E’ possibile ricuperare oggi la coscienza cosmica del saggio antico? La proposta di Pierre Hadot.
Nella storia della riflessione filosofica sul rapporto tra uomo e mondo, un posto indubbiamente importante è occupato dal pensiero antico. Nel periodo ellenistico in particolare, il problema della posizione dell’uomo nel cosmo fu uno dei più dibattuti. Le principali scuole dell’epoca, proiettarono nella figura del “saggio” i rispettivi ideali circa l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’universo fisico e il modo in cui relazionare la propria individualità umana alla totalità delle cose. A distanza di molti secoli, consapevoli dei profondi cambiamenti intervenuti nella concezione dell’uomo e del mondo, ci potremmo chiedere quale attualità conservino ancora quei grandi paradigmi etici.
Una risposta degna di nota a questo interrogativo è stata fornita recentemente da Pierre Hadot.
Considerato uno dei maggiori storici viventi della filosofia antica, Hadot è stato dal 1983 al 1991 titolare di una cattedra di Storia del pensiero ellenistico e romano al Collège de France[1]. A partire dagli anni ’70 egli ha proposto un’interpretazione complessiva della filosofia antica come modo di vivere e ha sostenuto la sua praticabilità, entro certi limiti, anche al giorno d’oggi[2]. All’interno della sua vasta produzione scientifica, si segnala, come esplicitamente dedicato al tema che ci interessa, un articolo apparso nel 1989 e intitolato Il saggio e il mondo[3]. Cercherò di riassumere il contenuto di questo articolo, non ancora tradotto in italiano, e concluderò la mia esposizione con alcune brevi osservazioni personali.
L’articolo di Hadot si apre con una citazione di Bernard Groethuysen. Questi, nella sua Antropologia filosofica, scriveva a proposito del saggio antico: <<La coscienza che ha del mondo è qualcosa di peculiare al saggio. Solo il saggio non cessa di avere il tutto costantemente presente allo spirito, non oblia mai il mondo, pensa e agisce in rapporto al cosmo […]. Il saggio fa parte del mondo, è cosmico. Non si lascia distogliere dal mondo, distaccare dall’insieme cosmico […]. Il tipo del saggio e la rappresentazione del mondo formano in qualche modo un insieme indissolubile>>[4]. Hadot nota che ciò è particolarmente vero per il saggio stoico, il cui atteggiamento fondamentale consisteva nell’assenso gioioso a tutti gli eventi di un mondo retto da una Ragione universale, ma è vero anche per il saggio epicureo, il quale, proprio perchè considerava il mondo come effetto del caso, accoglieva l’esistenza come un miracolo e contemplava l’universo senza il timore superstizioso degli dèi. In generale, la dimensione cosmica era essenziale al saggio antico; se questi si convertiva a se stesso, lo faceva solo per superarsi e risituarsi armoniosamente nel Tutto del mondo di cui l’io non era che una parte.
A questo punto Hadot si trova a dover rispondere a un’obiezione: ammettendo pure che la saggezza antica fosse intimamente legata al rapporto con il mondo, come ricuperarla oggi, quando la visione antica dell’universo è definitivamente superata? <<L’universo quantitativo della scienza moderna è totalmente irrappresentabile e l’individuo in esso si sente ormai isolato, perduto. La natura non è più nient’altro per noi che l'”ambiente” dell’uomo, è diventata un problema puramente umano, un problema di pulizia industriale. L’idea di ragione universale non ha più molto senso>>[5]. Sembrerebbe allora che l’unica chance rimasta alla morale sia il ripiegamento in una cultura del sè, in un'”estetica dell’esistenza individuale” come quella delineata dall’ultimo Foucault[6].
Hadot replica all’obiezione con un triplice ordine di argomenti. In primo luogo, egli pone in evidenza la differenza tra il mondo della scienza e il mondo della percezione abituale[7]. La maniera in cui percepiamo il mondo nella vita quotidiana non è profondamente modificata dalle concezioni della scienza. Ad esempio, la rivoluzione astronomica, solitamente indicata come fattore decisivo nel passaggio dal pensiero antico e medievale a quello moderno, non impedisce a tutti noi di percepire comunemente il sole come un astro che sorge e tramonta e di riferirci alla terra come un piano immobile sul quale ci muoviamo. Questa percezione vissuta del mondo è stata tematizzata nel Novecento da Bergson e Merleau-Ponty; in modi diversi, essi hanno assegnato alla filosofia il compito di purificarla dai suoi aspetti parziali e selettivi e di trasformarla in una percezione del mondo in quanto mondo.
