Umberto Galimberti – Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica

tecnica

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”,

M. Heidegger, L’abbandono (1959), p. 36


Introduzione

1. L’uomo e la tecnica.

Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni disaffezione al nostro tempo ha del patetico. Ma nell’assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica che non noi, ma l’astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un’obbligazione più forte di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte.

In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si conosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo simili domande.

La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario, questo libro si propone di rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l’età pre-tecnologica e che ora, nell’ età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.

2. La tecnica è il nostro mondo.

Sono questi alcuni temi che nascono dal pensare la configurazione che l’uomo va assumendo nell’ età della tecnica. Le riflessioni qui svolte sono solo un avvio. Resta ancora molto da pensare. Ma prima di tutto resta da pensare se le categorie che abbiamo ereditato dall’età pre-tecnologica e che tuttora impieghiamo per descrivere l’uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo in cui l’umanità, come storicamente l’abbiamo conosciuta, fa esperienza del suo oltrepassamento.

Per orientarci occorre innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male. La tecnica non è neutra, perché crea un mondo con determinate caratteristiche che non possiamo evitare di abitare e, abitando, contrarre abitudini che ci trasformano ineluttabilmente. Non siamo infatti esseri immacolati ed estranei, gente che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne prescinde. Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.

Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un’essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell’uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l’uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza.

3. La tecnica è l’essenza dell’uomo.

Con il termine “tecnica” intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede alloro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello “spirito” umano, ma come “rimedio” alla sua insufficienza biologica.

Infatti, a differenza dell’animale che vive nel mondo stabilizzato dall’istinto, l’uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell’enigma del mondo, un mondo per l’uomo. L’anticipazione, l’ideazione, la progettazione, la libertà di movimento e d’azione, in una parola, la storia come successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro radice e nell’agire tecnico la loro espressione.

In questo senso è possibile dire che la tecnica è l’essenza dell’uomo, non solo perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l’uomo, senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, ha potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione, raggiungere “culturalmente” quella selettività e stabilità che l’animale possiede “per natura”.

Questa tesi, che A. Gehlen ha ampiamente documentato nel nostro tempo, era stata anticipata da Platone, Tommaso d’Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero occidentale, indipendentemente dalla direzione del loro orientamento. (Cfr. Parte II: “Genealogia della tecnica: l’incompiutezza umana”.)

4. La tecnica e la rifondazione radicale della psicologia.

Se si accolgono queste premesse, la psicologia deve fare con se stessa dei conti radicali e incominciare a pensare le varie figure, oggetto del suo sapere, a partire dalla tecnica, che è poi quel patto originario tra uomo e mondo che è rimasto “impensato” sia dalla psicologia a indirizzo scientifico-naturalistico, che tenta di “spiegare” l’uomo a partire dall’esperimento sull’animale, sia dalla psicologia a indirizzo fenomenologico-ermeneutico che, in tutte le sue varianti: psicodinamiche, comportamentiste, cognitiviste, sistemiche, sociologiche, tenta di “comprendere” l’uomo a partire dai condizionamenti tipici della cultura occidentale che parla di “corpo”, “anima” o “coscienza”.

Senza un’adeguata riflessione sulla tecnica, pensata come essenza dell’uomo, la psicologia scientifico naturalistica non può che approdare all’ etologia, mentre la psicologia fenomenologico-ermeneutica non può che arrestarsi all’ingenuità del soggettivismo, in quanto all’una sfugge che l’uomo è abissalmente distante dall’animale perché privo di quel connotato tipico dell’animale che è l’istinto, all’altra che l’ “anima” o la “coscienza” sono il residuato dell’azione e del suo prolungamento tecnico, quindi ciò che resta dopo che l’azione ha già consentito all’uomo di essere al mondo e, in esso, di ritagliare il suo mondo.

