Nucleare, Mattioli: «Nessuno è ancora riuscito a dominare la radioattività»

Il Giornale Online
di Gianni Mattioli
Docente di Fisica all’Università La Sapienza di Roma

LIVORNO. Che da un pugno di metallo scintillante, l’uranio, si possa tirar fuori tanta energia quanta se ne trae da una montagna di carbone sporco è certamente cosa affascinante, ma questo fenomeno ha un compagno di strada meno affascinante che è la radioattività. E’ dal 1896, dall’anno cioè della scoperta di Becquerel, che non siamo riusciti a vincere la sfida scientifica di dominare la radioattività. Da qui il rischio per le popolazioni ed i lavoratori, che è superfluo illustrare a coloro che vivono nel sito della centrale nucleare del Garigliano.

Il suo smantellamento è stato promesso da anni e ora si discute di bonifica delle trincee contenenti rifiuti solidi radioattivi o della stabilità sismica del camino. Basterebbe riflettere sul fatto che ci si interroghi se abbattere il camino o bonificare le trincee prima o dopo, alla luce delle dosi di radiazioni che nell’uno o nell’altro caso sarebbero assunte dalla popolazione e dai lavoratori addetti, per comprendere quanto un impianto nucleare sia profondamente diverso da un altro qualsiasi impianto industriale, proprio a causa del fatto che qui abbiamo a che fare con la radioattività, cioè con il grave rischio associato ai materiali radioattivi:

malattie degenerative ed effetti ereditari. Ma a me non è stato chiesto di discutere i rapporti SOGIN, per parlare di Garigliano. Mi è stato chiesto di parlare di scelta nucleare, in generale: la sanguinosa geopolitica del petrolio, gli aspetti minacciosi del cambiamento climatico fanno dire ad alcuni che è ora, per il mondo, di tornare al nucleare e voci ricorrenti consigliano per l’Italia di ripartire, per nuove installazioni, dai siti che già furono scelti per ospitare reattori.

Fin dai primi giorni di governo, il presidente Berlusconi ha annunciato la decisione di procedere in tempi rapidi alla realizzazione di un programma nucleare, per porre rimedio al danno che il referendum effettuato all’indomani dell’incidente di Chernobyl – governato dall’emotività strumentalizzata dagli ecologisti – ha apportato alle famiglie e alle imprese italiane: quella scelta “sciagurata” ha condannato l’Italia – unico tra i paesi industrialmente avanzati – ad una massiccia dipendenza dalle importazioni di petrolio e di gas, privando il Paese di una fonte energetica abbondante, pulita e a basso costo.

Ma, al di là della enunciazione del premier e dei suoi ministri, va detto che questa posizione, da alcuni anni a questa parte, è divenuta un “recitativo” sempre più insistito nella informazione giornalistica a proposito di energia, tanto da essere ormai considerata vera. Al contrario, si tratta di affermazioni che la documentazione internazionale – ampiamente disponibile – semplicemente smentisce.

L’energia nucleare non è abbondante: essa fornisce oggi al fabbisogno mondiale di energia elettrica un contributo pari al 15% e, secondo la stima dell’Agenzia Onu per l’Energia Atomica, a questo ritmo, c’è uranio fissile – cioè l’uranio 235 – solo per 70 anni: se dunque si volesse almeno dimezzare la massiccia incidenza dei combustibili fossili (~66%), bisognerebbe almeno triplicare in tempi rapidi la percentuale nucleare.
Se dunque volessimo fare dell’energia nucleare una vaga alternativa ai combustibili fossili, ne avremmo per 20-25 anni:

cioè ci scanneremmo per l’uranio come ci scanniamo per il petrolio. Quanto all’Italia, le tracce di uranio in Liguria e in Trentino non configurano certo una qualche parvenza di autonomia.
Certo, si potrebbe passare all’uso dell’uranio 238, molto più abbondante in natura, ma per ciò si dovrebbe passare attraverso la produzione di Plutonio, secondo la linea intrapresa dai Francesi con i reattori veloci. Si tratta di una tecnologia ad alto rischio (proliferazione nucleare e salute: un milionesimo di grammo la dose letale per inalazione). Finita la motivazione della force de frappe, la Francia ha abbandonato questa filiera.

L’energia nucleare non è pulita: come ci ricorda – ancora nel 2007 con la Pubblicazione 103 – l’ICRP, l’Agenzia Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Ionizzanti, dosi comunque piccole di radiazioni, aggiungendosi al fondo naturale di radioattività, possono causare eventi sanitari gravi ai lavoratori e alle popolazioni, nel funzionamento “normale” degli impianti e, ovviamente, nel caso di incidenti.

Fuor da ipocrisie, la definizione ICRP di Dose Limite di radiazioni ai lavoratori degli impianti e alle popolazioni ivi residenti non significa dose al di sotto della quale non c’è rischio, ma quella dose “alla quale sono associati effetti somatici (tumori, leucemie) o effetti genetici che si considerano accettabili a fronte dei benefici economici associati a siffatte attività con radiazioni”.

