Per scovare gli alieni bisogna cambiare frequenze

Per scovare gli alieni bisogna cambiare frequenze
Seti
Crediti: shutterstock

Se esistessero gli extraterrestri, per comunicare con noi non utilizzerebbero i segnali che attualmente inviamo nel cosmo.

Il monitoraggio delle frequenze radio provenienti dallo Spazio rientra nell’abc dei metodi di un bravo cacciatori di alieni. Se esistesse infatti una specie extraterrestre interessata a entrare in contatto con la nostra, il modo migliore per farci sapere che sono lì fuori sarebbero proprio le onde radio, le stesse che abbiamo utilizzato anche noi per inviare messaggi, come il famoso messaggio di Arecibo (il primo messaggio per gli alieni inviato dalla Terra), diretti ad eventuali civiltà galattiche in ascolto nel Cosmo. Fino ad oggi, tutti i programmi di ricerca Seti (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), come quello della Nasa per esempio, o quelli dell’Istituto Seti, non sono però riusciti ad individuare alcun segnale compatibile con un’origine extraterrestre. È tempo di arrendersi? Come spiega sulla rivista Acta Astronautica l’ingegnere David Messerschmitt, della University of California, la spiegazione potrebbe essere un’altra: stiamo ascoltando le frequenze sbagliate.

Negli attuali programmi Seti di norma vengono monitorate bande ristrette di frequenze radio, alla ricerca di segnali stabili che dimostrerebbero un’origine artificiale. Messaggi del genere, spiega però Messerschmitt, richiederebbero un’immensa quantità di energia per essere prodotti, e raggiungendo la Terra dopo un viaggio di diversi anni luce sarebbero impossibili da decodificare.

Trasmettere qualcosa di più di un semplice “siamo qui” sarebbe invece secondo Messerschmitt tra le priorità di qualunque civiltà aliena che decida di entrare in contatto con noi. È infatti quello che abbiamo fatto noi in tutti i messaggi inviati nel Cosmo: quello di Arecibo per esempio conteneva informazioni sul Sistema solare, sulla nostra specie, dettagli riguardo il nostro dna, e molto altro.

“Tutte le discussioni che ci sono state su come dovremmo comunicare la nostra presenza riguardavano informazioni, e come codificarle in modo che un extraterrestre potesse comprendere il messaggio e le informazioni in esso incluse”, racconta Messerschmitt sulle pagine del New Scientist. Secondo il ricercatore della University of California, il modo più efficiente che avrebbe a disposizione una specie aliena sarebbero brevi impulsi trasmessi su un‘ampia banda di frequenze.

Un sistema molto diverso da quello preso in considerazione tradizionalmente dai programmi Seti, ma che necessiterebbe di una quantità molto minore di energia, e permetterebbe di codificare molte più informazioni.

Unico problema: per captare messaggi del genere servirebbero antenne estremamente sensibili, con un area ricevente anche 10mila volte più larga di quelle utilizzate fino ad oggi. Secondo Messerschmitt comunque una via d’uscita ci sarebbe. Esistono infatti programmi, come quello del Seti@home, che analizzano i dati provenienti da decine di radiotelescopi in tutto il mondo attraverso il grid computing (sfruttando cioè i computer di casa di migliaia di volontari), alla ricerca di messaggi di forme di vita aliene. Opportunamente modificati, assicura Messerschmitt, questi sistemi di analisi permetterebbero di captare il genere di messaggi a banda larga da lui ipotizzati.

Simone Valesini

wired.it