A questo punto occorre fondare una psicologia dell’azione per evitare sia uno sguardo riduttivo sull’uomo, come accade alla psicologia scientifico-naturalistica che pensa l’uomo a partire dall’animale, sia uno sguardo reattivo sull’uomo, come accade alla psicologia fenomenologico-ermeneutica che non accosta l’uomo a partire dalla sua esperienza immediata della realtà attraverso l’azione, ma dalla sua esperienza seconda, e quindi re-attiva, che è la riflessione sull’azione.

Si scoprirà allora che, a partire dalla carenza istintuale compensata dalla plasticità dell’azione, sarà possibile spiegare la motricità, la percezione, la memoria, l’immaginazione, la coscienza, il linguaggio, il pensiero, nella loro genesi e nel loro sviluppo, seguendo un percorso assolutamente lineare che, per giustificare il suo tracciato, non ha bisogno di ricorrere a quel dualismo anima e corpo che ogni psicologia dichiara di voler superare senza sapere come.

Non c’è scienza infatti che, nata da un falso presupposto, possa rimuoverlo senza negare se stessa. E questo è proprio il caso della psicologia che, anche se non lo sa, è la più “platonica” delle scienze, perché ancora non si è emancipata dal dualismo antropologico che, inaugurato da Platone e rigorizzato da Cartesio, impedisce alla psicologia di approdare al suo oggetto, se prima questa scienza non si disloca dal presupposto dualistico da cui è nata. Si tratta di una dislocazione che può avvenire solo attraverso una rifondazione radicale della psicologia, che deve assumere come suo punto di partenza non il “soggetto psicologico” e tanto meno l”‘oggetto psichico”, ma l’azione, (Cfr. Parte III: “Psicologia della tecnica: teoria dell’azione”).

5. La genesi “strumentale” della tecnica.

Se condividiamo la tesi che la tecnica è l’essenza dell’uomo, allora il primo criterio di leggibilità che va modificato nell’età della tecnica è quello tradizionale che prevede l’uomo come soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo antico, dove la tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un’enclave all’interno della natura, la cui legge incontrastata regolava per intero la vita dell’uomo. Per questo Prometeo, l’inventore delle tecniche, poteva dire: “la tecnica è di gran lunga più debole della necessità”. (Cfr. Parte I: “Simbologia della tecnica: la scena del Caucaso”.)

Ma oggi è la città ad essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua enclave, a ritaglio recintato entro le mura della città. Allora la tecnica, da strumento nelle mani dell’uomo per dominare la natura, diventa l’ambiente dell’uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell’efficienza, non esita a subordinare alle esigenze dell’apparato tecnico le stesse esigenze dell’uomo.

La tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del dominio, da cui è nata e al cui interno ha potuto svilupparsi solo attraverso rigorose procedure di controllo che, per esser davvero tale, non può evitare di essere planetario. Questa rapida sequenza era già chiaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna al suo primo sorgere quando, senza indugio e con chiara preveggenza, F. Bacone toglie ogni equivoco e proclama: “scientia est potentia”.

6. La trasformazione della tecnica da “mezzo” in “fine”.

Ma all’ epoca di Bacone i mezzi tecnici erano ancora insufficienti e l’uomo poteva ancora rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione tecnica. Oggi invece il “mezzo” tecnico si è così ingigantito in termini di potenza ed estensione da determinare quel capovolgimento della quantità in qualità che Hegel descrive nella Logica e che, applicato al nostro tema, fa la differenza tra la tecnica antica e lo stato attuale della tecnica.

Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica.

Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei mezzi in fini a proposito del denaro che, se come mezzo serve a produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e bisogni sono mediati perintero dal denaro, allora diventa il fine, per raggiungere il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni. In altra prospettiva e sullo sfondo di un altro scenario, E. Severino osserva che se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può esser raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé. Ciò comporta il crollo di numerosi impianti categoriali con cui l’uomo aveva finora definito se stesso e la sua collocazione nel mondo. (Cfr. Parte IV: “Fenomenologia della tecnica: il grande capovolgimento”.)

7. La tecnica e la revisione degli scenari storici.

Se la tecnica diventa quell’orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d’esperienza, se non è più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero “strumento”, dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario. Ciò comporta una radicale revisione dei tradizionali modi di intendere la ragione, la verità, l’ideologia, la politica, l’etica, la natura, la religione e la stessa storia.

