eirenaeus Philalethes, se non che fu un alchimista del XVII secolo sotto falso nome (alcuni avanzano l’ipotesi che potesse trattarsi dell’americano George Starkey). La sua opera pare abbia influenzato successivi scritti di Newton, Leibniz, e Locke, e si narra che anch’egli riuscì a compiere l’opera, a realizzare la pietra filosofale.

Cherry Gilchrist, recensendo nel 1996 su “Gnosis Magazine” gli “Alchemical Works” di Philaletes, scrisse che:

Anonimato e paranoia erano caratteristiche tradizionali della visione del mondo alchemico […] Questi scritti furono prodotti in un tempo in cui un fermento nobile ribolliva in un mondo che iniziava ad aprirsi alla scienza. Fu un periodo strano, paradossale, quello in cui la pratica dell’alchimia ispirò la scienza … Le opere di Filalete sono state utilizzate da Newton nei suoi esperimenti … Filalete dovrebbe essere letto come un serio contributo alla alchimia occidentale”.

Secondo alcuni alchimisti egli avrebbe seguito le orme di Flamel, ed i suoi stessi metodi. Altri ritengono invece che Philaletes fosse un seguace di Artephius (alchimista andaluso vissuto nel XII secolo, a sua volta influenzato da un alchimista chiamato Adfar), particolarmente interessato all’ossido di mercurio e all’utilizzo del bagnomaria sullo zolfo.

Per il resto, come crediamo di aver chiarito in precedenza, di disquisizioni su preparati contenenti zolfo e mercurio, come pure di allusioni all’oro, in un libro di un alchimista, sarebbe strano non trovarne.

Che dire riguardo John Dee? Personaggio certamente intrigante e geniale, è stato regolarmente e ripetutamente catapultato dalla letteratura all’interno di qualsiasi mistero. Inevitabile per un personaggio come lui, geografo, matematico ma anche alchimista presso la corte della regina Elisabetta I, con importanti entrature in mezza Europa, dedito all’occultismo, alla divinazione e alla filosofia ermetica, e in combutta con l’enigmatico mascalzone Edward Kelley. Pertanto Dee sarebbe l’autore del misterioso manoscritto Voynich, forse anche del Necronomicon, e avrebbe trasmutato piombo in oro presso la corte di Rodolfo II. Quale luogo migliore della corte di Rodolfo II, anch’essa sempre al centro di innumerevoli racconti mistici, occulti, esoterici (dei “cortigiani” in questo caso faceva parte anche il già menzionato Michael Maier, che – ricorderete – si espresse in favore della attribuzione dei “Rose Noble” all’opera di trasmutazione di Raimondo Lullo). Resta da chiarire – se non altro – come mai Rodolfo II, dopo questo incontro col genio londinese, lo bandì dalle sue terre, manco disdegnasse l’oro.

E Johann Frederick Schweitzer, in arte Helvetius? La leggenda secondo cui egli trasmutò piombo in oro seguendo le indicazioni di un anonimo viandante presenta anche sul piano narrativo degli elementi sospetti e delle lacune che la fanno apparire poco credibile. Inoltre egli è la fonte di se stesso. Porelius e Brechtel probabilmente valutarono un oro presentatogli da Helvetius, ma è da chiarire come quest’ultimo lo ottenne. Sul piano storico nulla è possibile dire con certezza: lo storico dell’alchimia Hermann Kopp, studiando questo caso, sospese il giudizio, non pronunciandosi né per la sua veridicità ne per la sua mendacità.

Come abbiamo visto, la polvere d’oro richiamò fortemente l’attenzione pubblica a cavallo dei due secoli, a partire dal 1995-1996, grazie alle dichiarazioni di George Radius Hudson.

Chi è costui?

