Sintropia di Luigi Fantappié e terzo Millennio

Prologo: l’incertezza

All’ateo del terzo millennio desidero proporre un’immagine di Dio con cui egli possa convenientemente dimorare. E ciò a partire dal luogo della scienza che, presso gli uomini, presso molti uomini almeno, è luogo in cui si riflette la debolezza di Dio, luogo in cui sembra manifestarsi la sua sconfitta in questo mondo. Non c’è dubbio infatti che la scienza, diversamente da quanto sembra valere per Dio, abbia dato prova di saper mantenere le sue promesse, dispiegandosi come luogo assoluto di certezza.

Cosa ne è, ad esempio, delle profezie di giustizia, che popolano l’Antico Testamento, se confrontate con le “profezie”, realizzate o in via di realizzazione, della scienza? Eppure a partire, in fisica, dal “principio di indeterminazione” di Heisenberg e da, “principio di complementarità” di Bohr, in matematica dal “teorema d’incompletezza” di Gödel e in filosofia da nozioni come quella di “giochi linguistici” elaborata da Wittgenstein o anche dal cosiddetto “pensiero debole”, per non parlare del neopragmatismo di Rorty, sembra che il luogo della certezza non sia più di questo mondo.

Se la conoscenza procede dalla interazione, da quello che possiamo ribattezzare come “l’evento della reciprocità”, ciò implica che l’incertezza costituisce la cifra indubitabile dell’esistenza. Con la teoria della relatività, ad esempio, lo spazio e il tempo non possono più essere pensati assolutamente, ma in necessaria relazione con il sistema di riferimento dell’osservatore. In ambito scientifico tutto questo comporta il ridimensionamento, la “demitizzazione” dello statuto sperimentale, del metodo induttivo e, più in generale, del paradigma causalistico. Se viene meno la concezione deterministica, se viene meno con essa l’utopia dell’oggettività, se lo sperimentatore non può non far parte del proprio esperimento, se non possiamo pensare più semplicemente in termini di causa ed effetto, se, infine, non possiamo più far riferimento a un osservatore assoluto, ciò significa anche che sta cambiando la nostra immagine di Dio.

Con quale Dio è senza il senza-Dio? Breve discorso sul tempo futuro

Il secondo principio della termodinamica stabilisce l’esistenza d’una tendenza dell’energia alla degradazione. Tale tendenza prende il nome di entropia. Se essa fosse valida universalmente, saremmo destinati alla “morte termica”. Se così non è, lo si deve alla capacità dei sistemi viventi di attirare su di sé neghentropia, ovvero ordine.

Nel sistema Universo sono dunque all’opera una tendenza “naturale” al disordine e una tendenza all’ordine. Il matematico italiano Luigi Fantappié, sostenitore di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico riveduta da Giuseppe e Salvatore Arcidiacono, opera una distinzione tra fenomeni entropici, che corrispondono ai fenomeni fisici e chimici, e fenomeni cosiddetti “sintropici”, ovvero i fenomeni biologici, i fenomeni della vita, i fenomeni, diremmo noi, della psiche.

I fenomeni entropici sono regolati dal principio di causalità, risultano riproducibili sperimentalmente, sono caratterizzati da progressivo livellamento. I fenomeni sintropici, così come li concepisce Fantappié risultano essere caratterizzati, al contrario di quelli entropici, da differenziazione e complessificazione, dalla tendenza a una rapida o rapidissima sparizione, dalla non suscettibilità a essere provocati e influenzati, dalla difficile osservabilità (e non riproducibilità sperimentale) e dall’essere governati secondo il principio di finalità.

Ciò che a questo punto mi preme sottolineare è l’apparente paradosso che sembra caratterizzare la sintropia: vale a dire l’inversione del senso del tempo, inversione in virtù della quale non è più il passato a influenzare il futuro, ma il futuro a influenzare il passato. Nei fenomeni biologici, ad esempio, sembra all’opera una sorta di progetto, un preciso finalismo, una specifica, complessa tendenza. La cellula, è stato detto, si comporta come se conoscesse il futuro, ovvero come se il futuro la conoscesse.