La ragione non è più l’ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmo-logie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi che si intendono raggiungere. (Cfr. il capitolo 39: “La ragione come strumento”.)

La verità non è più conformità all’ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più orizzonte capace di garantire il quadro eterno dell’ordine immutabile, se l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal “fare tecnico”, l’efficacia diventa esplicitamente l’unico criterio di verità. (Cfr. il capitolo 38: “La verità come efficacia”.)

Le ideologie, la cui forza riposava sull’immutabilità del loro corpo dottrinale, nell’età della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici ipotesi di lavoro. La tecnica infatti, a differenza dell’ideologia che muore nel momento in cui il suo nucleo teorico non “fa più mondo” e tantomeno lo “spiega”, pensa le proprie ipotesi come “per principio” superabili, e perciò non si estingue quando un suo nucleo teorico si rivela inefficace perché, non avendo legato la sua verità a quel nucleo, può mutare e correggersi senza smentirsi. I suoi errori non la fanno crollare, ma si convertono immediatamente in occasioni di autocorrezione. (Cfr. il capitolo 42: “La tecnica e il crollo delle ideologie”).

La politica, che Platone aveva definito “tecnica regia” perché assegnava a tutte le tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordine all’apparato economico, a sua volta subordinato alle disponibilità garantite dall’apparato tecnico. In questo modo la politica si trova in quella situazione di adattamento passivo, condizionata com’è dallo sviluppo tecnico che essa non può controllare e tantomeno indirizzare, ma solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura amministrazione tecnica, la politica mantiene un ruolo attivo e quindi decisionale solo là dove la tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua razionalità strumentale. (Cfr. il capitolo 43: “La tecnica e il tramonto della politica”.)

L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati, dove gli effetti si addizionano in modo tale che gli esiti finali non sono più riconducibili alle intenzioni degli agenti iniziali. Ciò significa che non è più l’etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica di reperire i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle sue procedure, condiziona l’etica obbligandola a prender posizione su una realtà, non più naturale ma artificiale, che la tecnica non cessa di costruire e render possibile, qualunque sia la posizione assunta dall’etica.

Infatti, una volta che l’”agire” è subordinato al “fare”, come si può impedire a chi può fare di non fare ciò che può? Non con la morale dell’intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta nei termini della “pura ragione” da Kant, perché questa, fondandosi sul principio soggettivo dell’autodeterminazione e non su quello della responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze oggettive delle azioni e, proprio perché si limita a salvaguardare la “buona intenzione”, non può essere all’altezza del fare tecnico. Ma all’altezza non è neppure l’etica della re-sponsabilità che M. Weber ha introdotto e H. Jonas riproposto perché, se l’etica della responsabilità si limita ad esigere, come scrive Weber, che “si risponda delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni”, ebbene è proprio della tecnica dischiudere lo scenario dell’imprevedibilità, imputabile, non come quella antica a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore del nostro potere di prevedere. (Cfr. il capitolo 44: “La tecnica e l’impotenza dell’etica”.)

La natura. Il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca, che concepisce la natura come dimora di uomini e dèi, e quella giudaico-cristiana, poi ripresa dalla scienza moderna, che la concepisce come campo di dominio dell’uomo. Per differenti che siano, queste due concezioni convengono nell’ escludere che la natura rientri nella sfera di competenza dell’etica, il cui ambito è stato finora limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura. Ma oggi che la natura mostra tutta la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di fronte al quale le etiche tradizionali si fanno mute, perché non hanno strumenti per accogliere la natura nell’ambito della responsabilità umana. (Cfr. il capitolo 45: “Tecnica e natura: il capovolgimento di un rapporto”.)

