La pratica dell’attenzione e la falsa consapevolezza

La pratica dell’attenzione e la falsa consapevolezza

Philip Novak La pratica dell'attenzione falsa consapevolezzaPratiche che rinforzano la capacità di concentrazione o attenzione sono presenti nella maggior parte delle tradizioni religiose. L’importanza dello sviluppo dell’attenzione è evidente soprattutto nella grandi tradizioni nate in India, in particolare nell’induismo e nel buddismo. Dai veggenti upanishadici ai giorni nostri, in India esiste una tradizione ininterrotta con cui l’uomo ha cercato di unirsi (nel cuore e nella mente) alla realtà assoluta. Lo yoga assume molte forme, ma quella psicologica essenziale è la pratica dell’attenzione su un solo oggetto, o concentrazione (“citta-ekagrata”). Che si tratti di fissare l’attenzione su un mantra, sul respiro o su qualche altro oggetto, il tentativo di acquietare le attività automatiche della mente attraverso l’attenzione concentrata è il primo passo e il tema ricorrente dello yoga psicospirituale hindu.

Per le tradizioni nate da Gautama il Buddha, non poteva essere diversamente. Le forme di meditazione “samatha” e “vipassana” nella tradizione Theravada richiedono, come àncora e radice, una capacità sempre maggiore di mantenere fissa l’attenzione, senza cedere alle varie forze psicologiche che tendono a disperderla. Samatha è la pratica dell’attenzione su un oggetto, ed è il punto di partenza comune per vari tipi di meditazione buddista. La meditazione vipassana consiste nello spiegamento dell’attenzione concentrata creata nella samatha da un punto all’altro dell’organismo, con lo scopo di comprendere alcune dottrine buddiste a un livello esperienziale sottile. Sebbene l’attenzione ricercata nella meditazione vipassana non sia focalizzata su un oggetto, essa resta una forma di attenzione altamente concentrata e diretta, l’antitesi stessa del vagabondare mentale dispersivo. In modo simile, la pratica tibetana della visualizzazione (che comincia solo dopo la pratica preparatoria della samatha) serve a sviluppare la costanza della mente, tramite la costruzione di elaborate immagini sacre sullo schermo della consapevolezza. Le due pratiche principali della tradizione zen, il “koan” e lo “zazen”, hanno il comune denominatore della pratica di un’attenzione continua e vigile. Inoltre, le principali scuole contemplative del buddismo danno molta importanza alla qualità della consapevolezza, cioè all’essere presenti, consci e, in una parola, attenti.

Arthur Waley ci dice, in The Way and Its Power (New York: Random House, 1958) che nel quarto secolo avanti Cristo i taoisti avevano già sviluppato tecniche di meditazione e di induzione della trance che erano probabilmente solo indirettamente influenzate dalle tecniche indiane. Erano chiamate “tso-wang” e “tso-ch’an” ed erano essenzialmente una pratica della concentrazione attraverso la focalizzazione sul respiro. Se non fosse stato per questi fenomeni indigeni analoghi, il buddismo avrebbe incontrato molta più resistenza nella sua espansione in Cina.

Prendendo in esame i tre grandi monoteismi occidentali, il fenomeno dell’attenzione non è altrettanto visibile. Ciononostante, è presente. Parlando in generale, le discipline spirituali delle religioni monoteiste non sono pienamente sviluppate come quelle orientali. Spesso costrette alla clandestinità da correnti teologiche o teocratiche ostili, molte pratiche spirituali delle religioni monoteiste sembrano essere passate dall’esoterismo all’oscurità, la corruzione e infine l’oblio. Tuttavia, queste religioni monoteistiche contengono profonde dimensioni mistiche, ed è qui che dobbiamo guardare per trovare la pratica dell’attenzione.

