Mega-fusioni di galassie antiche

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Questa rappresentazione artistica di Spt 2349-56 mostra un gruppo di galassie interagenti e sul punto di fondersi nell’Universo primordiale. Crediti: Eso / M. Kornmesser

Gli astronomi ritenevano che questo tipo di eventi iniziasse solo circa tre miliardi di anni dopo il Big Bang, perciò sono rimasti molto sorpresi nel constatare che le nuove osservazioni mostravano che invece avvengono quando l’universo è più giovane: circa la metà del previsto.

Con i telescopi Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) e Apex (Atacama Pathfinder Experiment) due diversi gruppi internazionali di scienziati, capeggiati rispettivamente da Tim Miller della Dalhousie University in Canada e della Yale University negli Usa e da Iván Oteo dell’Università di Edinburgh, Regno Unito, hanno scoperto dense concentrazioni di galassie decisamente sorprendenti, che stanno per fondersi formando il nucleo di quelli che, nel tempo, diventeranno colossali ammassi di galassie.

Andando a scrutare attraverso il 90 per cento dell’universo osservabile, l’equipe di Miller ha osservato un proto-ammasso di galassie, Spt 2349-56. La luce di questo oggetto ha iniziato il suo viaggio verso di noi quando l’Universo aveva circa un decimo dell’età attuale. Le singole galassie di questo denso accumulo cosmico sono galassie starburst e la concentrazione di formazione stellare vigorosa in questa regione così compatta la rende di gran lunga la più attiva mai osservata nell’universo primordiale. Lì nascono migliaia di stelle ogni anno, rispetto a una sola nella nostra Via Lattea.

Il gruppo di Oteo aveva già scoperto, grazie a osservazioni combinate di Alma e Apex, una simile mega-fusione formata da dieci galassie con formazione stellare, soprannominato il “nucleo polveroso rosso” a causa dei colori molto rossi.

Iván Oteo spiega perchè questi oggetti sono inaspettati: «Si pensa che il ciclo di vita di queste galassie starburst polverose sia relativamente breve, poichè consumano il loro gas a un tasso eccezionalmente rapido. In ogni momento, in ogni angolo dell’Universo, queste galassie sono di solito una minoranza. Trovarne così numerose, tutte luminose nello stesso momento, è sconcertante. C’è ancora qualcosa da capire».

Questi ammassi di galassie in formazione sono stati identificati per la prima volta come deboli macchie di luce con il Telescopio del Polo Sud e con l’Osservatorio spaziale Herschel. Osservazioni successive con Alma e Apex hanno mostrato che avevano una struttura insolita e hanno confermato che la luce proviene da un’epoca molto precedente del previsto – appena 1,5 miliardi di anni dopo il Big Bang.

Le nuove osservazioni di Alma ad alta risoluzione hanno finalmente rivelato che le due deboli luci non sono oggetti singoli, ma sono in realtà composti rispettivamente da quattordici e dieci galassie massicce, ciascuna entro un raggio paragonabile alla distanza tra la Via Lattea e le vicine Nubi di Magellano.

«Queste scoperte ottenute da Alma sono solo la punta dell’iceberg: ulteriori osservazioni con il telescopio Apex mostrano che il vero numero di galassie con formazione stellare è probabilmente tre volte più alto. Osservazioni in corso con lo strumento Muse installato sul Vlt dell’Eso stanno identificando ulteriori galassie», commenta Carlos De Breuck, astronomo dell’Eso.

Modelli correnti teorici e computazionali suggeriscono che i proto-ammassi massicci come questi avrebbero dovuto impiegare un tempo molto più lungo per evolversi. Usando i dati di Alma, con la sua risoluzione e sensibilità superiore, come input per simulazioni al computer molto sofisticate, i ricercatori possono studiare la formazione degli ammassi meno di 1,5 miliardi di anni dopo il Big Bang.

«Come questa assemblea di galassie sia diventata così grande così in fretta rimane ancora oscuro. Non è stata ammonticchiata lentamente nel corso di miliardi di anni, come gli astronomi si sarebbero aspettati. La scoperta offre una grande opportunità di studiare come le galassie massicce si siano incontrare per formare un ammasso di galassie così grande», conclude Tim Miller, dottorando della Università di Yale e primo autore di uno degli articoli.

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