La religione ha come suo presupposto quella dimensione del tempo dove alla fine (éschaton) si realizza ciò che all’inizio era stato annunciato. Solo in questa dimensione “escatologica”, che iscrive il tempo in un disegno, tutto ciò che accade nel tempo acquista il suo senso. Ma la tecnica, sostituendo alla dimensione escatologica del tempo quella progettuale, contenuta, come scrive S. Natoli, tra il recente passato in cui reperire i mezzi disponibili e l’immediato futuro in cui questi mezzi trovano il loro impiego, sottrae alla religione, per effetto di questa contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un disegno, un senso, un fine ultimo a cui poter far riferimento per pronunciare parole di salvezza e verità. (Cfr. il capitolo 46: “La tecnica e il crepuscolo della religione”.)

La storia si costituisce nell’atto della sua narrazione, che ordina l’accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso. Rispetto alla memoria sto-rica, la memoria della tecnica, essendo solo procedurale, traduce il passato nell’insignificanza del “superato” e accorda al futuro il semplice significato di “perfezionamento” delle procedure. L’uomo, a questo punto, nella sua totale dipendenza dall’ apparato tecnico, diventa astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un futuro pensato solo in vista del proprio autopotenziamento. (Cfr. il capitolo 47: “La tecnica e la fine della storia”.)

8. La tecnica e la soppressione di tutti i fini nell’universo dei mezzi.

Tra le categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l’unica che ci pone all’altezza dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto. “Assoluto” significa sciolto da ogni legame (solutus ab), quindi da ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e condizionamento. Questa prerogativa, che l’uomo ha attribuito prima alla natura e poi a Dio, ora si trova a riferirla non a se stesso, come lasciavano presagire la promessa prometeica e la promessa biblica quando alludevano al progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma al mondo delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell’automatismo del loro potenziamento, l’uomo, come scrive G. Anders, risulta decisamente inferiore e inconsapevole della sua inferiorità.

Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l’apparato tecnico o chi vi è semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o è a sua volta azionato, più non si pone la domanda se lo scopo per cui l’apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la “responsabilità” viene affidata al “responso” tecnico, dove è sotteso l’imperativo che si “deve” fare tutto ciò che si “può” fare.

Ma quando il positivo è iscritto per intero nell’ esercizio della potenza tecnica e il negativo è circoscritto all’errore tecnico, al guasto tecnicamente riparabile, la tecnica guadagna quel livello di autoreferenzialità che, sottraendola ad ogni condizionamento, la pone come assoluto. Un assoluto che si presenta come un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vista veri fini ma solo effetti, traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l’incremento infinito della sua funzionalità e della sua efficienza. In questa “cattiva infinità”, come la chiamerebbe Hegel, qualcosa ha valore solo se è “buono per qualcos’altro”, per cui proprio gli obbiettivi finali, gli scopi, che nell’età pre-tecnologica regolavano le azioni degli uomini e ad esse conferivano “senso”, nell’età della tecnica appaiono
assolutamente “insensati”.

A questo proposito non ci si deve far ingannare dal bisogno di senso, dalla sua ricerca affannosa, dalla sua domanda incessante a cui cercano di dar risposta le religioni con le loro promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del “senso” non si è salvata dall’universo dei mezzi. Se infatti il reperimento di senso favorisce l’esistenza, se, come scrive Nietzsche, rappresenta per la condizione umana un vantaggio biologico, là dove il senso non si trova occorre inventarlo, e allora anche il “senso” si giustifica perché, come mezzo per vivere, è in grado di assurgere a sua volta al rango di “mezzo”. (Cfr. il capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.)

9. Dall’alienazione tecnologica all’identificazione tecnologica.

Che ne è dell’uomo in un universo di mezzi che non ha in vista altro se non il perfezionamento e il potenziamento della propria strumentazione? Là dove il mondo della vita è per intero generato e reso possibile dall’apparato tecnico, l’uomo diventa un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell’età della tecnica l’uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell’altro-da-sé che è la tecnica. La tecnica infatti non è l’uomo. Nata come condizione dell’esistenza umana e quindi come espressione della sua essenza, oggi, per le dimensioni raggiunte e per l’autonomia guadagnata, la tecnica esprime l’astrazione e la combinazione delle ideazioni e delle azioni umane a un livello di artificialità tale che nessun uomo e nessun gruppo umano, per quanto specializzato, e forse proprio per effetto della sua specializzazione, è in grado di controllarla nella sua totalità. In un simile contesto, essere ridotto a funzionario della tecnica significa allora per l’uomo essere “altrove” rispetto alla dimora che ha storicamente conosciuto, significa essere lontano da sé.