Le vere e proprie pratiche e tecniche della preghiera mistica ebraica sono difficili da accertare, ma accenni al riguardo si possono trovare negli antichi testi talmudici (in modo intermittente), nell’opera di Abraham Abulafia (molto frequentemente) e di alcuni suoi contemporanei, nei cabalisti di Safed del sedicesimo secolo, nell’opera di Isaac Luria e nei testi chassidici. I termini chiave sono “hitbodedut” (meditazione), “hitboded” (meditare) e “kavanah” (concentrazione, attenzione e intenzione). I primi due vengono da una radice che vuol dire “essere solitari”. Tuttavia, spesso questi termini fanno riferimento a una solitudine maggiore di quella fisica: ovvero, alla solitudine al di là dell’attività dispersiva della mente, raggiunta grazie alla concentrazione. In modo simile, kavanah indica un tipo di preghiera basata sulla concentrazione e l’attenzione capace di indurre uno stato alterato, “superiore” di consapevolezza. Per la tradizione mistica ebraica in generale, la ripetizione di parole sacre liturgiche (in modo simile ai mantra) sembra lo strumento principale per praticare l’attenzione, ma nei testi si possono trovare anche riferimenti alla concentrazione su immagini mentali, disegni di lettere e visualizzazioni di luci e colori. Gli esercizi di concentrazione sono anche legati ai movimenti del corpo e al respiro. Alcuni esercizi raccomandati nel tredicesimo secolo da Abulafia, dall’esecuzione lunga e complessa, sembrano richiedere una grande attenzione. In questo sembrano simili alla pratica buddista tibetana della visualizzazione elaborata.

Nel mondo cristiano, troviamo all’interno dell’ortodossia orientale la preghiera del cuore o di Gesù: un “mantra” cristiano che i contemplativi usano per richiamare alla mente il sé, unificare l’attenzione e quindi aprire il cuore alla Presenza Divina. La grande mole di testi contemplativi nella tradizione cattolica romana riguarda, come nell’ebraismo, la teoria e la dottrina, piuttosto che le tecniche. Nel primo medioevo è possibile trovare riferimenti alla contemplazione come a una ricerca di Dio nella quiete, il riposo e la tranquillità, ma niente di più. Il tardo medioevo vede tra i contemplativi la diffusione di una forma di preghiera chiamata “lectio divina”, o lettura meditativa delle scritture. Il monaco cistercense Thomas Keating descrive la lectio divina come l’esercizio della “capacità di ascoltare a livelli sempre più profondi di attenzione interiore” (nota 1).

Il misticismo pratico arriva a maggior fioritura con Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, nel sedicesimo secolo. La via di Giovanni era quella del silenzio, della preghiera non-dispersiva, di stati mentali provocati da quella che definiva “una serena e amorevole attenzione in Dio”. Recentemente è stato fatto un tentativo di rendere più popolare questo tipo di attenzione contemplativa con la “preghiera di centratura”, un’altra tecnica simile ai mantra per focalizzare l’attenzione e acquietare la mente, simile alla preghiera di Gesù in uso nell’ortodossia orientale.

Nel mondo dell’Islam, abbiamo la pratica contemplativa del silenzio e del “dhikr”: quest’ultimo è un’altra ripetizione simile ai mantra, solitamente dei nomi di Allah, finalizzata a imbrigliare la volontà e il suo potere di attenzione. Un termine più generico per il tipo di attenzione meditativa raggiunta nel dhikr è “moraqebeh”, che indica una “concentrazione della propria attenzione su Dio”, “la vicinanza del cuore a Dio”, “l’assorbimento dello spirito (umano) – «ruh» – nel respiro di Dio” e “la concentrazione di tutto il proprio essere su Dio” (nota 2). Moraqebeh, dicono i sufi, non è solo un’attività umana, ma anche divina: è poiché Dio è sempre attento a noi, che noi dovremmo esserlo a lui.

Due uomini che hanno attinto alle tradizioni di cui sopra e i cui scritti eclettici hanno avuto una grande influenza su chi è interessato all’autorealizzazione, sono G. I. Gurdjieff e J. Krishnamurti. Fondamentale nel lavoro di Gurdjieff è l’esercizio del “ricordo di sé”, consistente nel tentativo di sviluppare un’attenzione continua, priva di distrazioni e osservazionale diretta sia all’esterno, verso l’esperienza, sia – allo stesso tempo – all’interno, verso colui che sperimenta. Questo particolare aspetto del lavoro di Gurdjieff è simile agli esercizi di “nuda attenzione” della meditazione vipassana buddista. Krishnamurti insegna che la pratica fondamentale della trasformazione psicologica è la “consapevolezza priva di scelta”. Si tratta, di nuovo, della pratica di un’attenzione continua, osservazionale e non-reattiva verso l’esperienza interiore ed esteriore. Considerandola in modo isolato dal resto dell’insegnamento di Krishnamurti, questa attenzione non è molto diversa dal lavoro di Gurdjieff o dalla “nuda attenzione” dei buddisti.