Una sua foto è visibile all’indirizzo: monatomic-gold.com

Il “Phenix NewTimes” definiva David Radius Hudson: “un enigmatico contadino, un guru New-Age, che sostiene di aver trovato nella sua terra una cura miracolosa per la riparazione del DNA, e ha intrapreso una campagna per la riproduzione in serie”. Un contadino che, ironia della sorte, si ammalò proprio mentre stava commercializzando questa panacea. Del resto – dichiarò la Signora Hudson – suo marito la vendeva soltanto, ma non assumeva questa sostanza per sé (cosa per altro smentita da innumerevoli fonti e dichiarazioni dello stesso Sig. Hudson). Soltanto lui era in grado di trovarla e di riprodurla perché questi preziosi elementi che formano la polvere esisterebbero in una forma che non può essere rilevata dalla maggior parte dei metodi analitici. Hudson chiama questa forma “monoatomica”, ed egli ha definito la sua scoperta “elementi monoatomici orbitalmente riarrangiati”, facendone il nome per una società di capitale con responsabilità limitata (ORMEs).

Hudson, leggendo libri di alchimia, era venuto a conoscenza di questa polvere d’oro, e si era convinto che la sua polvere fosse proprio la stessa, l’elisir di lunga vita raccontato nei testi alchemici. Aveva anche sottoposto questa polvere al chimico John Sickafoose, il quale tuttavia non fu in grado di identificarla con sicurezza. Ciò nonostante Hudson riuscì a convincere un medico, il dottor David Payne, che questa polvere avesse proprietà miracolose anche contro l’AIDS, e così questo misterioso ritrovato finì anche per essere sperimentato come medicina. Almeno finché il dottor Payne – a seguito della morte di una paziente – fu temporaneamente sospeso e indagato. Le autorità stabilirono che la morte fu causata da sciami di batteri nella sostanza che il medico gli aveva suggerito di assumere. Hudson perse una causa civile intentata dal marito e dalla madre della vittima. Da allora smise di fornire questa polvere ai malati, e invece iniziò ad offrire una iscrizione (per cinquecento dollari) alla “Fondazione Scienza dello Spirito”, che lavorava in parallelo con la ORMEs.

Oggi – come detto – questa polvere è ancora venduta in alcuni siti web, nei quali dopo averne magnificate le incredibili proprietà, nel disclaimer si declina ogni responsabilità, e si chiarisce – per fortuna – che questo prodotto non ha nulla a che fare con diagnosi, cure, prevenzione, trattamenti medici. Infine si consiglia il parere del medico prima di assumerlo anche solo come coadiuvante dietetico.

In una società meno moderna, come può essere quella medievale, in cui non esiste l’Organizzazione Mondiale della Sanità, né associazioni di consumatori, né NAS, né Guardia di Finanza, difficile dire l’impatto che avrebbero avuto le dichiarazioni di Hudson.

Ma c’è chi vi crede anche ai nostri giorni. Allora un ulteriore chiarimento sull’oro monoatomico proviene da Silvano Fuso, laureato in chimica (indirizzo chimico-fisico), Dottore di Ricerca in Scienze Chimiche, ricercatore nel campo della spettroscopia molecolare presso l’Università di Genova, coautore di diverse pubblicazioni nel settore su riviste internazionali:

Dal punto di vista scientifico si tratta di puri vaneggiamenti privi di alcun senso. Quando poi si afferma che tale sostanza potrebbe essere utilizzata nella cura del cancro è doveroso cominciare a preoccuparsi. Già la denominazione “oro monoatomico” desta non poche perplessità . L’aggettivo monoatomico infatti si riferisce generalmente a un elemento che abbia molecole costituite da un solo atomo. Ora questo è possibile solamente se tra atomo e atomo non esiste alcune legame chimico e quindi questa situazione si può verificare solamente in un gas (gli unici elementi monoatomici sono infatti i cosiddetti gas nobili). L’ “oro monoatomico” che viene commercializzato è sotto forma di polvere, si tratta quindi un solido e pertanto non può essere monoatomico in questo senso. Se invece per monoatomico si intende costituito da un solo tipo di atomi, questo vale per qualsiasi elemento allo stato puro e non si capisce quindi in che cosa consista l’eccezionalità del prodotto. Laurence Gardner e tutti coloro che decantano le proprietà dell’oro monoatomico si rifanno alla tradizione alchemica utilizzando concetti e principi che sono da tempo stati confutati dalla chimica moderna. In più utilizzano in modo del tutto improprio termini e concetti scientifici moderni. Anche l’idea secondo la quale l’oro monoatomico entrerebbe in risonanza con il DNA non ha alcun senso dal punto di vista scientifico”.

