TECNOLOGIA – Che scoperta mai sarebbe la produzione di idrogeno a partire da una pila? È un esperimento che chiunque potrebbe fare a casa propria con una pila, ripescando le spiegazioni del professore di chimica delle scuole superiori.
Eppure la scoperta della Stanford non è così banale, perché aggiunge un tassello agli studi che numerosi istituti di ricerca stanno facendo proprio in questi anni, ossia il tentativo di abbassare il consumo energetico dell’elettrolisi dell’acqua riducendo la tensione.
Usare una pila mini-stilo in un sistema piuttosto elementare è solo uno stratagemma per dire che l’elettrolisi può avvenire con sistemi che lavorano a basso voltaggio riducendo il consumo energetico. “La forza del sistema messo a punto dalla Stanford University sta nel produrre l’elettrolisi dell’acqua a basso voltaggio e in ambiente basico, cosa che evita il ricorso a materiali preziosi per la realizzazione degli elettrodi“, ha spiegato Alessandro Lavacchi, ricercatore presso il ICCOM CNR. Il ricercatore italiano, insieme a Francesco Vizza, è stato a sua volta protagonista di uno studio pubblicato quest’anno su Nature Communication in cui con il gruppo di ricerca dell’ICCOM hanno realizzato elettrodi capaci di effettuare l’elettrolisi a basso voltaggio (addirittura 0,6 – 0,8 V), usando come espediente una soluzione di alcoli al posto della semplice acqua.
Così il gruppo italiano ha ridotto il consumo di energia elettrica a 18,5 kWh per la produzione di 1 kg di idrogeno, rispetto ai 45 KWh per 1 kg di idrogeno generato da sola acqua.
La produzione annua globale di idrogeno è ad oggi superiore ai 44 milioni di tonnellate, buona parte dei quali destinati alla sintesi dell’ammoniaca mediante il processo Bosh-Haber per la produzione di fertilizzanti azotati. Con le tecnologie odierne, l’idrogeno viene prodotto per il 96% con processi che impiegano risorse fossili. All’elettrolisi dell’acqua viene affidata solo un 4% della produzione, che ha comunque una valenza commerciale. Come ha spiegato Lavacchi, “l’interesse verso la tecnologia dell’elettrolisi dell’acqua è cresciuto in questi ultimi tempi: infatti potrebbe essere realizzata tramite le energie alternative, cioè pulite. Al contrario le più tradizionali tecnologie che impiegano risorse fossili, tra cui è dominante il reforming degli idrocarburi, sono inquinanti perché portano alla generazione di oltre dieci kg di anidride carbonica per ogni kg di idrogeno prodotto. Al fine di ridurre l’impatto ambientale di queste tecnologie occorre sviluppare processi per il sequestro della anidride carbonica prodotta, che sono costosi sia in termini economici che energetici. Inoltre”, ha continuato Lavacchi, “l’idrogeno derivato dalle fonti alternative potrebbe essere un valido sistema per immagazzinare l’energia da fonti intermittenti, quali ad esempio il sole o il vento”.
Oggigiorno gran parte della tecnologia a elettrolisi è di tipo alcalino, e quindi non è così costosa perché non usa metalli pregiati. Tuttavia i sistemi attuali non sono così efficienti come quello sperimentato a Stanford, perché lavorano a una tensione di 2 V e non di 1,5 V. In questo senso è molto più efficiente l’elettrolisi a membrana che lavora a basso voltaggio (1,6-1,8 V) , ma che ha poi lo svantaggio di servirsi di elettrodi preziosi. L’esperimento di Stanford coniuga il basso voltaggio ai materiali poco preziosi e abbondanti: “i nanotubi oggi sono già prodotti in modo consistente, e in un prossimo futuro potrebbero rientrare in una produzione industriale e quindi a costi limitati”, ha commentato Lavacchi.
Nei laboratori di Stanford dunque hanno messo a punto un modello di elettrolizzatore da laboratorio. Il modello non è certo in grado di produrre idrogeno a livello industriale perché è troppo bassa la potenza fornita da una pila. Dopo le opportune verifiche e i dovuti aggiustamenti che sono necessari per realizzare un impianto su scala industriale, potrebbe essere possibile coniugare gli elettrodi appena presentati nel paper di Ming Gong per produrre idrogeno a basso costo energetico ed impatto zero, sfruttando fonti rinnovabili.
Giulia Annovi
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