L’attenzione, naturalmente, è un concetto che si ritrova anche al di fuori della prassi religiosa. Fa parte del vocabolario delle attività mentali di tutti i giorni, ma anche in questo contesto sembra un termine abusato, impiegato per indicare una grande varietà di stati mentali. Occorre resistere alla tentazione di pensare a essa come a una cosa sola. È meglio concepirla come una gamma che va dall’assenza virtuale di attenzione, come nel vero e proprio sogno a occhi aperti e nel flusso mentale meccanicamente determinato, fino all’acuta vigilanza attiva. Sebbene le pratiche contemplative differiscano grandemente tra loro, la qualità dell’attenzione che richiedono e a cui mirano si trova all’estremità superiore della gamma. Le varietà dell’attenzione contemplativa, in altre parole, si assomigliano tra loro più di quanto non assomiglino a quel fenomeno discontinuo e intermittente dell’attività mentale quotidiana che definiamo attenzione. D’ora in poi, se vogliamo evitare confusione, dobbiamo ulteriormente precisare la differenza relativa tra i tipi ordinari di attenzione e quelli che sono l’obiettivo della pratica contemplativa.

L’attenzione ordinaria può essere descritta come dispersiva, intermittente e passiva. Passa incessantemente da un oggetto all’altro, la sua intensità vacilla e spesso soccombe al vagabondaggio della mente, è reattiva o “passiva” in relazione ad alcune successioni di oggetti esterni o al flusso autonomo della consapevolezza. Prendiamo, per esempio, l’atto in cui il lettore è attualmente assorto. Tu stai seguendo attentamente questa spiegazione, cercando di capirla. Sicuramente, questa è attenzione e non disattenzione. Il contemplativo sarebbe d’accordo, ma aggiungerebbe che questa attenzione è dispersiva e prevalentemente passiva. In questo caso particolare, le mie parole stanno creando le dispersioni della tua mente, portandola da un luogo all’altro. Inoltre, è altamente probabile che, durante la lettura, la tua mente avrà vagato un numero sorprendente di volte, rincorrendo un’associazione o l’altra per mezzo di fluttuazioni psichiche autonome. Anche se ora smettessi di leggere questo articolo e ti volgessi al tuo interno per elaborare una catena di ragionamenti, è probabile che faresti questo in uno stato di attenzione prevalentemente passiva. Infatti, tale attività creativa richiede un’accurata selezione di ciò che l’attività automatica della psiche offre.

Nello stato mentale ordinario, l’attenzione non è una qualità che portiamo nell’esperienza, ma qualcosa che accade, piuttosto casualmente, quando il nostro organismo si interessa momentaneamente a qualche sequenza interiore o esteriore di fenomeni. L’attenzione comune va e viene senza il nostro consenso; non è qualcosa che facciamo, ma che ci accade. Quasi sempre, per la maggior parte di noi, l’«attenzione» è stimolata, condizionata e guidata da mobilitazioni di energia lungo i sentieri abituali all’interno del nostro organismo, in modo che quando essa arriva davanti al suo oggetto, si trova sempre di fronte, per così dire, un “fait accompli”, un fatto compiuto. Quindi, l’attenzione cui mirano gli esercizi contemplativi può distinguersi non solo dalla semplice disattenzione, ma anche dalla comune attenzione dispersiva. Si tratta, piuttosto, di un’attenzione continua, non dispersiva e attiva che è, in realtà, abbastanza straordinaria. Infatti, molti di noi, pur nella varietà dei nostri miliardi di stati mentali, non hanno mai conosciuto un momento di autentica attenzione attiva. Un tale momento riduce le funzioni autonome dell’attività psicologica ordinaria. Se il lettore ha dei dubbi, può fare un semplice esperimento. Prendiamo una situazione di grande attenzione verso lo schermo della consapevolezza (per esempio quando si ascolta qualcuno), e si fa la guardia, per così dire, al luogo in cui nascono i contenuti della consapevolezza. Finché si riesce a mantenere questa intensa attenzione attiva, il dialogo interiore e il flusso delle immagini cesserà. Come ha detto Hubert Benoit: “La nostra attenzione, quando funziona nel modo attivo, è pura, senza un oggetto manifesto. La mia energia mobilizzata non è percepibile in sé, ma solo negli effetti della sua disintegrazione, ovvero le immagini. Tuttavia, tale disintegrazione accade solo quando la mia attenzione opera nella modalità passiva; l’attenzione attiva anticipa questa disintegrazione” (nota 3).

