Le pietre per viaggiare

Le pietre per viaggiare

croce_pietreviaggiare_01bLe imbarcazioni polinesiane, pur senza alcun ausilio strumentale, compivano viaggi di oltre tremila chilometri con errori di rotta irrilevanti. L’astronomia come arte della navigazione, i sistemi di orientamento, il circolo delle stelle, i simulacri nautici di pietra.

Una particolare concezione del mondo elaborata dai polinesiani, che suddivide la cupola celeste in zone di latitudine, ciascuna contrassegnata da speciali stelle o asterismi zenitali.

I manufatti d’argilla rinvenuti ovunque e con caratteristiche comuni nelle isole della Polinesia, della Micronesia e della Melanesia, sembrano indicare che gli stanziamenti umani m quella parte del mondo ebbero origine presumibilmente intorno al secondo millennio a.C., interessando una quantità di isole, dall’attuale Nuova Britannia alle Fiji, dalle Caroline alle Tuamoto, alle Salomone, alle Gilbert. La relativa rapidità di questa diffusione ha alimentato negli studiosi la convinzione che le culture neolitiche dell’Oceania disponessero di una tecnologia di navigazione abbastanza avanzata, assistita certamente dalle indispensabili cognizioni nautiche e di orientamento, nelle quali non poteva mancare un contributo astronomico. È sintomatico come nella lingua degli abitanti delle isole Gilbert non esista alcun vocabolo che significhi astronomo, mentre gli esperti delle stelle vi si trovano indicati con la parola tiaborau, che vuol dire navigatore.

Costoro erano in realtà specialisti in geografia, in pratiche marittime e metereologiche; conoscevano la posizione dell’equatore celeste, il numero delle stelle transitanti quotidianamente allo zenith e sapevano distinguere le stelle dai pianeti, nonché i relativi angoli di azimuth sottesi dagli astri al loro sorgere e tramontare sull’orizzonte. I tiahorau, inoltre, avevano cognizione delle posizioni assunte dal sole sull’eclittica nel corso dell’anno ed erano perciò esperti di equinozi e solstizi, dei cicli stagionai e della loro influenza sul clima e sui mari. La loro appartenenza necessariamente a classi di alto rango, capi o sacerdoti, imponeva estrema riservatezza nell’uso e nella divulgazione di tali conoscenze, che, d’altronde, non erano mai disgiunte da risvolti magici e religiosi, traendo esse origine dagli antichi miti che avevano alimentato la protostoria, dei numerosi gruppi etnici irradiatisi nell’Oceania.

E certo a causa di tanto geloso riserbo che nell’epoca attuale ben poco ci è giunto riguardo le conoscenze astronomiche fiorite presso quelle comunità e circa i criteri con i quali venivano usate a scopo di navigazione. “Sono segreti di cui solo io e il diavolo, il vecchio dio dei mari Tangaloa, siamo a conoscenza”, ebbe ad affermare un vecchio e cieco capo Tuita delle isole delle Tonga ad una missione scientifica inoltratasi nella zona. Le diverse comunità dell’Oceania mostrano di possedere concezioni cosmografiche arcaiche, dotate di singolari analogie.

Esse concepiscono il cielo sotto l’aspetto di una costruzione solida, consistente in una serie di cupole concentriche, aperte e sospese sull’orizzonte (e pertanto intercomunicanti), ognuna delle quali porta un suo proprio sistema di stelle e di costellazioni, peculiare a ciascun gruppo di isole. Si crede inoltre che tali asterismi svolgano azione protettrice nei riguardi delle terre e dei popoli loro sottoposti: e così la rossa Arturo (Hoku-Lea), principale astro del Bifolco, è in particolare dedicata alle isole Hawaii, sulle quali essa culmina allo zenith; la splendida Croce del Sud (detta Kahiki) sovrasta l’isola di Tahiti, il cui nome si suppone fosse in origine lo stesso della costellazione; il notevole ammasso delle Pleiadi (Mata-ree) appare consacrato alle isole Gilbert, e così via.

Il criterio che sta a fondamento di una siffatta concezione del mondo è quello del fanakenga, per il quale ciascuna cupola celeste viene suddivisa in zone di latitudine, contrassegnate da speciali stelle o da asterismi zenitali. Nelle isole delle Tonga il popolo distingue una zona settentrionale, una mediana ed una meridionale e ad esse fa corrispondere una differente temperatura delle acque del Pacifico. Codesta interpretazione costituisce un sistema di identificazione dei luoghi; e, in effetti, una tradizione sopravvissuta in quelle regioni celebra le virtù marinare di un antico capo che riuscì a riportare sulla giusta rotta la propria flottiglia, stimando al tatto la temperatura del mare, e di conseguenza, la direzione e la distanza alla quale dovevano trovarsi le isole Fiji, verso cui la spedizione era diretta.