In secondo luogo, Hadot addita la percezione estetica del mondo a modello di coscienza cosmica per l’uomo moderno[8]. Joachim Ritter ha mostrato che, in seguito allo sviluppo della scienza moderna, dal XVIII secolo in poi si avvertì in Europa l’esigenza di una percezione emotiva e disinteressata che consentisse all’esistenza umana di conservare qualla dimensione cosmica che le è essenziale[9]. Ciò risulta chiaramente da opere come l’Aesthetica di Baumgarten, la Critica del Giudizio di Kant e le Lettere sulla pittura del paesaggio di Carl Gustav Carus. Anche pittori come Klee e Cézanne non separarono la loro arte da un’esperienza sui generis della natura, che la rendesse visibile in quanto tale. Tale percezione che ci fa apparire il mondo davanti agli occhi come se fosse la prima volta, è però possibile, secondo Hadot, solo grazie a una conversione dell’attenzione: dobbiamo imparare a stupirci dell’esistenza del mondo, a rompere, come diceva Merleau-Ponty, <<la nostra familiarità con il mondo, e questa rottura non ci può insegnare nient’altro che lo scaturire immotivato del mondo>>[10].
In terzo e ultimo luogo, Hadot mostra, sulla base di alcuni testi senecani e lucreziani, che già i filosofi antichi si sforzavano di suscitare nei loro contemporanei la coscienza di essere-al-mondo[11]. Ciò significa che l’ostacolo alla percezione “pura” del mondo non si situa nella modernità, ma nell’uomo stesso, il quale tende a “umanizzare” il mondo, cioè a trasformarlo in un insieme di “cose” utili alla vita. L’esempio di Lucrezio, per il quale il mondo era infinito ed era il risultato del caso, prova inoltre che la coscienza cosmica degli antichi non dipendeva necessariamente dalla credenza nella finitezza o nella razionalità del mondo, idee che i moderni farebbero fatica ad accettare. Gli elementi che componevano la percezione disinteressata del mondo presso gli antichi erano invece essenzialmente due: la concentrazione sull’stante presente e il sentimento puro dell’esistenza del Tutto e di sé nel Tutto. Stoici ed epicurei cercavano di realizzare tali condizioni attraverso specifici esercizi spirituali: la valorizzazione di ogni istante della vita come se fosse l’ultimo e il pensiero costante della morte. Liberando dal peso del passato e dalla preoccupazione per il futuro, quegli esercizi portavano alla scoperta del valore infinito della presenza dell’uomo nel mondo e alla percezione del mondo stesso come una “natura”, una physis, <<cioè come il movimento di crescita, di nascita con cui le cose appaiono>>[12].
Hadot termina la sua argomentazione sottolineando l’analogia tra l’accesso alla visione del mondo e la posizione della figura del saggio[13]. Come il saggio è un ideale di perfezione assoluta che trascende tutte le sue possibili incarnazioni, così il mondo è una totalità che supera ogni oggetto visibile. E come per conoscere la saggezza bisogna cercare di essere saggi, così per percepire il mondo bisogna percepire la propria unità con esso.
Questo è dunque, in sintesi, il contenuto dell’articolo. La sua tesi di fondo è che l’uomo moderno può vivere un esercizio della saggezza ispirato al modello antico e finalizzato al reinserimento dell’io nella realtà universale del mondo[14].
La parte più interessante del contributo di Hadot, a mio avviso, è la focalizzazione della percezione filosofica del mondo come percezione della totalità delle cose. La sua difesa della possibilità di una simile percezione per l’uomo d’oggi mi pare sostanzialmente riuscita. Trovo persuasiva anche l’idea che la difficoltà della sua realizzazione risieda non tanto nella situazione culturale della modernità, quanto nella stessa condizione dell’Esserci umano, che, come ci ha insegnato Heidegger, incontra originariamente le cose sotto l’aspetto della Zuhandenheit, della loro utilizzabilità. Cogliere l’essere delle cose per se stesse richiede invece uno sforzo mentale, un esercizio di disassuefazione che può ancora trarre giovamento dalle tecniche apprestate dagli antichi.
Penso tuttavia, a differenza di Hadot, che la purificazione della nostra esperienza del mondo sia un punto di partenza, più che un punto di arrivo della filosofia. Lo stupore di fronte all’esistenza delle cose, che nello stoicismo e nell’epicureismo doveva essere fonte di serenità a di pace interiore, è forse il più potente stimolo ad una riflessione che riempia l’animo di appassionanti interrogativi, la molla che spinge ad uscire dalle incertezze che sorreggono la vita quotidiana e a porre in discussione la visione abituale del mondo e dell’uomo. La meraviglia come inizio della ricerca, del resto, è un tema classico della filosofia, a cominciare dalle moltissime affermazioni di Platone nel Teeteto e di Aristotele nella Metafisica[15].