Chiunque abbia mai sperimentato l’attenzione attiva come l’abbiamo appena descritta, sa, comunque, che è difficile mantenerla a lungo. L’ammonimento onnipresente nei testi contemplativi ad andare in qualche modo oltre le immagini, le idee e tutto il pensiero dispersivo, comporta il compito apparentemente impossibile di cercare di fermare la mente con la mente. Ma grazie alla guida di un insegnante scopriamo che questo iniziale ammonimento viene in seguito bilanciato da una strategia molto più sottile, una seconda fase, per così dire.

Stabilito che le profonde abitudini della psiche sconfiggeranno ripetutamente una mente che abbia appena iniziato a praticare la concentrazione, e assumendo che il praticante cercherà sempre di esercitare un’attenzione attiva e vigile, i suoi alleati in ciò saranno l’imparzialità, l’equanimità e l’accettazione non-reattiva. Quando l’attenzione concentrata vacilla, occorre restare testimoni non-reattivi di ciò che sta avvenendo. Qualunque cosa emerga nella mente viene osservata e lasciata passare, senza ragionarci sopra né reagirci contro. Immagini, pensieri e sentimenti sorgono a causa dell’automatismo delle strutture psicologiche profondamente radicate, ma la loro esca non viene abboccata. A essi non viene permesso di rubare l’attenzione, disperdendola in un fiume di associazioni. Il praticante coltiva un’attenzione concentrata, ma quando quest’ultima si interrompe, egli impara a disidentificarsi con i contenuti della consapevolezza, mantenendo un atteggiamento non-reattivo e privo di scelta, e acquietando l’ego e le sue preferenze.

Se questa descrizione sembra troppo asiatica e solleva dubbi sulla sua pertinenza alle pratiche della preghiera contemplativa nelle religioni monoteiste, si consideri (per riequilibrare) questo brano da Your Word is Fire, un libro sulla preghiera chassidica: “Qualsiasi insegnamento che ponga tanta enfasi sulla concentrazione totale nella preghiera deve… affrontare il problema della distrazione. Cosa deve fare una persona quando pensieri estranei entrano nella sua mente, distogliendola dalla preghiera? …Il Baal Shem Tov… parlava contro i tentativi dei suoi contemporanei di… dare battaglia ai pensieri distraenti… Egli insegnava che ogni distrazione può trasformarsi in una scala attraverso la quale ascendere a nuovi livelli di devozione… Dio [è] presente in quel momento di distrazione! E solo colui che sa che Dio è presente in tutte le cose, inclusi quei pensieri che egli cerca di evitare, può essere un insegnante di preghiera” (nota 4).

Sebbene alcuni studiosi hanno distinto tra una pratica dell’attenzione “concentrativa” e una “ricettiva”, quanto appena detto suggerisce che questa distinzione non va spinta troppo in là. In ogni caso, questo cavillo accademico non deve trattenerci ulteriormente dal considerare il punto più importante. La domanda è: in che modo la pratica lunga e regolare dell’attenzione, nel contesto di una tradizione spirituale, fa sì che l’io riesca a liberarsi dall’egotismo compulsivo e dalla cecità per sperimentare le realtà più sottili e inclusive che si formano in tal modo?

Philip Novak falso io falsa consapevolezzaLa maggior parte della tradizioni contiene delle nozioni sulla falsa consapevolezza o falso io, il quale, una volta sconfitto, reso trasparente o altrimenti trasceso, permette alla verità autoevidente di rivelarsi.

Diciamo, quindi, che il significato centrale degli esercizi dell’attenzione è liberare l’essere umano dalla schiavitù alle macchinazioni del falso io.