Già, Laurence Gardner.

All’interno di questa storia compare non prima del 2002, ma assume gradualmente un ruolo predominante, tanto che l’intera faccenda che vi stiamo raccontando si sviluppa in gran parte a ritroso, a partire dalle sue dichiarazioni.

Nel 2002 fu lui infatti a suggerire al ricercatore di cerchi nel grano Andy Thomas che la polvere ritrovata nel crop circle di Sompting del 2001 potesse essere la famigerata white powder gold, in uso presso gli alchimisti dai tempi dei tempi. Disse che, se effettivamente si trattava di questa polvere, avrebbe contenuto degli elementi di Platino, Palladio, Iridio, Rodio, Rutenio o Osmio (come sostenuto da David Radius sul già menzionato articolo in “Nexus Magazine”, 1996). In questa polvere c’era invece presenza di Silicio, e da ciò prese corpo una nuova complessa e artificiosa speculazione che voleva legare questa polvere ad ET, ed al crop circle di Chilbolton (conosciuto come “Arecibo Reply”) sempre del 2001.

Dissertando sulla “teoria dell’intelligenza di rete” di Grazyna Fosar e Franz Bludorf, sulla iper-comunicazione a livello di DNA, e sulla teoria del fisico Matti Pitkänen, relativa alla capacità di memoria dell’acido desossiribonucleico, si tentava di sostenere che la comunicazione tra Arecibo e gli alieni sarebbe potuta avvenire con tempistiche e modalità del tutto diverse ed inaspettate rispetto ai canoni della nostra scienza.

Una analisi più ponderata (di laboratorio) su questa polvere fu invece svolta dall’investigatore Rodney Asby:

La composizione elementare suggerisce che erano presenti solo ossidi o idrossidi […] il campione non era un minerale di composizione complessa, piuttosto una miscela di tre o più composti chimici di base, la più comune è la silice della sabbia (SiO 2), calce viva (CaO) e calce spenta (Ca (OH) 2 ). Collettivamente, questi sono indicativi di un materiale cementizio. Tale conclusione è corroborata anche dalla presenza di oligoelementi quali l’ alluminato di calcio (Ca 2 Al 2 O 5) e tracce di composti di alluminio e ferro del cemento di Portland […] il problema è semmai la consistenza della sabbia, non del tipo comunemente usato in edilizia. Invece, era di una granulometria più fine variabile da 100 micron a meno di 2 micron. Inoltre, i grani più piccoli erano delle forme più pure di silice. Tutti gli elementi di prova hanno suggerito che la sabbia proveniva da una fonte atipica ma naturale. Varie idee sono state considerate – sabbia destinata a sabbiatura o fusione di precisione, anche sabbia sahariana – ma nessuna ha fornito un riscontro convincente con queste. Nonostante questo, non sono riuscito a trovare alcuna prova del fatto che questo materiale non abbia avuto origine terrena”.

Abbiamo così la sgradevole sensazione che alla fine dei conti si tratti soltanto di una manciata di materiale cementizio. Oppure del “coconino”, che è una polvere bianca del tutto analoga alla white powder gold, e che si trova in Arizona, sia a Coconino Peak sia all’interno e nei pressi del Meteor Crater (per una strana casualità, vicinissimi a dove viveva Hudson). Alcuni ritengono anche che queste particelle sferiche di biossido di silicio si formino dalla fusione della sabbia posata dal vento sugli steli prima dell’azione termica. Bisognerebbe solo scoprire come siano arrivate a Sompting.