Deriva da ciò la complessità degli impianti e delle stesse procedure operative e ciò incide fortemente anche sul costo del kwh. Oltre al rilascio di radiazioni nel funzionamento “normale” degli impianti, c’è poi il problema dello smaltimento delle scorie, tuttora materia di ricerca fondamentale: l’obiettivo finale è quello dello stoccaggio in formazioni geologiche appropriate, caratterizzate da bassissima permeabilità e situate in zone geologicamente stabili. Dopo il fallimento – con la vicenda di Carlsbed nel New Mexico – della prospettiva di poter utilizzare strutture rocciose saline, sono in fase di studio altri tipi di formazioni geologiche.

L’Agenzia nazionale francese per la gestione dei rifiuti nucleari (Andra) avvia ora un laboratorio sotterraneo alla profondità di 490 metri a Bure (Meuse). Altri modi di gestione dei rifiuti (trasmutazione o stoccaggio in superficie) sono tutt’ora allo studio e, per i prossimi decenni, mi sembra assai improbabile pervenire alla individuazione di un sito nazionale, sia pure provvisorio, superando anche l’opposizione comprensibile delle popolazioni. In ogni caso, si è dunque lontani dalla possibilità di indicare una tecnologia standard, per lo smaltimento delle scorie e per lo smantellamento degli impianti, in base alla quale determinare la incidenza di queste operazioni sul costo del Kwh.

Ma quale è il costo del kWh nucleare?
I problemi relativi al trattamento delle scorie o allo smantellamento degli impianti al termine della loro vita introducono molta incertezza nei metodi usuali di calcolo, che si fanno per qualsiasi fonte di energia. Altri elementi di incertezza derivano dalle complesse procedure autorizzative, dalle attività di controllo sulla realizzazione dell’impianto, tutti elementi che, introducendo allungamenti imprevisti dei tempi, differiscono la remunerazione dei considerevoli investimenti necessari e dunque introducono fattori di rischio finanziario.

Questi problemi sono alla base della situazione attuale di crisi drastica del settore nei paesi più avanzati, che pure avevano perseguito con decisione nel passato questa produzione di energia. Nasce da qui il progetto di ricerca guidato dagli Stati Uniti “Generation IV” con l’obiettivo di mettere a punto un nuovo tipo di reattore e di ciclo del combustibile nucleare in modo da conseguire un grado migliore di sicurezza, tale da superare la indisponibilità dell’opinione pubblica per un rilancio del nucleare dopo l’arresto di nuovi impianti nucleari – che negli USA dura dal 1978 – e per migliorare la competitività economica in modo da superare la indisponibilità delle imprese elettriche.

Nel 2000 Generation IV è divenuto un consorzio di paesi guidato dagli Stati Uniti, cui recentemente si è aggiunta anche l’Italia, finalizzato allo studio di reattori di nuova concezione tali, appunto, di fornire risposte risolutive sul piano dei costi, della sicurezza, dell’uso ottimale dell’uranio e della riduzione delle scorie. La ricerca è indirizzata ad un ampio spettro di tecnologie. Se i problemi citati potranno essere superati, Generation IV prevede la messa a punto di un prototipo di nuovo reattore non prima del 2030.

Quanti tuttavia hanno avanzato proiezioni di costo del kWh nucleare (per es. EIA/DOE: “Annual Energy Outlook 2004 and Projections to 2025”; MIT, 2003; ed altri), che tengono conto di tutti gli elementi sopra citati ed anche delle caratteristiche dei reattori di nuova concezione, pervengono comunque a stime dell’ordine dei 0,06-0,07 €/kWh, decisamente più elevate del costo del kWh a gas o a olio combustibile, ma anche prodotto con il vento (0,04-0,05 €/kWh). In queste condizioni, possiamo chiederci quale significato possa avere per l’Italia concentrare uno sforzo rilevantissimo – alternativo ad altre possibili scelte – per rientrare in un settore per il quale sappiamo

· che utilizza come combustibile una risorsa scarsa e perciò destinata a divenire sempre più costosa e oggetto di competizione internazionale, da acquisire comunque sul mercato estero

· che utilizza una tecnologia super complessa per fronteggiare, non completamente, gravi rischi sanitari, non solo in condizioni incidentali, ma anche nel semplice funzionamento di routine

· che non ha risolto il problema dello smaltimento in condizioni di sicurezza delle scorie e dunque, pur potendo garantire pochi anni di disponibilità, aprirebbe per il futuro problemi irrisolti e gravi

· che annuncia costi di produzione del kWh elettrico difficilmente definibili (smantellamento, scorie), e comunque più elevati – già attualmente o in un prevedibile futuro – rispetto ad altre fonti energetiche pulite e rinnovabili.

Allora? Che cosa fare?
La strada su cui procedere è quella a cui ci impegna la strategia decisa in sede europea: entro il 2020, realizzare il 20% di risparmio energetico e il 20% di fonti rinnovabili. Si tratta di obiettivi, dal punto di vista quantitativo, assai più rilevanti del programma nucleare del Governo. Su questa strada può anche decollare una prospettiva industriale di qualità, ma si tratta di una scelta alternativa a quella nucleare, dal punto di vista delle risorse disponibili: economiche, di ricerca, delle imprese.

Fonte: http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=18559