Per afferrare meglio questo concetto, consideriamo il fatto che gli esseri umani hanno un persistente bisogno di preservare ed espandere il proprio essere, e quindi ciascuno di noi, dalla nascita, intraprende quello che potremmo chiamare un progetto dell’io. Ognuno aspira a essere speciale e al centro dell’attenzione, a conseguire addirittura l’immortalità, e ognuno spende energia per raggiungere quelle cose che, secondo il suo livello di comprensione, appagheranno tali aspirazioni. Secondo molte tradizioni contemplative, tale aspirazione ha radici in una verità profonda: in ultima analisi, tutti partecipiamo alla vita eterna della realtà assoluta. Ma, sfortunatamente, la trascendenza dell’ego prescritta dalle tradizioni contemplative viene di solito rifiutata, a favore di vani e infiniti tentativi di espandere l’ego nel mondo esterno, attraverso il possesso, la proiezione e la gratificazione.

Il falso io, allora, può essere visto come una metafora dell’automatismo psichico, cioè dei modelli di pensiero automatici, egocentrici e abitudinari, dei giudizi e delle valutazioni emotive, e dell’immaginazione che filtra e distorce la realtà, modellando il comportamento secondo i bisogni del progetto dell’io. Una volta che questi modelli di inclinazioni si sono fissati in “strutture” psicologiche relativamente permanenti, possiamo pensare che si nutrono costantemente dell’energia psichica disponibile, dissolvendola nelle associazioni senza fine né valore della corrente della consapevolezza. L’energia che altrimenti si sarebbe manifestata come la gioia della consapevolezza aperta e centrata sul presente, viene inesorabilmente spinta verso queste strutture, dove si disintegra nelle immagini-film e i commenti – il “rumore” – che soffondono la consapevolezza ordinaria.

Ciò che permette all’automatismo del falso io (che con il tempo diventa sempre più massiccio) di funzionare in modo incontrollato è, in una parola, l’identificazione. Finché siamo inconsapevolmente e automaticamente identificati con i mutevoli contenuti della consapevolezza, non abbiamo mai il sospetto che la nostra vera natura ci rimanga nascosta. Ma se l’espressione libertà spirituale vuol dire qualcosa, il suo primo e più importante significato è la libertà da tale identificazione automatica.

Una volta che l’automatismo e l’identificazione vengono riconosciuti come i sostegni del falso io, siamo in grado di comprendere il potere psico-trasformativo dell’attenzione concentrata e non-reattiva. Infatti, che si tratti di un musulmano che stia ripetendo i nomi di Dio o di un buddista theravada che stia esercitando la nuda attenzione, lui (o lei) sta praticando (in un certo grado) la disidentificazione che conduce alla de-automatizzazione (nota 5) del falso io.

Il semplice atto di cercare di tenere ferma la mente su un punto, un atto con cui cominciano forme più elevate di meditazione, insegna al principiante (in modo radicale ed esperienziale) che lui o lei non ha alcun controllo sul flusso mentale. Qualsiasi pratica dell’attenzione comincia con tale fallimento. Questo è il primo passo importante verso l’oggettivazione del flusso mentale, cioè verso il vedere quest’ultimo non come qualcosa che “io” sto facendo, ma come qualcosa che sta semplicemente accadendo. Senza tale comprensione, nessun progresso è possibile. Infatti, per evadere da una prigione, occorre prima sapere di essere in prigione. Così, quando si chiede al cristiano di concentrare l’attenzione soltanto su Dio; quando il musulmano tenta di indirizzare la sua attenzione soltanto sui nomi di Dio; quando il buddista tibetano cerca, con grande attenzione, di costruire elaborati immagini di Tara sullo schermo della consapevolezza, la prima lezione che questi praticanti imparano è che non possono farlo. Si comprende subito che lo stato mentale ordinario è estraneo alla più profonda realtà del proprio essere. Tanto più regolare si fa questa percezione, tanto più chiaramente si comprende la distinzione tra se stessi e i propri pensieri, e tra la consapevolezza in quanto tale e i suoi contenuti. L’oggettivazione dei contenuti della consapevolezza e la disidentificazione con essi sono conseguenze naturali.

