Entro trent’anni, è possibile che la popolazione mondiale salga fino a 10 miliardi. Sfamare tutti senza appesantire l’ambiente sembra una prospettiva impossibile da affrontare quanto inevitabile. Questo è ormai un refrain che ci accompagna da molto tempo, eppure i segnali che confermano lo scenario continuano ad aumentare. Ad esempio, anche quest’anno l’OvershootDay – la “contabilità” delle risorse naturali disponibili in dodici mesi – è arrivato con mesi di anticipo, un giorno prima del 2018.
La produzione di cibo è uno dei fattori che più contribuiscono a sfruttare in fretta le risorse, di contro i raccolti, e quindi la disponibilità di cibo, potrebbero diminuire a causa dei cambiamenti climatici. Secondo le Nazioni Unite, a livello globale ci sono almeno 500 milioni di industrie agricole, soprattutto di piccole dimensioni, dalla cui attività dipende la quasi totalità di richiesta di cibo, e che soddisfano più dell’80% della domanda dei soli Paesi in via di sviluppo. Il cibo è al secondo posto nei 12 Development Goals delle Nazioni Unite (“Zero Hunger”, ovvero sfamare tutti, entro il 2030), ma per vincere questa sfida c’è da affrontare intanto una prima, cruciale battaglia: supportare buona parte di quelle – tante – piccole attività agricole nel processo di innovazione, insegnare agli agricoltori ad usare nel modo giusto le nuove tecnologie.
Science? Yes, in my Backyard!
Il Paese che in questo momento sembra essere all’avanguardia in questo senso è la Cina. Nel 2005, la China Agricoltural University di Pechino ha dato il via a un progetto che coinvolge diversi milioni di piccole fattorie (principalmente produzione di grano, mais, riso) per aiutarle a massimizzare le rese e minimizzare gli impatti di sostanze inquinanti. Questa svolta cinese è iniziata con diverse migliaia di studi sul campo, e il coinvolgimento di centinaia di scienziati da 33 diverse università.
A margine, si è fatta strada un’altra idea di coinvolgimento, altrettanto innovativa: il progetto Science & Technology Backyard: docenti e studenti universitari hanno convissuto per mesi in villaggi e fattorie, gomito a gomito con gli agricoltori per per studiare insieme strategie di rinnovamento delle coltivazioni e di trasferimento tecnologico.
Come riportato da un studio pubblicato su Nature a marzo 2018, lo sforzo decennale – dal 2005 al 2015 – della China Agricolture University ha portato a una crescita della produttività agricola dell’11% e a una riduzione fino al 18% dell’uso di fertilizzanti a base di azoto. In termini economici, questi numeri equivalgono a introiti pari a più di 12 miliardi di dollari, senza contare i benefici su lungo termine del contenimento degli impatti ambientali.
Provvedere al sostentamento di una popolazione di centinaia di milioni, in crescita continua ed esponenziale, è già di per sé una sfida titanica. Se l’agricoltura dipende da una costellazione smisurata di fattorie e piccole attività imprenditoriali, per giunta molto indietro nelle pratiche di sostenibilità ambientale, l’obiettivo diventa sempre più lontano. Per questo i risultati raggiunti dalla Cina in un decennio sono stati accolti come una speranza per altri paesi in via di sviluppo e per il pianeta intero.
Il beneficio, infatti, non riguarda solo la Cina, visto che qui viene prodotto un quarto del grano consumato a livello globale e, nel complesso, risorse alimentari per un quinto della popolazione mondiale, stando ai dati della UN’s Food and Agriculture Organisation (FAO).
Grazie a una campagna di dissemination di queste buone pratiche con il supporto di 65mila impiegati alla pubblica amministrazione e quasi 140 mila addetti del settore privato, l’iniziativa ha assunto poi un carattere nazionale più forte, tanto che nel 2014 il governo ha deciso di svecchiare le politiche agricole, spostando l’attenzione dalla produzione vecchia maniera degli “alti rendimenti” alla più moderna e necessaria produzione sostenibile (sicurezza alimentare + sostenibilità ambientale), annunciando l’impegno di ridurre fino a zero la quantità di prodotti chimici usati nei campi al 2020. Il merito di questo successo, spiega Nature, è da cercare in primo luogo nel coinvolgimento di milioni di piccoli agricoltori guidati passo passo dagli esperti dell’Università di Pechino.