Le stelle zenitali

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Idolo di imbarcazione da guerra, con intarsi di madreperla. Figura umana con colomba, laguna maravo, Isole Salomone, Altezza cm. 18.

Sebbene l’esistenza della Stella Polare fosse, almeno in modo parziale, conosciuta fra gli indigeni della Polinesia e della Micronesia – essa infatti non è più visibile oltre la linea dell’equatore, per i luoghi posti nell’emisfero australe – e tale stella venisse anzi considerata un “pilastro” del cielo, il suo uso agli scopi della navigazione non ha mai trovato applicazione pratica.

In ogni caso, la variazione d’altezza della Polare con la latitudine dei luoghi è senza dubbio un dato che i Polinesiani hanno acquisito dall’osservazione. Tuttavia, il criterio più diffuso per la determinazione delle latitudini nel corso delle lunghe traversate consiste nell’osservazione di una determinata serie di stelle che son note transitare allo zenith di altrettante isole, o arcipelaghi. È chiaro che, a causa della rotondità della Terra, un astro che culmina sulla verticale di un luogo non farà la medesima cosa rispetto ad un luogo posto a latitudine diversa.

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Maschera facciale in legno dipinto e inciso della zona del medio Sepik

David Lewis, ricercatore presso la Scuola di Studi per il Pacifico all’Università di Canberra, assicura di aver constatato come l’errore di approdo alla Nuova Zelanda, al termine di una traversata iniziatasi a Tahiti e proseguita, senza alcun ausilio strumentale, per ben 3200 km a bordo di un’imbarcazione indigena a doppio galleggiante, sia stato contenuto entro i 26′ di latitudine (ossia, in meno di 50 km): il capo navigatore si era affidato esclusivamente alla stima visuale delle stelle zenitali.

Ma ogni luogo geografico è notoriamente distinto dalle sue due coordinate: la latitudine e la longitudine. La longitudine può essere facilmente determinata se il viaggiatore trasporta con sé l’ora di un opportuno meridiano di riferimento: la differenza di orario constatata nei confronti del tempo proprio della località ignota fornisce infatti direttamente la longitudine del luogo riferita al meridiano campione, dopo aver tenuto conto che ogni ora di differenza corrisponde ad uno spostamento di 15″ in longitudine. Nella moderna pratica civile è invalso l’uso di riferirsi al meridiano che passa per Greenwich, vicino Londra. Ma in che modo si comportavano gli aborigeni del Pacifico per effettuare analoghe operazioni, onde poter stabilire, e anche correggere, le rotte di navigazione?

Il circolo delle stelle

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Maschera facciale in legno dipinto e inciso della zona del medio Sepik

Tra i sistemi di orientamento adottati dalle comunità del Pacifico, uno dei più completi è basato sul criterio del kavienga, ovvero il circolo delle stelle, adottato nelle isole Caroline, in quelle delle Tonga, a Tikopia e in altre località più o meno decentrate. Il kavienga si presenta come una specie di rosa dei venti: un cerchio completo di 360″ sul quale sono indicate 32 diverse direzioni orizzontali, ciascuna individuata dall’angolo di nascita o di tramonto di un astro facente parte di una lista di stelle selezionate (Vega, le Pleiadi, Aldebaran, Antares, ecc). È notevole il fatto che vi figurino anche astri molto distanti dalle regioni zenitali del cielo, come a dire α di Cassiopea, la α e la β dell’Orsa Maggiore, e la stella Polare, verso il nord; α del Centauro e la Croce a sud. I navigatori esperti di quelle isole usano con grande accortezza questo sistema di riferimento, nel quale del resto nutrono illimitata fiducia. “il circolo delle stelle potrà essere sbagliato – afferma un aforisma delle Tonga – ma le stelle non lo sono giammai”. Dunque il segreto del successo nella navigazione oceanica sta nel saper apprezzare con la maggior diligenza possibile gli angoli delimitati dalle stelle alloro apparire o scomparire sull’orizzonte.