Gli esercizi di attenzione contemplativa sono strategie di indebolimento. Ogni istante in cui l’energia disponibile viene indirizzata verso l’attenzione concentrativa e non-reattiva, è un istante in cui i processi automatici non hanno alimento. Nel mondo dinamico della psiche non esiste stasi: se gli automatismi non si rinforzano, cominciano a indebolirsi e dissolversi. Quando vengono privati del nutrimento precedentemente fornito loro dagli stati distratti della mente, i processi automatizzati della mente cominciano a disintegrarsi. L’attenzione contemplativa praticata per un lungo periodo di tempo può dissolvere e sradicare anche le sacche più resistenti di automatismo psicologico, permettendo alla consapevolezza di riguadagnare la libertà antica a la chiarezza che sono suoi diritti di nascita.

La de-automatizzazione, allora, costituisce un aspetto essenziale della liberazione spirituale, dell’emancipazione dal falso io. Inoltre, essa designa un processo lungo e graduale di trasformazione, all’interno del quale si realizzano distinte esperienze mistiche, e senza il quale queste ultime sono destinate a svanire nell’oblio.

A ogni modo, dovrebbe essere chiaro che la funzione del lavoro contemplativo è essenzialmente distruttiva. L’equipaggiamento di una tradizione spirituale fornisce una cornice protettiva e costruttiva all’interno della quale questo lavoro distruttivo può procedere. Più profondamente i fondamenti del falso io vengono erosi dalla pratica dell’attenzione, più forte si fa l’uragano di proteste interiori. La “morte” che si verifica durante il lavoro contemplativo può provocare shock e reazioni interiori tanto profondi che solo una tradizione religiosa può assorbirli e tramutarli in qualcosa di creativo. Il sostegno di una tradizione antica di centinaia di anni – ricca di simbolismo, di mappe metafisiche e psicologiche, e dell’esperienza di migliaia di pellegrini precedenti – e la guida di un insegnante esperto sono indispensabili. Un movimento new age che voglia proporre tecniche contemplative facendo a meno del contesto tradizionale in cui queste erano originariamente situate, sembra estremamente superficiale o molto pericoloso, se non entrambe le cose.

Inoltre, la tradizione e una comunità spirituale pongono molta importanza (cosa che una tecnica da sola non può fare) al fondamento “sine qua non” della condotta morale, necessario accompagnamento del lavoro interiore. Senza la rettificazione della condotta esteriore, il lavoro interiore non può spingersi molto lontano. È difficilissimo trovare una sola eccezione a questa regola, nelle grandi tradizioni.

Infine, la trasformazione dell’uomo non si realizza solo grazie a periodi isolati di intensa pratica dell’attenzione; tale pratica va collegata alla vita ordinaria tramite un’intenzionalità che renda ogni aspetto della vita parte del lavoro spirituale. L’«opus» contemplativa, in altre parole, non si può limitare a periodi formali di pratica dell’attenzione. L’attività ordinaria e la pratica contemplativa formale devono rinforzarsi l’un l’altra e sostenere la continuità della pratica che sola può risvegliare la mente e aiutarla a realizzare il “telos” adombrato nelle immagini e i concetti della tradizione cui appartiene.

Gli esercizi dell’attenzione non sono concepiti per essere praticati in solitudine. Perché siano efficaci, è richiesta non solo una lunga pratica, ma anche il supporto di una comunità, la guida di una tradizione, la tranquillità di una purificazione morale e, infine, la continuità della pratica che permette al potere della volontà, indispensabile al lavoro della trasformazione, di formarsi appieno.

Philip Novak

Note:

1. Contemplative Prayer in the Christian Tradition, in “America”, 8 aprile 1978, pp. 278 e segg.
2. Javad Nurbakhsh, In the Paradise of the Sufis (New York: Khaniqahi-Nimatullahi Pubblications, 1979), p. 72.
3. The Supreme Doctrine (New York: Viking Press, 1959), p. 40.
4. 1977, pp. 15-16.
5. Un concetto del quale siamo debitori ad Arthur I. Deikman, in Deautomatization and the Mystic Experience, “Psychiatry”, 29 (1966): 324-338.

Philip NovakVersione ridotta, con il consenso di Philip Novak, di due suoi precedenti scritti: voce Attention in The Encyclopedia of Religion, a cura di Mircea Eliade, Vol. I (New York: Macmillan, 1987), e Dynamics of Attention: Core of the Contemplative Way, in “Journal of Studies in Formative Spirituality” (Vol. V, No. 1, Febbraio 1984) pubblicato dalla Dusquesne University, Pittsburgh, Pennsylvania.

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