LONGEVITA' NON FA' RIMA CON STUPIDITA'

Il Giornale Online
Due psicologi scozzesi hanno fatto una ricerca che è poco importante, a prima vista, ma il cui risultato può essere letto a diversi livelli e dare origine a discussioni di interesse sociale. Gli autori della ricerca sono Lawrence Whalley, che insegna igiene mentale all’Università di Aberdeen, e Ian Deary, professore di psicologia differenziale all’Università di Edimburgo. I due sono partiti dalla nozione che gruppi socioeconomici diversi sono caratterizzati da morbilità differenti, e anche da una longevità differente. “Medici e sociologi” si sono detti “hanno da tempo accertato che i poveri e gli ignoranti sono malati più spesso dei benestanti, e muoiono prima. Hanno identificato varie cause di ciò, e hanno spiegato come combatterle.

Però non è mai stato studiato se la durata della vita è influenzata anche dall’intelligenza dei singoli individui. Noi due siamo in grado di farlo, e lo faremo”. Gli studiosi, infatti, sapevano che nel lontano 1932 le autorità scolastiche scozzesi avevano eseguito una grande ricerca, nel corso della quale avevano misurato il quoziente d’intelligenza, comunemente abbreviato in Q.I., di tutti i ragazzi di Aberdeen, in Scozia, che erano nati nel 1921, e che frequentavano qualche scuola. I dati furono esaminati, poi le registrazioni vennero collocate in soffitta. Dove giacquero per 65 anni. Nel 1997 erano ancora lì, polverose ma intatte.

Whalley e Deary le recuperarono e trascrissero in un computer il livello del quoziente intellettivo di ciascun undicenne d’allora. Poi si dedicarono ad accertare chi, dei quasi 2800 ragazzetti, ce l’aveva fatta a arrivare al 76° compleanno. Scoprirono che la sopravvivenza era stata nettamente maggiore fra quelli con un quoziente elevato, rispetto ai meno dotati. Ciò venne verificato sia nei maschi che nelle femmine; e l’analisi statistica di escludere che le differenze riscontrate fossero casuali. E’ particolarmente interessante il paragone seguente: se la sopravvivenza del gruppo costituito dal 25 per cento dei fanciulli con un quoziente intellettivo più alto è indicata con 100, quella dei ragazzi con un quoziente più basso del 15 per cento è risultata essere 79; e quella dei ragazzi con un Q.I. più basso del 30 per cento, solo 63. Si tratta di differenze assai forti, dunque, e abbastanza poco influenzate dai due indici di livello socioeconomico che gli studiosi del 1932 avevano registrato: il sovraffollamento in casa, e il tipo di occupazione del padre.

Sembra, dunque, che avere la mente sveglia da ragazzi costituisca un fattore di longevità molto importante. E’ così davvero, o ci sono degli errori nella ricerca? I due studiosi tendono a minimizzare i possibili errori, pur ammettendo che i test praticati nel 1932 erano un po’ primitivi, e che sono stati tradotti in termini moderni. Lascia inoltre perplessi il fatto che le ragazzine fossero, in media, meno in gamba dei maschi; però è indubbio che, all’epoca, l’istruzione delle femmine era trascurata negli strati più bassi della società. Si deve tener conto, piuttosto, che il quoziente intellettivo è una misura imperfetta dell’abilità mentale, perché la misura è largamente influenzata da fattori ambientali, quali la cultura in famiglia, e altri. Tanto che i test più accurati per misurare l’intelligenza, oggi, vengono praticati dagli psicologi personalmente, e si pretende non siano affidati ad assistenti non patentati. In conclusione: i risultati di Whalley e Deary sono da accettare con cautela, ma non c’è motivo di rifiutarli, soprattutto perché sono assai lineari.

I due studiosi ritengono che l’associazione fra basso quoziente intellettivo e mortalità prematura possa essere causata da numerosi fattori, che possono coesistere e potenziarsi. Anzitutto, un Q.I. basso a 11 anni può derivare da eventi prenatali, difetti di nutrizione nella prima infanzia e malattie infantili. Mentre un Q.I. alto indica uno sviluppo armonico, efficienza nell’elaborazione delle informazioni da parte del sistema nervoso, e acquisizione di ampie capacità di riserva mentale. In mancanza delle quali il declino cognitivo della senilità o l’insorgenza di una malattia di Altzheimer conclamata sono precoci. Un quoziente intellettivo elevato, inoltre, spinge a acquisire abitudini controllate: diete non smodate, moderazione nel consumo di alcolici, bassa frequenza di incidenti.

Già qualche anno fa, uno studio americano aveva cercato di identificare nei bambini alcune caratteristiche che potrebbero essere predittive di lunga vita: sarebbero, soprattutto, la coscienziosità, una scarsa tendenza agli scoppi di allegria e la costanza dell’umore. I maschi con un alto Q.I. all’inizio del XX secolo avevano anche una probabilità relativamente elevata di sistemarsi in posti di lavoro meno pericolosi di quelli dei lavoratori manuali. Mentre le loro più avvedute coetanee preferibilmente sposavano uomini equilibrati, benestanti, impegnati in una tranquilla e soddisfacente carriera; esse, quindi, oltre a essere ben nutrite, avevano scarsa probabilità di incorrere nell’evento stressante rappresentato da un intempestivo decesso del coniuge.

“L’intelligenza, insomma, ha effetti favorevoli a lungo termine” affermano gli psicologi scozzesi. “Anche se è difficile separare quello che è stato prodotto dall’abilità della mente da quanto è derivato dall’appartenenza a una classe sociale elevata e dall’istruzione. Si tratta di effetti, poi, che si surrogano l’un l’altro; almeno in parte. E’ lecito sospettare che un figlio di buona famiglia, che abbia studiato, sia un po’ balordo se non gode buona salute da adulto”.

Quanto è stato scoperto a Aberdeen dovrebbe spingere psicologi e educatori ad approfondire le cause di un basso quoziente intellettivo e a elaborare rimedi contro tale condizione, che si è rivelata tanto gravida di conseguenze.

fonte:zadig.it