Ma è nel 2004 che Gardner si impone definitivamente sulla scena del mistero, pubblicando il libro “Le misteriose origini dei Re del Graal”, di cui abbiamo già detto nella prima parte. È a partire da questo libro che si impongono retroattivamente le innumerevoli meraviglie attribuite alla famosa polvere bianca, da un futuro ancora sconosciuto a ritroso fino ai Sumeri e oltre. Si mette infatti in relazione tutto ciò non solo col lontano passato, ma con recenti scoperte nel campo della fisica. Si iniziano così a diffondere alcune idee, a nostro personale avviso fuori controllo e forse perniciose.

Alcuni fisici nucleari scoprirono negli anni Ottanta che quando determinati atomi sono posti in uno stato di velocissima rotazione, le particelle elementari attorno al nucleo si riordinano e iniziano a roteare ad una velocità maggiore. Come risultato delle orbite riordinate, le emissioni elettromagnetiche degli elementi roteanti sono differenti rispetto al loro spettro ordinario. I fisici nucleari – si dice ancora – non hanno riportato alcun successo nel produrre questo processo attraverso il bombardamento ad alte energie. Tuttavia (ed ecco che l’elemento scientifico si mescola e cede il passo a quello fantascientifico) la natura ha i suo metodi a bassa tecnologia e bassa energia per produrre ciò all’interno delle viscere della Terra: la polvere d’oro bianca. Essa sarebbe presente ovunque nel suolo, soprattutto in terreni vulcanici. Non è stata mai trovata: perché? Semplice: nella sua forma monoatomica, non si manifesterebbe nello spettro visibile delle strumentazioni che abbiamo in uso. Così alcuni metalli preziosi vivrebbero in uno stato modificato, in cui non si visualizzano più le loro proprietà elettriche, spettroscopiche, chimiche o termiche.

Alcuni sedicenti o pseudo-ricercatori hanno sostenuto che gli effetti prodotti da questa panacea possono essere prodotti attraverso la bio-superconduttività che migliora il pieno potenziale del DNA. Questa polvere, quando ingerita, entrerebbe nel sangue per pervadere l’intero corpo. Come? Essendo chimicamente inerte, i suoi effetti non si esplicano per reazione chimica, ma in via energetica. Questi elementi si inoculano nelle cellule, e generano “essenza di vita”. Accrescendo l’essenza a livello cellulare, consentono lo sviluppo di una intelligenza più spirituale, e il raggiungimento di uno stato olistico funzionale. Questo è sostanzialmente il tono ed il livello delle argomentazioni, che lasciamo giudicare al lettore.

In successivi libri Gardner non abbandonerà questo stile, né questi temi. Si occuperà a lungo dell’Arca dell’Alleanza, ritenendola capace di trasformare l’oro nella misteriosa sostanza bianca, la quale avrebbe anche la facoltà di apparire e scomparire durante il suo processo creativo, e grazie ai non meglio definiti “campi di MFKTZ” potrebbe aprire una porta interdimensionale fra due mondi. E qui siamo allo Stargate. La Sacra Arca dell’Alleanza sarebbe stata costruita con un metallo dalle proprietà magiche, la cui polvere permetterebbe di proiettare la materia nello spazio-tempo. Tale materia sarebbe un derivato del noto metallo conduttore detto “oro monoatomico”, che ad Alessandria di Egitto fu anticamente identificato con la pietra filosofale. Ad esso sarebbero affidate le speranze degli scienziati di tutto il mondo per la messa in opera del teletrasporto. E così via, parafrasando Silvano Fuso, di vaneggiamento in vaneggiamento.

Nella convinzione che qualsiasi serio scienziato inorridisca di fronte a simili congetture, ciò che dobbiamo aggiungere è soltanto che Gardner non è un chimico, né uno scienziato, neppure uno storico-scientifico, bensì un saggista, al più uno storico alternativo. Non crediamo si offenderebbe se lo paragonassimo a Dan Brown. Nei suoi libri si mescolano sapientemente ed efficacemente elementi storici a speculazioni fantasiose, prive però di ogni comprovabilità.