Marx ha chiamato questa condizione “alienazione” e, coerentemente alle condizioni del suo tempo, ha circoscritto l’alienazione al modo di produzione capitalistico. Ma sia il capitalismo (causa dell’alienazione) sia il comunismo (che Marx progettava come rimedio all’alienazione) sono ancora figure iscritte nell’umanismo, ossia ancora in quell’orizzonte di senso, tipico dell’età pre-tecnologica, dove l’uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento. Ma, nell’età della tecnica, che prende avvio quando l’universo dei mezzi non ha in vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovolge, nel senso che l’uomo non è più un soggetto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell’alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l’uomo come suo predicato.

Ne consegue che la strumentazione teorica messa a disposizione da Marx, che pure fu tra i primi a prevedere gli scenari dell’età della tecnica da lui chiamata “civiltà delle macchine”, non è più del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non perché storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma perché Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con riferimento all’uomo pre-tecnologico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell’età della tecnica, non ci sono più né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono subordinarsi sia i servi sia i signori. A questo punto anche il concetto marxiano di “alienazione” appare insufficiente, perché di alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c’è un’antropologia che vuoI recuperarsi dalla sua estraneazione nella produzione, in un contesto caratterizzato dal conflitto di due volontà, di due soggetti che ancora si considerano titolari delle loro azioni, non quando c’è un unico soggetto, l’apparato tecnico, rispetto al quale i singoli soggetti sono semplicemente suoi predicati.

Esistendo esclusivamente come predicato dell’apparato tecnico che pone se stesso come assoluto, l’uomo non è più in grado di percepirsi come “alienato”, perché l’alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario alternativo che l’assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro contesto scrive R. Madera, l’uomo traduce la sua alienazione nell’apparato in identificazione con l’apparato. Per effetto di questa identificazione, il soggetto individuale non reperisce in sé altra identità al di fuori di quella conferitagli dall’apparato e, quando si compie !’identifica-zione degli individui con la funzione assegnata dall’apparato, la funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni senso residuo di identità. (Cfr. il capitolo 41: “Il mondo della tecnica e la reificazione dell’uomo”.)

10. La tecnica e la revisione delle categorie umanistiche.

Siccome, in quanto funzionario dell’apparato tecnico, l’uomo non è più leggibile secondo gli impianti categoriali elaborati e maturati nell’età pre-tecnologica, occorre una radicale revisione delle categorie umanistiche, a partire dalle nozioni di individuo, identità, libertà, comunicazione, fino al concetto di anima, la cui arretratezza psichica ancora non consente all’uomo d’oggi un’adeguata comprensione dell’ età della tecnica.

L’individuo. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di “anima”, rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell’età della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore quell’entità indivisibile (dal latino: in-dividuum) che a livello naturale fa parte della specie e a livello culturale di una società di cui ripete, per le sue caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini della libertà altrui e, per ef-fetto di questo riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l’individuo empirico, l’atomo sociale, ma il sistema di valori che, a partire da questa singolarità, hanno deciso la nostra storia. (Cfr. il capitolo 48: “L’individuo e la sua illusione”.)

L’identità. Questa nozione che, come quella di individuo, nasce all’interno dell’antropologia occidentale perché, prima dell’Occidente e a fianco dell’Occidente, l’individuo non riconosce la sua identità ma solo l’appartenenza al gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal riconoscimento. Solo che, mentre nell’età pre-tecnologica era possibile riconoscere l’identità di un individuo dalle sue azioni, perché queste erano lette come manifestazioni della sua anima, a suo volere intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell’individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità, ma come possibilità calcolate dall’apparato tecnico, che non solo le prevede, ma addirittura le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il soggetto non rivela la sua identità, ma quella dell’apparato, all’interno del quale !’identità personale si risolve in pura e semplice funzionalità. (Cfr. il capitolo 49: “La funzionalità come forma dell’identità”.)