Due in particolare sono le direzioni che possono essere e sono state effettivamente prese in questo senso. Innanzitutto, lo stupore con cui ci si accorge dell’essere non sarebbe tale se non implicasse una domanda, anzi se non fosse esso stesso una domanda implicita: perché c’è il mondo? Perché ci sono io nel mondo? Perché l’essere anziché il nulla? E’ questa la cosiddetta domanda “metafisica”. A seconda di come vi rispondiamo, diversa sarà l’immagine del mondo che avremo. Se cercheremo la spiegazione ultima della totalità del reale all’interno del mondo dell’esperienza, questo ci apparirà in qualche modo come un Assoluto. Se invece ricercheremo il perché ultimo delle cose in un ambito di realtà ulteriore rispetto al mondo delle esperienza, allora questo sarà per noi qualcosa di dipendente e di relativo[16]. E’ evidente che il valore che il mondo avrà ai nostri occhi non sarà lo stesso in entrambi i casi.
Lo stupore davanti all’essere, inoltre, può diventare esso stesso oggetto di stupore. Ci si potrà stupire, cioè, della capacità di stupirsi, di prendere coscienza dell’esistenza, di uscire dalla logica dell’utile che governa la vita dell’animale e di contemplare disinteressatamente la realtà. Questa capacità contraddistingue l’uomo da ogni altro vivente e da ogni altra cosa del mondo. In un certo senso essa incrina, anziché favorire, il sentimento della nostra unità con il mondo, perché suscita la consapevolezza di un’irriducibile differenza tra noi e le cose. Anche questo è un tema caro ai filosofi. Si ricordi ad esempio il celebre Pensiero 347 Brunschvicg di Pascal: <<L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla>>[17]. Non è un caso, invece, che sia il naturalismo panteistico degli stoici sia il materialismo atomistico degli epicurei, con la loro pretesa di spiegare l’essere di ogni cosa , finissero per negare la trascendenza ontologica dell’uomo sul mondo.
Queste semplici osservazioni mi portano a concludere che le scuole ellenistiche possono sicuramente aiutarci a risvegliare il sentimento del nostro essere-al-mondo; tuttavia il senso di tale esserci dipenderà dalle risposte che daremo ai problemi sollevati da qual sentimento, ed esse potranno essere anche molto differenti da quelle fornite a loro tempo da Epicuro, Zenone e i loro seguaci.
Giovanni Catapano
estratto da “Il problema della relazione Uomo-Mondo” pp.85/90
[1] Sull’autore, le sue pubblicazioni e il significato delle sue ricerche, cfr. P. Hadot, Porfirio e Vittorino, presentazione di G. Reale, Traduzione di G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. XIII-XXIII; ID., Philosophy as a Way of Life. Spiritual Exercises from Socrates to Foucault, edited with an introduction by A.I. Davidson, translated by M. Chase, Blackwell, Oxford UK-Cambridge USA 1995, pp. 277-286.
[2] Cfr. ID., Exercices spirituels et philosophie antique, Études Augustiniennes, Paris 1981 (19872, 19933; tr.it. della 2a ed. Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988); Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995 (tr. it. Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998).
[3] ID., Le sage et le monde, “Le temps de la réflexion”, 10 (1989), pp. 175-188.
[4] B. Groethuysen, Anthropologie philosophique, Gallimard, Paris 1952 (ed. or. ted. 1931; tr.it. Atropologia filosofica, Guida, Napoli 1970), p. 80.
[5] Hadot, Le sage et le monde, p. 177.
[6] Cfr. M. Foucault, La cura di sè, Feltrinelli, Milano 1985 e P. Hadot, Réflexions sur la notion de culture de soi, in Michel Foucault philosophie. Rencontre internationale, Paris 9, 10, 11 janvier 1988, éd. par F. Ewald Seuil, Paris 1989, pp. 261-269.
[7] Cfr. Hadot, Le sage et le monde, pp. 177-179.
[8] Cfr. ivi, pp. 179-182.
[9] Cfr. J. Ritter, Subjektivität. Sechs Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974, pp. 155-158.
[10] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945 (tr. it. Fenomenologia della percezione, a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1965), p. VIII.
[11] Cfr. Hadot, Le sage et le monde, pp. 182-187.
[12] Ivi, p. 187.
[13] Cfr. ivi, pp. 187-188.
[14] Cfr. ivi, p. 177.
[15] Cfr. Plat. Theaet. 155 d; Aristot. Metaph. A2, 982 b 11-21.
[16] Per la fondamentale distinzione tra metafisiche immanentistiche e metafisiche trascendentistiche, cfr. E. Berti, Metafisica, in La filosofia, diretta da P. Rossi, vol. III: Le discipline filosofiche, UTET, Torino 1995, p. 21 sgg.
[17] B. Pascal, Pensieri, traduzione, introduzione e note di P. Serini, Einaudi, Torino 1962, p. 173 (corsivi miei). Il riferimento a Pascal offrirebbe lo spunto – che qui non posso sviluppare – per parlare anche dell’influsso del cristianesimo, oltre che della scienza, sulla concezione del rapporto uomo-mondo in Occidente: un influsso cui Hadot nel suo articolo non fa cenno, ma col quale è inevitabile misurarsi se si vuole stabilire ciò che è vivo e ciò che è morto nella visione antica.