Simulatori nautici di pietra

L’apprendimento delle tecniche astronomiche indispensabili a stabilire le rotte di collegamento necessitava certamente di una “scuola nautica” nella quale i vecchi capi o sacerdoti iniziassero gli adepti ai misteri dei segni offerti dalla volta celeste. Nella Polinesia e nella Micronesia sono state scoperte località diverse nelle quali alcune strutture in pietra mostrano in modo indubitabile l’esistenza di simili attività didattiche. Nell’isola di Niuafo’ou, appartenente alle Tonga, in vista della distesa desertica dell’oceano, si erge solitaria una massiccia pietra di basalto lunga 150 cm, che gli indigeni chiamano Hanga ‘i Uvea. L’antropologo Rogers, esperto di navigazione, ha sostenuto in un suo studio del 1969 che la disposizione del monolite è tale da indicare, in effetti, al i viaggiatore la direzione dell’isola di Uvea che, in linea d’aria, dista 216 km. Per maggior precisione, la rotta indicata devia di 16 km sopravvento per tener conto delle correnti marine prevalenti nel tratto da attraversare.

Un gruppo di “pietre da collimazione” è stato rintracciato nell’atollo di Butaritari, nell’arcipelago delle Gilbert: lo studio della loro disposizione indica anche qui un’indubbia correlazione con le isole Marshall, poste 264 km a nord. Un secondo gruppo di sei-sette pietre si trova nell’isola di Arorae, la più meridionale delle Gilbert: esse son note ai nativi col nome di Te Atihu ni Borau che significa semplicemente “pietre per viaggiare”. Ciascun monolite funziona da indice per la direzione di una determinata isola dell’arcipelago, e tiene conto della deriva che i venti dominanti possono imprimere alle imbarcazioni. I piloti, prima di intraprendere una traversata, si sedevano su di una piattaforma di osservazione posta a distanza della relativa pietra di traguardo e ne stimavano con accuratezza la direzione indicata, confrontandola con la disposizione di un determinato gruppo di stelle visibili in prossimità dell’orizzonte.

Il ricordo, o una semplice mappa, dell’associazione prospettica fra quelle stelle e la pietra di traguardo doveva evidentemente accompagnare e guidare il navigante durante tutto il tempo della traversata. Venivano anche eseguite, e lo sono tuttora, osservazioni a puro scopo d’addestramento, secondo quanto attesta un singolare esemplare di canoa di pietra esaminato dal Lewis nell’isola di Beru, anch’essa facente parte dell’arcipelago delle Gilbert. Si tratta di una figura delineata sul terreno mediante l’impiego di pietre grossolane, che delimitano un’ area a losanga avente la diagonale maggiore di qualche metro di lunghezza e disposta nella direzione est-ovest, mentre la diagonale minore è allineata con l’asse nord-sud. I vertici della figura sono contrassegnati da pietre poligonali aventi la funzione di indicare, tramite la propria mole e con la disposizione degli spigoli, l’importanza e la direzione del flusso delle maree. Il recinto di pietre raffigura evidentemente il bordo di un’imbarcazione. Il posto ove deve disporsi l’osservatore nel corso della sua pratica d’addestramento è indicato da una grossa pietra rettangolare contenuta all’interno della losanga. Su di essa si erge un blocco di corallo che sta a simboleggiare il dio del mare, entità protettrice e di ausilio ai naviganti.

Parte terminale di un albero di imbarcazione della zona di Masanei, medio Korewori. Sotto, parte anteriore di piroga ricavata da un tronco, con tracce di colorazione: testa di coccodrillo e uccelli, lunga cm. 203.
Parte terminale di un albero di imbarcazione della zona di Masanei, medio Korewori. Sotto, parte anteriore di piroga ricavata da un tronco, con tracce di colorazione: testa di coccodrillo e uccelli, lunga cm. 203.

Il ciclo del Sole e delle stagioni

Solstizio estivo all’isola di Tongatapu, nell’arcipelago polinesiano delle Tonga. Il sacerdote-capo della comunità dei nativi ascende con i suoi assistenti la ripida scalinata scavata nella roccia che lo conduce sulla sommità dell’altura rivolta a nordest, in vista della sconfinata distesa dell’oceano. Il sole non è ancora sorto, ma l’incarnato colore dell’alba che invade l’ampia volta del cielo, rischiarando di luce rosata le numerose elevazioni dell’isola, avverte che il momento fatidico non è lontano. In basso, nella valle e lungo la costa, rese ancora indistinte dalla semioscurità della notte fuggente, si ammassa la folla nereggiante, dalla quale un inno sommesso e solenne s’innalza nell’aria tranquilla di questo mattino particolare. Sul sommo della rupe, ove gli officianti sono ormai giunti, si innalza un trilite di roccia corallina costituito di due stipiti e da un architrave massiccio, che la tradizione ha denominato Ha ‘amonga a Maui e vuole sia stato eretto da Tu’itatui, leggendario sacerdote-condottiero che regnò nel 1200 d.C., undicesimo di una nobile stirpe. Improvvisamente un lampo di luce infocata sprizza dal lontano orizzonte e va a colpire frontalmente la sommità dell’architrave. Il canto dei nativi si fa di tuono, e gli officianti cominciano i loro riti devozionali: il giorno del solstizio è giunto, e con esso la nuova stagione che segna il rinnovellarsi della vita e delle opere in tutta la comunità.