La libertà. Se con questa parola intendiamo l’esercizio della libera scelta a partire dalle condizioni esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamente avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello concesso nelle società poco differenziate, dove la qualità personale e non oggettiva dei legami, nonché l’omogeneità sociale riducono il margine di libertà a quello elementare dell’ obbedienza o della disobbedienza. La tecnica, avendo come suo imperativo la promozione di tutto ciò che si può promuovere, crea un sistema aperto che di continuo genera un ventaglio sempre più allargato di opzioni, che diventano via via praticabili in base ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio espressivo quello impersonale dei rapporti professionali, crea quella scissione radicale tra “pubblico” e “privato” che, anche se da molti è acclamata come cardine della libertà, comporta quella conduzione schizofrenica della vita individuale (schizofrenia funzionale), che si manifesta ogni volta che la funzione, che all’individuo spetta come membro impersonale dell’organizazione tecnica, entra in collisione con quello che l’individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina infatti per la prima volta nella storia la possibilità per l’individuo di entrare in rapporto con gli altri individui, e quindi di “fare società”, senza che ciò comporti un qualsiasi legame di natura personale. E allora, privati di una comune esperienza d’azione, che è sempre più prerogativa esclusiva della tecnica, gli individui reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi e, nell’impossibilità di riconoscersi comunitariamente, finiscono con il considerare la società stessa in termini puramente strumentali. (Cfr. il capitolo 50: “La libertà come dissimulata schiavitù”.)

La cultura di massa. La disarticolazione tra “pubblico” e “privato”, tra “sociale” e “individuale” operata dalla razionalità tecnica, modifica anche il concetto tradizionale di “massa”, introducendo quella variante che è la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massifìcazione come qualità di milioni di singoli, ciascuno dei quali produce, consuma, riceve le stesse cose di tutti, ma in modo solistico. Viene così consegnata a ciascuno la propria massifi-cazione, ma con l’illusione della privatezza e l’apparente riconoscimento della propria individualità, in modo che nessuno sia più in grado di percepire un “esterno” rispetto a un “interno”, perché ciò che ciascuno incontra in pubblico è esattamente ciò di cui è stato rifornito in privato. Nascono da qui quei processi di deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste. (Cfr. il capitolo 51: “Cultura di massa e sentimento oceanico”.)

I mezzi di comunicazione. All’omologazione sociale contribuiscono in modo esponenziale i mezzi di comunicazione che la tecnica ha potenziato modificando il nostro modo di fare esperienza: non più in contatto con il mondo, ma con la rappresentazione mediatica del mondo che rende vicino il lontano, presente l’assente, disponibile quello che altrimenti sarebbe indisponibile. Esonerandoci dall’ esperienza diretta e mettendoci in rapporto non con gli eventi, ma con il loro allestimento, i mezzi di comunicazione non hanno alcun bisogno di falsificare o di oscurare la realtà, perché proprio ciò che informa codifica, e l’effetto di codice diventa non solo criterio interpretativo della realtà, ma anche modello induttore dei nostri giudizi, che a loro volta generano comportamenti nel mondo reale con~o~i a quanto appreso dal modello induttore. In questa comunicazine tautologica, dove chi ascolta sente le stesse cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque, in questo monologo collettivo l’esperienza della comunicazione crolla, perché è abolita la differenza spe-cifica tra le esperienze personali del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci e le mille immagini che riempiono l’etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora esistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo se non impossibile parlare “in prima persona”. A questo punto i mezzi di comunicazione non appaiono più come semplici “mezzi” a disposizione dell’uomo perché, se intervengono sulla modalità di fare esperienza, modificano l’uomo indipendentemente dall’uso che questi ne fa e dagli scopi che si propone quando li impiega. (Cfr. il capitolo 52: “Mass media e monologo collettivo”.)

