Manuale di comunicazione interstellare

Manuale di comunicazione interstellare
 comunicazione interstellare
Laniakea

Nelle sale cinematografiche italiane c’è grande attesa per il film Arrival (in Italia dal 19 gennaio), che mette in primo piano le difficoltà di un eventuale incontro ravvicinato “del terzo tipo” tra esseri umani e una delegazione di alieni approdati con le loro astronavi sul pianeta Terra. Il film ha dato il via a un interessante dibattito tra esperti approdato sulla rivista Science sul ruolo della linguistica nella conoscenza del cosmo. La comunicazione interstellare, del resto, è un campo di ricerca nuovo, ma non nuovissimo. Il linguista statunitense Daniel Everett ritiene si possa “imparare da zero un qualunque nuovo idioma. Persino quello degli alieni”. La sua esperienza proviene da una ricerca condotta per oltre 30 anni in Amazzonia tra gli indigeni della tribù dei Piraha, la cui lingua è stata pochissimo indagata finora. Everett pensa che il metodo con cui gli è stato possibile conoscere e comprendere la lingua dei Piraha sia applicabile anche a un’eventuale indagine per instaurare un dialogo e interpretare il pensiero alieno e il suo approccio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Scientific American.

Comunicazione interstellare

I Piraha, secondo lo studioso, contribuiscono a sconfessare alcune delle teorie secondo cui ogni idioma attinga a “concetti universali” per formare il vocabolario: non esiste, ad esempio, un termine per indicare la destra e la sinistra, così come vago è il sistema di numerazione. Una lingua atipica e isolata, dunque, richiede un metodo di apprendimento nuovo, l’approccio del “lavoro sul campo” monolingue: indicando singoli oggetti di cui si vuole sapere il nome si riesce facilmente a isolare il suono della parola. Più parole possono portare a isolare termini per indicare le azioni connesse: “Una volta appreso il termine ‘bastone’ e ‘pietra’ – spiega il linguista – si può intuire la struttura della frase ‘cade il bastone’, oppure ‘cade la pietra’”. E così via. E proprio questo approccio potrebbe aprire alla possibilità di capire E.T.: mettersi nella condizione di ascoltare, isolare e decifrare.

Un manuale dalla NASA

Ancora prima di Everett, circa la possibilità di stabilire un dialogo con forme di vita extragalattiche si sono impegnati nientedimeno che i maggiori cervelli della Nasa, l’istituto statunitense di aeronautica e attività spaziali. Ricercatori in ambito astronomico e astrofisico si sono uniti a psicologi, etnologi, storici, antropologi e – appunto – linguisti in un progetto che viaggia al confine tra l’ambizione bislacca e l’indagine affinatissima. Il volume Archaeology, anthropology and interstellar communication è infatti una ricerca rivolta a sondare l’origine della comunicazione nelle diverse culture della storia dell’umanità prendendo in considerazione anche i modelli animali tuttora indecifrabili.

Il documento è stato redatto nel 2014 e la previsione degli scienziati è che “in qualche decade forme di vita superiori, particolarmente intelligenti, potrebbero muoversi, seppur sporadicamente, nell’universo”. Come ci parleremo, quindi? L’intento degli autori è di porre i dubbi ex ante, ma anche valorizzare le possibilità a nostra disposizione per sperare con un certo ottimismo di instaurare un canale efficace di comprensione tra individui, o almeno forme di vita diverse.

Il primo, “morfologico” dubbio: “Che presenze dovremo prevedere di aspettarci? Fatte come? Se le nostre conoscenze sull’universo sono ferme al 4%, come potremo prevedere in che modo la materia “ha dato vita” ai nostri vicini extraterrestri? Siano essi organismi monocellulari, batteri, oppure organismi complessi oltre l’attuale immaginario. Cosa dobbiamo aspettarci?

Il secondo, biologico, dubbio che lo studio pone è: “Quali organizzazioni percettive i nostri vicini di pianeta avranno sviluppato per recepire e trasmettere messaggi?” Saranno dotati di udito, vista, tatto come li intendiamo noi? Quale “evoluzione” a livello biologico avrà guidato il loro sviluppo? Per rispondere, gli studiosi fanno ricorso alla (nostra) storia: i simboli matematici, le note della musica, la scrittura cuneiforme e i geroglifici. L’umanità nei suoi processi di trasformazione culturale ha espresso il bisogno di comunicare in più forme e la speranza è che da qualche parte nell’universo qualcuno stia compiendo gli stessi passaggi.

Una nuova Stele di Rosetta?

Nel documento si riflette sull’opportunità di pensare a una nuova stele di Rosetta, che come quella egizia, avvicini diversi codici nella speranza che almeno qualcuno di questi trovi assonanze e familiarità altrove. Ma potrebbe non bastare. Metti che i nostri amici alieni comunicassero come le api o come le balene? Cioè attraverso la loro danza nell’aria o le modulazioni di movimenti e suoni. Come potremo pretendere di comprendere l’universo rimanendo fermi a una lettura antropomorfica della vita oltre l’umanità?

Il terzo, epistemologico dubbio: “Quali riferimenti culturali governano i valori dei concetti che ogni comunità necessita di esprimere?” In Arrival, la linguista protagonista del film si trova nella delicatissima situazione di decidere come decifrare un segno il cui significato oscilla tra “arma” e “strumento”. L’interpretazione veicola la realtà.

Non è così semplice

Se la corsa alla mediazione interstellare è ufficialmente cominciata, l’entusiasmo è presto frenato dai ricercatori del CNR e dell’Inaf e dai loro colleghi della British Columbia University di Vancouver, che insieme hanno recentemente individuato un nuovo indice di abitabilità per gli esopianeti che complica non poco le cose. In uno studio pubblicato sull’International Journal of Astrobiology, gli astrofisici hanno confermato che il limite termico per lo sviluppo della vita complessa è più stretto di quello legato alla presenza di acqua liquida, normalmente assunta come criterio per ritrovare ambienti le cui condizioni siano simili a quelle che hanno generato la vita sulla Terra.

È dunque necessario prevedere l’ausilio di un nuovo indice basato su limiti di temperatura superficiale che permettano la presenza di “vita complessa’”, ossia organismi in grado di generare biomarcatori atmosferici.

“Le stime indicano che la quasi totalità di tali organismi, nonché dei cianobatteri in grado di produrre ossigeno atmosferico, sono racchiusi nell’intervallo tra 0 e 50°C – spiega Antonello Provenzale del CNR: da un’attenta analisi dei meccanismi di risposta termica biologica, dal livello molecolare fino a quello della vita complessa, si deduce che questo intervallo è probabilmente appropriato per le forme di vita con metabolismo aerobico che usino acqua come solvente, come gli organismi terrestri”. Inoltre, “le caratteristiche dell’atmosfera influenzano fortemente i gradienti di temperatura latitudinali del pianeta, la variabilità stagionale, la possibilità di sviluppo di vita complessa e anche la dose di radiazione superficiale indotta da raggi cosmici galattici – aggiunge Provenzale -. Pianeti con bassi valori della massa della colonna atmosferica sono caratterizzati da grandi escursioni di temperatura e alte dosi di radiazione, che potrebbero indurre un eccessivo tasso di evoluzione darwiniana”.

Per stimare l’abitabilità oltre il Sistema solare, in pratica, non basta la presenza di acqua liquida: occorre valutare le atmosfere dei pianeti “papabili”, le loro caratteristiche orbitali e i limiti termici.

Rosy Matrangolo

Comunicazione e divulgazione scientifica

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