Dopo un risultato del genere, era quindi inevitabile pensare a un’implementazione di questo modello. Così, nel 2009, il gruppo di esperti si è allargato aprendo alla partecipazione di docenti e studenti. Lo spirito di Science and Technology Backyard segue quanto era stato fatto fino a quel momento, cioè sviluppare tecnologie innovative in base alle richieste degli agricoltori, aggiungendo una componente di servizio sociale fornita dalla presenza fissa in loco degli studenti laureati.
Ricerca top-down, ma più attenta
Il primo hub STB è stato installato dieci anni fa a Baizhai, nella contea di Quzhou, provincia di Hebei, quasi al confine col Vietnam. Nel 2017 le postazioni STB era 88, sparse per tutta la Cina in aree con diverse caratteristiche ecologiche, coprendo grano, mais, riso e colture minori, come frutteti (banane, mele e altro). Una tipica struttura STB è abbastanza semplice. Prevede un backyard appunto, un cortile, ovvero uno spazio fisico distinguibile tra le case e i punti di lavoro degli agricoltori, che funga da sito di incontro; la presenza fissa di un esperto, almeno un docente o uno studente; facilities tecnologiche per comunicare con l’esterno e all’interno del villaggio; spazi ad hoc per i test scientifici e le dimostrazioni.
In uno studio pubblicato a febbraio di quest’anno, Xiaoqiang Jiao della China Agricoltural University specifica che la procedura seguita dagli operatori STB è definita dalla sigla “1351”: 1 prova sul campo con due trattamenti; 30 agricoltori, 50 campi coltivati e 100 campi dimostrativi. La messa a punto di nuovi prodotti e il calendario delle coltivazioni segue, dal lato degli esperti, sono sostanzialmente organizzati seguendo gli standard tipici di un laboratorio di ricerca. Tuttavia, si procede solo dopo aver ascoltato gli agricoltori, le loro preziose informazioni, i problemi e le esigenze pratiche che hanno da segnalare, in un processo di interazione che può durare anche diverse settimane.
A differenza del modello di ricerca top-down più tradizionale, in questa esperienza il processo continua quindi solo dopo aver risolto, uno per uno, i singoli problemi rilevati sul campo. La diffusione su larga scala può in definitiva contare su uno stato dell’arte più chiaro e più ricco di dati aggiornati.
Lo scambio di conoscenze durante la convivenza tra agricoltori e accademici è sostanzialmente continua, ma più strutturata nei momenti di incontro nelle Farmer Field School (FFS) presenti in ogni campo. Le colture scelte, i nuovi fertilizzanti, le soluzioni individuate a eventuali problemi, le nuove tecnologie testate vengono inoltre rese note anche con dei poster lungo i confini dei campi, proprio come si fa a una conferenza scientifica.
I numeri parlano chiaro: ci vuole più dialogo
C’è poi il contributo della ricerca dal basso, bottom-up, la formazione continua sul campo sia degli studenti che degli agricoltori stessi, ovvero un aggiornamento in tempo reale degli operatori appartenenti ai due “fronti”, con un generale arricchimento di conoscenza. Non secondario inoltre è stato l’elemento più “sociale” della convivenza, anch’esso indispensabile per la riuscita del progetto.
Solo nel 2017, con gli 88 STB presenti – diventati nel frattempo 120 – si contavano circa 250 studenti laureati e 80 agricoltori, con più di 200 paper pubblicati relativi alle tecnologie messe a punto numeri che sono andati crescendo ogni anno dal 2009.
Gli effetti dei nuovi prodotti messi a punto con questo modello “partecipativo” sono già certificati: proprio nella contea del primo STB, il raccolto di grano è aumentato di 8 tonnellate all’anno senza nessun incremento di fertilizzanti, mentre in un altro villaggio testato nel 2015, un incremento del 20% nel raccolto si è registrato addirittura senza utilizzare affatto fertilizzanti chimici.
Stando le attuali previsioni di crescita demografica, entro il 2050 la produzione di cibo attuale dovrà almeno raddoppiare. Il progetto Science and Technology Backyard dimostra che molto si può fare colmando i gap di conoscenza di chi può e dovrà farsi carico di quest’onere, ovvero gli agricoltori. Ma non si tratta solo di innovazione scientifica. L’iniziativa cinese, infatti, rivela che l’ingrediente segreto di questa ricetta ben riuscita è un’azione coordinata tra le parti in gioco, una comunicazione più efficace, in definitiva maggiore dialogo.
Marco Milano