La psiche. Quando nell’epoca pre-tecnologica il mondo non era disponibile nella sua totalità, ogni anima costruiva se stessa come risonanza del mondo di cui faceva esperienza. Questa risonanza era per ogni uomo la sua interiorità. Oggi, esonerata dall’esperienza personale del mondo, l’anima di ciascuno diventa coestensiva al mondo. In questo modo vengono soppresse: la differenza tra interiorità ed esteriorità, perché il contenuto della vita psichica di ciascuno finisce con il coincidere con la comune rappresentazione del mondo, o per lo meno con ciò che i mezzi di comunicazione le destinano come “mondo”; la differenza tra profondità e superficie perché, con buona pace della psicologia del profondo, la profondità finisce con l’essere null’altro che il riflesso individuale delle regole del gioco a tutti comune dispiegato in superficie; la differenza tra attività e passività perché, se la tendenza della società tecnologica è quella di funzionare ad un regime di massima razionalità, quindi leibnizianamente come un sistema armonico prestabilito, non si dà alcuna “attività” che non sia per ciò stesso “adattamento” alle procedure tecniche che, sole, la rendono possibile. In questo modo l’anima viene progressivamente depsicologizzata e resa incapace di comprendere che cosa veramente significa vivere nell’ età della tecnica, dove ciò che si chiede è un potenziamento delle facoltà intellettuali su quelle emotive, per poter essere all’altezza della cultura oggettivata nelle cose che la tecnica esige a scapito e a spese di quella soggettiva degli individui. (Cfr. il capitolo 53: “La casa di psiche e il crollo delle sue mura”.)

11. L’età della tecnica e l’inadeguatezza della comprensione umana.

La depsicologizzazione dell’anima trattiene le discussioni sull’età della tecnica a quel livello inessenziale che è l’esaltazione incondizionata o la demonizzazione acritica. Questo libro vorrebbe promuovere quel passo ulteriore che è l’apertura dell’orizzonte della comprensione, persuasi come siamo che oggi orizzonte della comprensione non è più la natura nella sua stabilità e inviolabilità, e neppure la storia che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma la tecnica, che dischiude uno spazio interpretativo che si è definitivamente congedato sia dall’ orizzonte della natura che da quello della storia.

Questo è il passaggio epocale in cui ci troviamo, dove l’epocalità è data dal fatto che la storia che abbiamo vissuto ha conosciuto la tecnica come quel fare manipolativo che, non essendo in grado di incidere sui grandi cicli della natura e della specie, era circoscritto in un orizzonte che rimaneva stabile e inviolabile. Oggi anche questo orizzonte rientra nelle possibilità della manipolazione tecnica, il cui potere di sperimentazione è senza limite perché, a differenza di quanto accadeva agli albori dell’età moderna, dove la sperimentazione scientifica avveniva in “laboratorio”, quindi in un mondo artificiale distinto da quello naturale, oggi il laboratorio è divenuto coestensivo al mondo, ed è difficile continuare a chiamare “sperimentazione” ciò che modifica in modo irreversibile la nostra realtà geografica e quindi storica.

Quando le condizioni poste “per ipotesi” lasciano effetti irreversibili, non è più possibile continuare a iscrivere la tecnica nel giudizio ipotetico-congetturale che ha come sue caratteristiche la problematicità, la revisionabilità, la provvisorietà, la perfettibilità, la falsificabilità, ma occorre iscriverla nel giudizio storico epocale che, tra i giudizi, è il più severo, perché ciò che accade una volta è accaduto per sempre in modo irrevocabile.

A questo punto la domanda: se l’uomo non esiste a prescindere da ciò che fa, che cosa diventa l’uomo nell’orizzonte della sperimentazione illimitata e della manipolazione infinita dischiusa dalla tecnica? Per rispondere è necessario superare la persuasione ingenua secondo cui la natura umana è un che di stabile che resta incontaminato e intatto qualunque cosa l’uomo faccia. Se infatti l’uomo, come vuole l’espressione di Nietzsche, è quell”‘animale non ancora stabilizzato” che fin dalle origini non può vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si modifica in base alle modalità di questo “fare”, che perciò diventa l’orizzonte della sua autocomprensione. Non dunque l’uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma l’uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente. Oggi la tecnica dispone l’uomo di fronte a un mondo che si presenta come illimitata manipolabilità, e perciò la natura umana non può essere pensata come la stessa che si relazionava a un mondo, che è poi il mondo che la storia ci ha finora descritto, ai suoi limiti inviolabile e fondamentalmente immodificabile.