Non sembrano dunque comprensibili tali fenomeni a partire da cause pregresse, ma tenendo conto delle finalità che li sostengono, per così dire, dal futuro. Se i fenomeni entropici rientrano in un orizzonte deterministico, tale che conosciute le cause si possono prevedere gli esiti, i fenomeni sintropici risultano essere imprevedibili, improbabili, incerti. Ora, a me sembra che la vita stessa sia di per sé un costante, irriverente, dissacrante e, dunque, religioso elogio dell’incertezza. Che ne è allora dell’ateo in quest’ottica lentamente guadagnata dall’uomo occidentale? In altri termini: con quale Dio è senza il senza-Dio? E, sempre dimorando in questa impervia ma salutare prospettiva dell’incertezza, cosa ne è della profezia d’un terzo millennio come tempo del generale dispiegamento della coscienza, profezia pronunciata, tra gli altri, da Carl Gustav Jung?

Sappiamo a tale riguardo che, secondo la testimonianza dell’analista junghiano Max Zeller, Jung avrebbe calcolato, in base a sogni propri e altrui, il tempo necessario a completare il tempio della nuova religione: 600 anni. 600 anni! Relegare la pienezza della profezia al tempo futuro significa in qualche modo letteralizzare la profezia. Per questo è utile ricordare la definizione dei tempi della profezia data da Gregorio Magno nella prima delle sue Omelie su Ezechiele. Come infatti scrive Gregorio tre sono i tempi della profezia: il passato, il presente e il futuro.

Come vanno intesi i tre tempi? Secondo il paradigma della fisica classica, secondo il modello di Universo concepito da Newton ad esempio, gli eventi presenti sono contemporanei, quelli passati non più esistenti, quelli futuri non esistenti ancora. Ciò accade in ragione del fatto che la velocità della luce è considerata infinita. Dal momento che la velocità della luce è considerata infinita, il mio esistere si consuma nella presenza e nel presente. Nel paradigma della relatività, al contrario, dove la velocità della luce è considerata finita, l’esistere non si limita al presente, ma a tutto il cosiddetto “cronotopo” (ovvero l’universo quadridimensionale) e, dunque, anche al passato e al futuro. Nello spaziotempo della fisica relativistica, infatti, accade che due osservatori, legati da contemporaneità (lo psicoterapeuta e il suo paziente, ad esempio, o anche il profeta e il popolo d’Israele), non condividano lo stesso passato e lo stesso futuro. Ciò accade in quella che Fantappié ha chiamato “esistenza totale”.

Tutto, sostiene il grande matematico italiano, esiste ugualmente, passato, presente e futuro. Tutte le cose esistono insieme, tutti gli eventi passati, presenti e futuri esistono insieme. Esistono in questo o quel luogo, adesso oppure ieri o domani, ma tutti esistono insieme. Tale sembra essere, tra l’altro, il presupposto della sincronicità e dell’“Unus Mundus” alchemico nella concezione di Jung. Tale, in altri termini, il presupposto di quanto lo psicologo svizzero definisce “psicoide”, ovvero la coappartenenza, l’abbraccio di psiche e materia.

Gli esiti d’un tale punto di vista sono particolarmente interessanti anche per quanto concerne il discorso profetologico. È innegabile che tra la sintropia di Fantappié e la psicologia analitica di Jung esistano rilevanti analogie. Fantappié, non meno di Jung, ritiene che la nostra personalità sia mossa dai fini e non dalle cause e considera, di conseguenza, sintropici i fenomeni psichici. Il principio di finalità, anzi, è tale da precedere l’uomo.

Il fenomeno sintropico, potremmo dire, è attratto dal suo fine. Tale attrazione al fine, poi, tale “trascinamento finalistico” riceve, nella concezione di Fantappié, il nome di “amore”, e ciò in conformità a un modo di pensare che fu, ad esempio, anche di Marsilio Ficino e che, attraverso svariate mediazioni, si fa ricondurre alla catena aurea di omerica memoria e a quella scala di Giacobbe, lungo la quale scendevano e salivano gli angeli, scala che già i medievali assimilavano all’immaginazione. In quest’ottica ciò che costituisce le fondamenta dell’ordine universale, le fondamenta di quello che i greci antichi chiamavano “cosmo” e che i romani, orientati eticamente e giuridicamente, chiamarono “mondo”, non sono le leggi deterministiche ma le leggi probabilistiche.