Il trilite di Tongatapu non è unico in Oceania. Esploratori e studiosi attestano, al contrario, l’esistenza di numerose strutture ideate evidentemente per determinare le posizioni celesti che il Sole assume nel corso del suo cammino annuo. Una di queste si trova situata fra due alte rupi, in un’isola delle Hawaii, e consiste in un tempio piattaforma dal quale, nel giorno del solstizio estivo, è possibile scorgere l’astro del giorno sovrastare il picco settentrionale, o quello meridionale, al solstizio invernale. Nell’isola di Pasqua, un analogo tempio-piattaforma è in grado di indicare, mediante traguardi intermedi, anche le epoche degli equinozi. Nondimeno, fra le comunità delle isole di Gilbert, il percorso del Sole lungo l’eclittica viene suddiviso in un numero maggiore di posizioni celesti, a mezzo di osservazioni astronomiche effettuate da postazioni di forma piramidale, d’altezza compresa fra il mezzo metro e i cinque.

Le osservazioni si basano su stime della variazione in altezza delle Pleiadi rispetto all’orizzonte, e vengono eseguite durante l’anno, al sorgere o al tramonto del Sole. Con tale metodo i nativi sono in grado di stabilire le posizioni solari di dieci giorni in dieci giorni, a partire da quella di Antares che segna per loro, ma con grossolana approssimazione, il punto più basso raggiunto dall’astro del giorno allorché declina alla volta del solstizio invernale. La rossa stella dello scorpione e il notevole ammasso siderale che contraddistingue il Toro, rappresentano per la maggior parte dei Polinesiani i segni celesti caratteristici delle due principali stagioni secondo le quali essi usano suddividere l’anno. Antares, infatti, viene associata alle epoche adatte per la navigazione, la stagione Au-maiki favorevole per i venti e mite per temperatura; al contrario, le Pleiadi annunciano il sopraggiungere dell’Aumeang, la stagione inclemente che suscita le avversità degli elementi.

Una suddivisione meteorologica tanto drastica difficilmente sarà rispettata nel corso delle stagioni. Ma qualche marinaio gilbertese non è rimasto sfiorato dal dubbio: alle obiezioni se l’è cavata in modo elegante, limitandosi ad affermare che le irregolarità che, a volte, rendono difficoltosa la navigazione anche nel corso della stagione favorevole, rappresentano soltanto il risultato di “conflitti per la supremazia combattuti dalle stelle antagoniste”. Le deduzioni che si possono trarre da ogni reperto archeologico disponibile, l’analisi dei miti e delle tradizioni orali, concordano nel descrivere gli isolani dell’Oceania come un popolo che, anche se di ceppi originari eterogenei, ha il merito di aver sviluppato un’arte nautica di livello non indifferente. Non va dimenticato come il navigatore James Cook si meravigliasse di aver visto a Tahiti numerose imbarcazioni considerevoli per struttura costruttiva, alcune addirittura più grandi della sua stessa Endeavour, che apparivano dotate di plancia, ponti e dispositivi sofisticati per il galleggiamento e la manovrabilità.

La diffusione di informazioni, apprendimenti e tecniche, sostanzialmente di carattere affine, riscontrata entro l’enorme area che la Polinesia, Micronesia e Melanesia complessivamente ricoprono, pone agli studiosi ed agli esperti quesiti non trascurabili circa la frequenza delle antiche comunicazioni fra arcipelago ed arcipelago. A questo riguardo, non sono state sottovalutate le probabilità di contatti fortuiti di cui potessero essere stati protagonisti navigatori avventurosi, trascinati dalle correnti e dai venti, lungo rotte dapprima inusitate. Ciò potrebbe aver costituito, in realtà, un considerevole mezzo di apprendimento, di cui gli indigeni avrebbero saputo fare tesoro nel corso della loro evoluzione successiva. A meno che non avesse, in fin dei conti, avuto ragione Tupaia, uno spodestato capo tahitiano, informatore dello stesso Cook, quando affermava che le isole dell’Oceania una volta erano a più stretto contatto fra loro, e fu soltanto a seguito dei sacrilegi commessi dagli uomini che gli dei provvidero a separarle con vastissime estensioni marine!

Vincenzo Croce – Astrofisico

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