Eppure ancor oggi l’umanità non è all’altezza dell’evento tecnico da essa stessa prodotto e, forse per la prima volta nella storia, la sua sensazione, la sua percezione, la sua immaginazione, il suo sentimento si rivelano inadeguati a quanto sta accadendo. Infatti la capacità di produzione che è illimitata ha superato la capacità di immaginazione che è limitata e comunque tale da non consentirci più di comprendere, e al limite di considerare “nostri”, gli effetti che l’irreversibile sviluppo tecnico è in grado di produrre.

Quanto più si complica l’apparato tecnico, quanto più fitto si fa l’intreccio dei sottoapparati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto più si riduce la nostra capacità di percezione in ordine ai processi, ai risultati, agli esiti, per non dire degli scopi di cui siamo parti e condizioni. E siccome di fronte a ciò che non si riesce né a percepire né a immaginare il nostro sentimento diventa incapace di reagire, al “nichilismo attivo” della tecnica iscritto nel suo “fare senza scopo” si affianca il “nichilismo passivo”, denunciato da Nietzsche, che ci lascia “freddi”, perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. E così da “analfabeti emotivi” assistiamo all’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità (strumentale) dell’organizzazione tecnica che cresce su se stessa al di fuori di qualsiasi orizzonte di senso. L’esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio per l’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità di un’organizzazione, per la quale “sterminare” aveva il semplice significato di “lavorare”, può essere assunto come quell’ evento che segna l’atto di nascita dell’età della tecnica. Non si trattò allora, come oggi potrebbe apparire, di un evento erratico o atipico per la nostra epoca e per il nostro modo di sentire, ma di un evento paradigmatico, in grado ancora oggi di segnalare che se non saremo in grado di portarci all’altezza dell’operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacune, ciascuno di noi resterà irretito in quella irresponsabilità individuale che consentirà al totalitarismo della tecnica di procedere indisturbato, senza neppure più il bisogno di appoggiarsi a tramontate ideologie.

A differenza, infatti, del nichilismo descritto dalla filosofia che si interroga sul senso dell’essere e del non essere, il nichilismo della tecnica non mette in gioco solo il senso dell’essere e quindi dell’uomo, ma l’essere stesso dell’uomo e del mondo nella sua totalità. E se il nichilismo descritto dalla filosofia era anticipatore, profetico, ma impotente, perché non era in grado di determinare il nichilismo che prefigurava, il nichilismo sotteso al carattere afinalistico della tecnica non solo ha in suo potere la nientificazione, ma, stante la qualità degli imperativi tecnici e la morale degli strumenti che ne deriva, è nella possibilità di esercitare questo potere. Il fatto che la filosofia, e con lei la letteratura e l’arte, ancora si trattengono sul problema del senso dell’essere e quindi dell’uomo, senza sporgere sul problema della possibilità che hanno l’uomo e il mondo di continuare ad essere, contribuisce a quel “nichilismo passivo” che Nietzsche denunciava come nichilismo della rassegnazione. (Cfr. il capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.)

Nata sotto il segno dell’anticipazione, di cui Prometeo, “colui che pensa in anticipo”, è il simbolo, la tecnica finisce in questo modo col sottrarre all’uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità, divenuta ormai inadeguatezza psichica, si nasconde per l’uomo il massimo pericolo, così come nell’ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza.

Questo ampliamento psichico, alla cui promozione questo libro affida il suo senso, se da un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all’uomo che la tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale all’esistenza umana, si traduca in causa dell’insignificanza del suo stesso esistere.

Presentazione

Umberto Galimberti

Psiche e tecne.
L’uomo nell’età della tecnica

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