È l’incertezza, insomma, che sostiene il mondo, per quanto ciò possa suonare paradossale. L’evoluzione del cosmo non appare dunque funzionale al suo stato iniziale, come pretendeva il determinismo di Laplace, ma al suo stato finale. Lo stato del futuro del sistema, in altri termini, è la causa finale che esercita la sua influenza sul sistema allo stato presente.

L’astronomo britannico Fred Hoyle, non diversamente da Fantappié, ritiene che, per quanto riguarda i fenomeni biologici, il senso del tempo debba essere considerato dal futuro verso il passato. Tale “apparente” inversione del senso del tempo non è meno valida sebbene più difficile da comprendere e non accettata, mediamente, dagli scienziati, in quanto non passibile di dimostrazione sperimentale. Tuttavia, sostiene Hoyle, se il consueto senso del tempo dal passato al futuro costituisse il fondamento della biologia, la materia vivente sarebbe inevitabilmente condotta alla distruzione. Siccome ciò non avviene, egli conclude che i sistemi biologici sono in grado di utilizzare il senso del tempo opposto, quello in cui le informazioni che sostengono il processo dell’evoluzione e lo sviluppo della vita s’irradiano dal futuro verso il passato.

Se l’Universo non va incontro a progressiva degradazione, ciò può essere attribuito a quella che Aristotele avrebbe chiamato “causa finale”, intesa come irradiatrice, dall’eternità, delle informazioni necessarie alla vita. A ridosso dell’eternità, dunque, è il cosiddetto futuro che regola il nostro cosiddetto presente. Non potremmo concepire anche la profezia (ad esempio la profezia del terzo millennio come tempo del generale dispiegamento della coscienza) nella prospettiva di una regolazione a ritroso degli eventi? Come finestra o punto entro cui essa irrompe dal futuro nel nostro illusorio presente, illusorio perché entra nel gioco di credere d’essere tale a esclusione dei tempi altri?

Conclusione: l’immaginazione

Secondo la già citata testimonianza dell’analista junghiano Max Zeller, Jung avrebbe calcolato, in base a sogni propri e altrui, il tempo necessario a completare il tempio della nuova religione, che è poi la religione del terzo millennio: 600 anni. Il tempo, scrive il premio Nobel russo Ilya Prigogine, nasce e il tempo precede l’esistenza. Non essendo nato con il nostro universo, il tempo, il tempo che egli dice “creativo”, farà nascere altri universi. Di tutto questo la nostra esperienza di uomini, se non ci appropriamo della storia, se non derubiamo la storia, può dirci ben poco. E la storia, forse, non ci chiede d’essere continuamente derubata? Non è forse in ciò che ancora si conserva e ci conserva? Il tempo, certo, non è soltanto quello che abitiamo a partire da questo o quell’evento. Esistono, come s’è già visto, tempi diversi e complementarmente tali. Dalla fisica classica provengono due nozioni di tempo: il “tempo degradazione” dell’entropia e il “tempo illusione” di Einstein.

Altri hanno provveduto a declinare ulteriori versioni del tempo: il cosiddetto “tempo zero”, ad esempio, secondo il quale l’Universo è un punto e il punto il principio, il “tempo cinematico” (misurato sui fenomeni del mondo atomico), secondo il quale l’Universo è in espansione e destinato a una fine, e il “tempo dinamico” (misurato sui fenomeni della gravitazione), secondo il quale l’Universo non s’origina nel tempo e non è in espansione. In questo elenco mi sembra rispondente a giustizia includere un tempo altro, il tempo dei profeti. Se esiste un tempo dei profeti, esso è certamente il tempo della sintropia, del lungo abbraccio che il futuro protende al presente.

