Scoperta un’interferenza cuore-cervello che altera le capacità percettive

cuore
Foto di ElisaRiva da Pixabay

Per secoli il cuore, considerato sede dell’anima e delle emozioni, ha avuto un ruolo cruciale nei modelli – attualmente definibili come psicofisiologici – che tentavano di descrivere il rapporto tra informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno, elaborazione cognitiva e risposte comportamentali adeguate: un vero e proprio cardiocentrismo che nasce addirittura nell’Antico Egitto, durante il quale si credeva che il cuore, deposto assieme al defunto, potesse intercedere verso gli dei aiutando così l’anima della persona morta nell’Aldilà.

L’idea del cuore come sede dell’anima prosegue, nella cultura occidentale, con Aristotele e si protrae fino a Cartesio (che vedeva in questo organo, origine della forza motrice dei corpi animati, una tappa cruciale del circuito sensorimotorio fulcro della sua psicologia) e Hobbes (secondo cui la percezione stessa era legata a una propagazione meccanica che dai nervi si trasmetteva al cuore). Innumerevoli scoperte successive nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive hanno però consegnato le redini della coscienza, della personalità e della percezione sensoriale (nonché dell’insorgenza e regolazione delle emozioni) al sistema nervoso centrale, declassando il cuore a una mera pompa, seppur cruciale per la sopravvivenza di ogni animale (essere umano compreso).

L’ultimo colpo di scena è collegato alla ricerca di un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le Neuroscienze di Leipzig, recentemente apparso sulle pagine della rivista PNAS, secondo il quale cuore e cervello esercitano uno sull’altro un’influenza reciproca, almeno per quanto riguarda i fenomeni percettivi.

Una questione di….fasi
Durante un battito, il muscolo cardiaco si contrae (fase di sistole, nella quale le cavità del cuore si svuotano) e viene rilasciato (fase di diastole, in cui atri e ventricoli si riempiono di sangue). In una precedente pubblicazione, il gruppo di ricerca tedesco aveva dimostrato che la percezione degli stimoli esterni cambia in relazione alla fase del battito cardiaco in cui gli stimoli vengono percepiti: in sistole, infatti, si ha meno probabilità di rilevare un debole stimolo elettrico localizzato a livello del dito, rispetto a quando la stessa stimolazione è erogata in diastole.

Ora, in un nuovo studio, il team guidato dalla Dr.ssa Esra Al ha spiegato il perché di questa differenza: in realtà è l’attività cerebrale stessa che viene modificata durante il ciclo cardiaco. Per giungere a questa sorprendente conclusione il gruppo di ricerca ha studiato i cosiddetti potenziali evocati, ossia le risposte neurofisiologiche che originano a seguito della percezione di uno stimolo esterno: ogni stimolo (visivo, uditivo, tattile…) è quindi caratterizzato da una sorta di impronta digitale cerebrale composta dai picchi di corrente che compongono il relativo potenziale evocato, e che possono venire rilevati tramite un’elettroencefalogramma. In gergo i picchi vengono indicati con una lettera (N se sono negativi, P se sono positivi) e un numero, che indica la latenza (in millesecondi) tra lo stimolo e l’insorgenza di quel picco.

In particolare, i ricercatori hanno trovato che durante la fase di sistole il picco conosciuto come P300, e associato alla percezione cosciente di uno stimolo, viene soppresso. Sembra che ciò sia dovuto al fatto che il cervello “spegne” la nostra esperienza cosciente, in modo da non dover essere in continuazione distratti dalla fase propulsiva del battito cardiaco.

Durante le loro indagini sulle interazioni cuore-cervello, Al e i colleghi hanno anche rivelato un secondo effetto del battito cardiaco sulla percezione, che dipende molto dalle differenze inter-individuali del sistema nervoso umano: se il cervello di una persona, tendenzialmente, mostra una risposta elevata al battito cardiaco, l’elaborazione dello stimolo nel cervello viene ulteriormente attenuata, e quindi quella persona rileva ancora meno lo stimolo esterno.

Meno indipendenti di quanto si credesse
Questi risultati, utili per la comprensione delle interazioni cuore-cervello nelle persone sane, hanno anche possibili implicazioni per i pazienti: “potrebbero aiutarci a capire perché i pazienti dopo l’ictus soffrono spesso di problemi cardiaci – spiega Arno Villringer, co-autore dello studio- e perché i pazienti con malattie cardiache spesso hanno una funzione cognitiva ridotta”.

Ognuno di noi poi sa bene che, a sua volta, la frequenza del battito cardiaco è influenzata dal risultato dell’elaborazione cognitiva di determinati stimoli: ad esempio, un potenziale pericolo che percepiamo (elaborato tramite l’emozione della paura) determinerà un aumento del battito cardiaco per predisporre alla fuga, mentre una situazione di relax psicofisico (come quella raggiunta durante le pratiche di meditazione) lo rallenterà.

Da sempre visti quasi come antagonisti, sembra quindi che cuore e cervello siano invece– per fortuna – una coppia affiatata, in grado di gestire e mediare al meglio la percezione delle informazioni provenienti dal mondo esterno, nonché dal nostro corpo.

Marcello Turconi

oggiscienza.it