Secondo Wikipedia:

“Gardner viene talvolta chiamato ‘Chevalier Labhran de Saint Germain’, ‘Addetto Presidenziale al Consiglio Europeo dei Principi’ e ‘Priore delle Chiese Celtiche – Sacro Fratello di Sangue di San Colombano’. Egli afferma inoltre di essere Storiografo Reale Giacobita della Casa Reale degli Stewart. È un sostenitore di Michael Lafosse, in particolare delle affermazioni di quest’ultimo di discendere dalla Casa degli Stuart, che Gardner ritiene discenda direttamente da Gesù Cristo. Alcuni storici affermano che egli sia un propugnatore della teoria del complotto implicando, con ciò, che le sue siano opere di pseudostoria, scarsamente documentate e non erudite”.

Non molto vogliamo dilungarci infine su Fulcanelli e sulla teoria dell’antico astronauta di Sitchin, la cui attinenza stricto sensu con l’argomento qui preso in esame (la polvere bianca degli alchimisti) è sostanzialmente a latere. Sul primo nulla c’è da aggiungere al fatto che fosse un rispettabile alchimista. Non sappiamo neppure chi si celi dietro questo pseudonimo, e addurre ch’egli abbia raggiunto l’immortalità ci sembra evidentemente opera di fede incondizionata nelle libere, gratuite e inconfutabili (perché prive di ogni riscontro) dichiarazioni di Eugene Canseliet e Julien Champagne.

La teoria dell’antico astronauta di Sitchin (nota anche come teoria “Nibiru”, “Annunaki”, “Pianeta X”) presta invece il fianco a numerose critiche, e si basa sostanzialmente su alcune personali interpretazioni dell’autore non universalmente riconosciute, ed anzi osteggiate dalla comunità scientifica e non solo da questa.

Ad esempio il famoso sigillo sumero, denominato VA 243 (reperto n. 243 presso il Vorderasiatische Museum di Berlino) costituisce il fulcro delle ipotesi di Sitchin. In questo sigillo – dice Sitchin – si vede il Sole attorniato da undici globi. Quindi, considerando che gli antichi consideravano il Sole e la Luna come pianeti, questo sigillo mostra dodici pianeti. Ne consegue che i sumeri conoscevano un dodicesimo pianeta oltre Plutone: il Pianeta X, Nibiru appunto.

Eppure è tutt’altro che dimostrato che quel sole raffiguri proprio il nostro Sole (i sumeri non lo rappresentavano così), e che gli undici globi rappresentino pianeti (più probabilmente si tratta di stelle). Inoltre sono molteplici le incongruenze tra la rappresentazione del sigillo e la reale struttura del nostro sistema solare. Infine il sigillo – stanti al testo contenuto in esso – non tratta affatto di astronomia. Senza considerare che nessun documento archeologico né astronomico abbia mai potuto apportare sostegno, neppure indiretto, all’ipotesi ventilata da Sitchin, il quale – dal canto suo – sembra incapace di rispondere alle numerose obiezioni che gli sono state mosse.

Per finire non risparmiamo neppure a lui una citazione wikipediana:

Le controverse teorie di Sitchin, basate sulla sua personale interpretazione dei testi sumeri, sono considerate pseudoscienza dalla comunità scientifico-accademica, ma registrano un buon seguito nell’ambito della letteratura popolare”.

Come per Gardner e Dan Brown, ci vien da dire che non dovremmo lasciare che la storia venga scritta da autori fantasy o di letteratura popolare, per quanto bravi possano essere.

Ci vien anche da dire, concludendo, che abbiamo la fastidiosa sensazione che i tempi moderni stiano rischiando di trasformare ciò che era una leggenda ed un’arte di antica tradizione e pratica (l’alchimia con le sue vocazioni spirituali e filosofiche, ma anche come contributo alla ricerca chimica, all’invenzione di apparecchi da laboratorio, allo sviluppo delle tecniche di sublimazione, distillazione, calcinazione ecc) nella burlesca strumentalizzazione a sostegno di deliranti costrutti della fantasia, o peggio nella grottesca commercializzazione di un prodotto miracoloso degno di una Wanna Marchi.

Leonardo Dragoni