TMS e depressione: un possibile approccio terapeutico?

TMS e depressione: un possibile approccio terapeutico?
depressione
TMS, una tecnica non invasiva della neurofisiologia. Immagine di Eric Wassermann MD, Wikimedia Commons Public Domain

SALUTE – La depressione è contraddistinta, così come molti altri disturbi di natura psichiatrica, da una intrinseca complessità che rende gli approcci terapeutici molto difficili e i risultati ottenuti spesso poco significativi o transitori. Negli ultimi anni si sono perciò succeduti diversi tentativi di sviluppare terapie innovative, che andassero ad affiancare le più comunemente utilizzate (quelle di natura comportamentale) e che fossero basate sulla complessa neurobiologia alla base dei disturbi depressivi.

Grazie allo sviluppo e all’applicazione sempre più massiccia delle tecniche di imaging cerebrale è stato possibile delineare i precursori biochimici e le aree del sistema nervoso centrale che giocano un ruolo chiave nella regolazione delle emozioni, il cui funzionamento non ottimale può portare all’insorgenza della depressione.

La depressione è un disturbo dell’umore che coinvolge, nella sua eziologia, diverse strutture del sistema nervoso centrale come l’amigdala, la corteccia del giro del cingolo, l’ippocampo e la corteccia prefrontale. Per quanto riguarda nello specifico la regolazione delle emozioni, tale funzionalità è profondamente ostacolata da alterazioni anatomico-funzionali della regione frontale degli emisferi cerebrali conosciuta come corteccia prefrontale dorsolaterale (o dlPFC). Ciò porterebbe a uno squilibrio, espresso come un’aumentata emozionalità di tipo negativo a discapito di quella positiva.

È proprio nel filone dei trattamenti basati sulla neurofisiologia che si inserisce una nuova ricerca, apparsa pochi giorni fa sulle pagine della rivista Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging: lo studio sostiene che il processamento delle emozioni negative, così importante nei disturbi depressivi, possa essere rafforzato o indebolito tramite la modulazione localizzata dell’eccitabilità corticale.

Per giungere a questa conclusione i ricercatori dell’università di Münster hanno utilizzato una tecnica di stimolazione cerebrale non invasiva conosciuta come stimolazione magnetica transcranica (Transcranial Magnetic Stimulation o TMS): grazie a un’apposita bobina, appoggiata sulla testa del partecipante, si genera un campo magnetico che altera in modo del tutto sicuro e indolore l’attività elettrica alla base della comunicazione neuronale.

Esistono due modalità attraverso le quali la TMS può essere somministrata: a singolo impulso o di tipo ripetitivo. La prima è usata a livello di ricerca/diagnostico, in quanto riesce a evidenziare variazioni della normale attivazione di determinate aree della corteccia cerebrale. “A livello diagnostico la TMS è comunemente usata nell’ambito della valutazione della funzionalità delle vie motorie, i cosiddetti potenziali evocati motori, in patologie che vanno dallo stroke, alla Malattia di Parkinson, alla sclerosi multipla” spiega a OggiScienza Pierpaolo Busan, ricercatore presso IRCCS Fondazione San Camillo di Venezia e autore di numerose pubblicazioni su questa tecnica.

La TMS ripetitiva (rTMS) è invece un approccio terapeutico vero e proprio, in cui gli impulsi elettromagnetici sono veicolati per alcuni minuti in un protocollo di trattamento che prevede più sedute. Lo scopo è generare risposte di neuroplasticità a lungo termine attraverso stimolazioni che, a seconda della frequenza e della localizzazione, possono avere azione inibitoria o eccitatoria.

“A livello terapeutico, la rTMS è stata riconosciuta per il trattamento della depressione ma esistono, anche in Italia, dei centri che la usano anche nel trattamento delle dipendenze – da sostanza o comportamentali -“, prosegue Busan. “Inoltre in letteratura troviamo esempi di trial clinici che hanno provato a valutarne l’efficacia nel trattamento di patologie neurodegenerative, quali ad esempio la Malattia di Parkinson”.

Già vari studi hanno proposto la rTMS di tipo inibitorio come possibile approccio terapeutico per la depressione; il gruppo di ricerca tedesco ha invece tentato la strategia opposta, verificando l’effetto della stimolazione magnetica di tipo eccitatorio sulla risposta dei partecipanti alla presentazione di immagini paurose. I 41 partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: a entrambi venivano mostrate delle face paurose (per evocare emozioni di tipo negativo), o facce neutrali (come controllo). Un gruppo era sottoposto a stimolazione magnetica transcranica ripetitiva di tipo eccitatorio a livello della dlPFC, mentre nell’altro quest’area subiva una regolazione inibitoria.

Al contrario della regolazione inibitoria, la stimolazione eccitatoria ha ridotto il processamento sensoriale a livello visivo, il tempo di reazione per la risposta agli stimoli paurosi e, aspetto cruciale della ricerca, le attivazioni emozionali di tipo negativo causate dalle facce paurose.

Lo studio conferma quindi che la modulazione della regione frontale dell’emisfero destro del cervello correla con la regolazione emozionale, agendo come una sorta di centro di controllo per le altre regioni coinvolte nella generazione delle emozioni, in una modalità di tipo “top-down”. La strada per poter arrivare a un nuovo trattamento della depressione, basato sul ripristino della corretta regolazione emozionale, è tuttavia ancora lontana, anche perché lo studio è stato effettuato su un campione di volontari sani. “Una volta identificato il network cerebrale che si vuole modulare e gli effetti che si vogliono ottenere in una determinata patologia bisogna innanzitutto delineare il protocollo, eccitatorio o inibitorio, da applicare sui pazienti. È poi importante escludere possibili effetti aspecifici e/o effetti placebo della TMS”, commenta Busan.

I risultati dello studio tedesco incoraggiano la ricerca sulla TMS ripetitiva di tipo eccitatorio per trattare la depressione, magari affiancandovi terapie di efficacia conclamata. “Non è infrequente trovare dei trial clinici che prevedono l’associazione della neuromodulazione a un protocollo di riabilitazione classico o comportamentale”, conclude Busan, “magari per potenziarne gli effetti”.

Marcello Turconi

oggiscienza.it