Dico “certamente”, ma è proprio dalla sintropia che ci viene il dono dell’incertezza, dono che per noi abitanti della terra è anche destino. Nietzsche sosteneva che il capolavoro della sua vita consisteva nel fatto di aver creato distanze dentro sé. Con l’affermare che il tempo sintropico è il tempo della complessificazione e della differenziazione, voglio soprattutto dire, con Nietzsche, che esso è il tempo della creazione di distanze dentro sé. Se è vero che Nietzsche è il profeta della psicologia del profondo, se Jung ha potuto profetizzare, a ridosso di Nietzsche, l’avvento d’un terzo millennio, sembra altrettanto significativo che le profezie di entrambi convergano in direzione d’una coscienza sintropica, una coscienza cioè capace di creare distanze dentro sé, una coscienza capace di dimorare con i tempi e le loro vitali illusorietà, una coscienza altamente differenziata, dunque, alla quale voglio dare il nome, provvisorio, di immaginazione. Con ciò non intendo contraddire la tesi di Sartre secondo cui l’immaginazione, lungi dall’essere caratteristica della coscienza, si costituisce come condizione essenziale e trascendentale della coscienza stessa, come “fondo”, si potrebbe aggiungere, per impiegare un termine che fu proprio del misticismo renano.

Tale tesi, anzi, mi sembra particolarmente congeniale con quanto vado dicendo, cosi come congeniale mi sembra la concezione di “immaginazione produttiva” elaborata dal filosofo scozzese David Hume. La ragione, sostiene Hume, è incapace di mostrare la connessione di un oggetto con un altro; la ragione, insomma, è fatta di vuoti, è fatta di fallimenti che solo l’immaginazione può colmare o contenere.

È stato detto che “immaginazione” è la parola chiave dell’epistemologia di Hume. E sembra che lo sia stata, più segretamente forse e certamente solo temporaneamente, anche per Kant. Come è stato rilevato da Heidegger, infatti, nel passaggio dalla prima edizione della “Critica della ragion pura” alla seconda, il primato un tempo assegnato all’immaginazione (motivato dal fatto che la conoscenza è in tanto possibile in quanto finita) cede il passo al primato della ragione. Kant ha, secondo Heidegger, fatto marcia indietro, non si è sentito di affermare, come aveva ad esempio affermato a suo tempo Giordano Bruno, che l’immaginazione è “potente di procedere in infinito”. Di procedere, potremmo aggiungere, fino a Dio. Forse il Dio che ci abbandona, pensato dal grande teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, è semplicemente il Dio che ha abbandonato lo spazio e il tempo di Newton e Laplace per venire incontro a noi dal futuro.

Dal futuro a un presente propriamente ateo, un presente nel quale la storia non può più immaginarsi circolare, come fu per gli antichi indiani, per i greci e i romani, né come freccia destinata alla meta della “città di Dio”, come dettò Agostino. L’eterno residuo di futuro cui guardano gli uomini del presente è lo stesso luogo dal quale, forse, Dio torna indietro verso noi. E forse il Dio della sconfitta, di cui s’è detto all’inizio e del quale ha scritto Sergio Quinzio, è il volto in cui si riflette la presente difficoltà d’un troppo umano trapasso in direzione di rinnovati incontri, il volto temporaneo con cui il tramonto della ragione non ha ancora finito di intrattenersi. Ecco, allora, l’immagine di Dio che propongo all’ateo del terzo millennio: non un Dio che ci insegue dal passato, un Dio, per così dire, della causalità, ma un Dio che deve ancora venire, un Dio che, adesso, nel momento stesso in cui la parola costruisce un ponte per i nostri volti, sta venendo, e, anzi, da sempre sta venendo.

L’immagine di Dio che propongo, ovvero pongo di fronte ad occhi che la condividano, è un Dio dell’immagine, un Dio che sempre viene, insistentemente viene dal futuro a condividere con l’uomo un luogo: il luogo dell’immaginazione. Se, infatti, parlo di “immagine di Dio” è perché non altra mi sembra poter essere tale dimora di condivisione, di incontro, di reciprocità se non la presente dimora dell’immaginazione. ( Foto di Pete Linforth da Pixabay)

Giorgio Antonelli

Fantappie.it